Le tasche piene di sassi
Posted: Sun Dec 01, 2024 5:41 pm
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“Pensa se i nostri arti potessero essere indipendenti, staccarsi e andarsene dove vogliono? Sarebbe bellissimo vedere una gamba che da sola prende la metropolitana, incredibile non trovi?”
Carlo guarda Andrea scuotendo la testa.
“Ma cos’hai in quella testa bacata? Possibile che tu non abbia mai un pensiero normale, ma solo idee storte e strampalate. “
Andrea lo guarda, ma prima che possa replicare qualcosa Carlo continua: “Dici cose che se le dicesse un bambino farebbe sorridere, ma in bocca ad un uomo di quasi quarant’anni fanno pensare che abbia preso un colpo in testa.”
Andrea si fa serio: “La devi smettere di dirmi cose cattive, non fa bene né a te né a chi ti sta a sentire, hai troppa energia negativa, ho letto che è tutta energia che poi ti torna contro.”
“Finiscila di dire idiozie, tu mi farai impazzire, muoviti che dobbiamo andare al cantiere.”
Carlo prende il giubbotto e la borsa piena di attrezzi, poi ci ripensa e lascia la borsa a terra.
“Prendi tu la borsa.”
Andrea la solleva come se contenesse piume, da quando è bambino è sempre stato fortissimo, ma considerato da tutti come un frutto che nonostante abbia fatto il suo corso sia rimasto acerbo.
Andrea, alto al punto che scherzando i suoi genitori gli dicevano di fare attenzione a non toccare i fili della luce alzando le braccia, ha lineamenti fini uguali a quelli di sua madre Rina, Carlo invece è la fotocopia di suo padre Giovanni che certo non brillava per l’estetica e ha altezza media, nulla che desti attenzione.
In macchina Andrea accende la radio.
“Vai piano, bisogna correre solo in caso d’urgenza.”
Carlo lo guarda con fare ironico: “Ti sei messo a leggere il libro della patente?”
Andrea non coglie l’ironia e si mette a bassa voce a canticchiare, il fratello sbuffa poi spegne la musica. “Perché l’hai spenta?”
Carlo non fa tempo a controbattere, perché una moto gli taglia la strada.
“Idiota bastardo” urla; l’altro non risponde, ma la rabbia trasforma Carlo, così scende di scatto dalla macchina gridando e minacciando. Il motociclista stavolta lo sente, ferma la moto e scende, ma non avanza. Poi pesa quell’ometto smilzo: a guardarlo non pare essere un problema e perciò decide di avanzare, ma in quell’attimo scende anche Andrea che non ha nessuna voglia di litigare, ma è talmente un deterrente con i suoi due metri e le sue spalle larghe e dritte come le ante di un armadio che induce il motociclista a ritornare sulla sua moto insultandoli.
Carlo guarda Andrea poi sputa per terra: “Il mondo è pieno di vigliacchi.”
Andrea vorrebbe dire qualcosa, ma sa che se sbaglia suo fratello se la prenderebbe con lui: se c’è una cosa che ha imparato è che conviene stare zitti.
“Stavo aspettando che si avvicinasse, sai cosa gli avrei fatto?”
Andrea annuisce, ma a Carlo non basta: “Gli davo come regalo provare quanto è dura la mia testa.” “Gli è andata bene” esclama Andrea mentre suo fratello ancora scruta l’orizzonte e poi si tocca la testa.
“Senti, è calda, era pronta, gli avrei frantumato il naso.”
Andrea gli tocca la fronte poi annuisce: “Era pronta.” L’uso della testa è il suo cavallo di battaglia, il suo modus operandi è sempre lo stesso, glielo ha sentito raccontare almeno mille volte: si avvicina tranquillo con il fare di uno che vuole solo parlare, ma quando l’altro è a tiro gli appioppa una testata mirando al naso ed è fatta. Con questo metodo, si vanta di aver rotto più di trenta tra zigomi e nasi.
Andrea riaccende la musica, ma dopo due canzoni Carlo spegne.
“Hai già solo nuvole nella testa la musica te le fa aumentare, se proprio vuoi ascolta la musica dei cavalli del motore.”
Andrea sbuffa, la storia delle nuvole nella testa proprio non la capisce e poi a lui i cavalli piacciono liberi e non dentro un motore, così riaccende la radio mentre Carlo lo guarda nervoso.
Se qualcuno gli avesse chiesto chi mai fosse suo fratello avrebbe detto che era un tipo sveglio, bravo ad andare in macchina e anche in moto, un bravo meccanico, in gamba in molte cose, perfino con le donne, tanto che era stato contemporaneamente fidanzato con tre donne. Lui invece non aveva neanche la patente e in moto, quando ci era salito, era subito caduto e per quanto riguardava le donne lui ne aveva avuta solo una, Sonia.
Ogni tanto ci pensava e gli mancava la sua voce, perché Sonia per lui aveva una voce bellissima, da sirena. Quando se ne andò sbattendo la porta Carlo, per confortarlo, disse solo: “Fidati, è meglio così.”
Ma Andrea non si riprendeva, brutta malattia quella d’amore non ci sono né farmacie né pastiglie contro le sofferenze del cuore. Carlo, vedendolo soffrire, pensò bene di fargli un regalo.
“Domani ti faccio conoscere una mia amica, ha visto una tua foto e ti vuole incontrare.”
“Quale foto gli hai fatto vedere? Lo sai che non vengo bene in foto.”
“Dettagli, ti interessi solo di dettagli, questo è il tuo problema, lascia perdere le menate che hai in testa, vedrai che ti piacerà.”
Andrea si mise in ghingheri, si tagliò i capelli e con il completo sembrava un distinto uomo d’affari. Quella che Carlo chiamava amica era in verità una prostituta, ma Andrea, ovviamente, non lo sapeva. Appena la vide pensò subito che fosse differente da Sonia, molto differente. Marika era bionda e prosperosa, aveva un viso truccato e la gonna un po’ troppo corta, pensò che se ci fosse stata ancora sua madre certo non ne sarebbe stata contenta. Si muoveva come se conoscesse già la casa, disse subito che poteva restare al massimo un’ora e quando le offrì da bere accettò solo un caffè. Andrea la guardava, era carina e aveva un viso simpatico, ma anche triste. Si misero a parlare, la fece ridere finché ad un certo punto Marika disse: “Sei divertente, ma l’orologio corre, vogliamo fare?”
Andrea non era un fulmine, ma Marika era stata talmente esplicita che anche un cieco avrebbe visto la strada che aveva davanti: le diede una carezza, lei sorrise e ridusse la distanza stringendolo in una morsa di baci.
“Aspetta accendo la radio.”
Lei rimase senza parole, di solito gli uomini le saltavano addosso appena la vedevano, uno come lui non le era mai capitato.
“Vuoi ballare?”
Senza attendere la risposta l’afferrò e le fece fare tre giri di danza, una strana danza come quella dei pinguini in amore. Quando la musica terminò tutto sembrava diverso: parlarono di tante cose, delle ingiustizie sociali, dei loro genitori, non fecero nulla, ma fu una bella serata.
Carlo quando lo seppe scosse la testa: “Che figura mi hai fatto fare, dovevi solo fare l’uomo.”
La macchina corre, Carlo fa una brusca frenata: “Ci fermiamo un attimo al bar oggi, che dici?”
Faceva sempre così, chiedeva, ma non attendeva mai la risposta. Andrea guarda l’orologio, sono al pelo, ma è inutile dire qualcosa di contrario per due motivi: Carlo non lo avrebbe ascoltato e poi era già fuori dalla macchina. Il bar era un postaccio, la mattina pieno di perditempo, il pomeriggio e la sera di ubriachi e balordi. Franco, il barista, un uomo sui cinquanta con la faccia butterata, la barba incolta e una cicatrice vicina all’occhio sinistro quando vede entrare Carlo ha un’espressione di fastidio, ma dura un secondo, poi gli ritorna il solito viso impenetrabile.
“Due bianchi e tre cartelle per il lotto.”
Franco pare non aver sentito, poi senza neanche alzare il viso dal lavandino dove sta pulendo le tazzine a mezza voce dice: “Prima paga quello che mi devi.”
“Non mi trattare come uno di questi falliti, dimmi ti ho mai fregato? Lo sanno tutti che pago quello che devo, vero Andrea?”
Chiamato in causa Andrea muove la testa in su e in giù poi aggiunge: “Mio fratello paga sempre i conti.”
“Tu hai i soldi da dare a tuo fratello?” Andrea esita a rispondere poi si guarda in tasca.
“Mi dispiace, non ho nulla.”
Carlo ha un moto di rabbia.
“Franco è con me che devi parlare, non con Andrea.”
“La storia con te la conosco a memoria, non hai soldi ma domani me li porterai e quel domani diventa un futuro lontano e incerto.”
Carlo sta diventando incandescente, ma con Franco è meglio lasciar perdere, sa bene che sotto il banco ha una mazza che all’occorrenza usa sulla schiena di chi diventa inopportuno. Esce mandando a quel paese il bar e il suo gestore che c’è abituato, con gli insulti che gli mandano o che gli scrivono nel bagno potrebbe farci un libro. Andrea segue suo fratello salutando Franco imbarazzato con un sorriso.
“Io i pidocchi di questa baracca li schiaccio, in questo schifo di bar non ci metto più piede.” Quando Andrea sale in macchina Carlo se la prende con lui: “Con chi stai, con quel buffone o con tuo fratello?” Andrea attende troppo a rispondere.
“La prossima volta te la fai a piedi.”
Arrivare al cantiere è poco più di cinque minuti: Carlo non spiaccica una parola, Andrea visto che la musica è spenta si ripete nella testa una melodia.
“Eccoci arrivati, sei contento? Questo è il posto per gente che abbassa la testa come te, come fai a non capire che ci rubano oltre ai soldi anche la vita? Corri dal padrone che ti aspetta.”
Andrea scende dalla macchina, prende la borsa, timbra il cartellino ed entra. Giornata dura tra polvere e fatica; Andrea sta male, senza suo fratello il tempo pare allungarsi, cerca un contatto con lui, il suo umore non pare migliorato, prova timoroso ad incontrare il suo sguardo, ma non c’è nulla che gli faccia pensare ad una possibile pace. Maledizione è solo lunedì, il fine settimana è così lontano che si fa fatica solo a pensarci. Tra sé immagina che se diventasse ricco saprebbe come fare ridere Carlo, gli comprerebbe un auto bella, una di quelle sportive che tanto gli piacciono e poi andrebbero insieme a fare un viaggio in America, in India o in Argentina.
Carlo a metà mattina getta gli attrezzi a terra e si allontana dal lavoro per chissà dove, Andrea lo guarda e prova a chiedergli dove andasse, lui si gira e gli risponde secco: “Vedi forse le catene? Io non chiedo certo il permesso per far qualcosa, ma è inutile dirtelo, tu non capisci.”
Andrea vorrebbe ribattere e dimostrargli che nemmeno lui aveva le catene ai piedi, ma Carlo è sempre più veloce dei suoi pensieri e si allontana con passo così veloce che dopo un attimo lo perde tra bancali e piccole montagne di malta.
Da tempo si mette in tasca un sassetto così quando torna a casa gli torna in mente un pensiero che altrimenti fuggirebbe. Carlo dice che è uno stratagemma da idioti, ma lui non ha letto di quel bambino che con le molliche di pane ritrovava la strada, lui invece ritrova coi sassi i suoi pensieri.
Il capocantiere lo osserva, si avvicina di soppiatto: ha un nome strano, Venanzio, che Andrea non ha mai ben imparato, per fortuna tutti lo chiamano signor V. E’ un uomo scontroso con un’età indefinibile, ha la pelle che tende al giallo, nessuno lo ha mai visto contento nemmeno il venerdì quando già si avverte il piacere del fine settimana. Appena gli giunge alle spalle urla: “Andreaaaa, cosa diavolo stai combinando? Quel fottuto di tuo fratello dov’è?”
Andrea è in panico, V ha la faccia da stupratore di anime; se ci fosse Carlo saprebbe come tenergli testa, gli risponderebbe, lo prenderebbe in giro, ma ad Andrea non esce una parola.
“Sono stanco di voi due, tuo fratello è uno scansafatiche e tu non capisci niente sei da ricovero!” V attende per un attimo una replica, ma Andrea ha la testa confusa, perché mai lo dovrebbero ricoverare, mica è malato.
“Quando tuo fratello si degna di tornare venite in ufficio.”
Andrea pare destarsi, V gli ha già girato le spalle ma lui gli chiede: “Perché dobbiamo venire in ufficio?”
V guarda quest’uomo alto come un albero e grosso come un toro e seccato gli risponde: “Finite la settimana e poi state a casa.” Poi torna a muoversi verso il suo ufficio.
Andrea ha quasi una convulsione, pensa che adesso Carlo dirà che è colpa sua e così preso dall’ansia pensa che l’unica cosa sia provare a far cambiare idea a V. Dopo minuti passati a rimuginare si dirige verso il suo ufficio, questa storia la deve rimediare a tutti costi. Quando entra V è seduto e parla al telefono, ha un buon tono e non pare arrabbiato, ma appena lo vede chiude la telefonata e diventa quello di sempre.
“Non ti hanno insegnato a bussare, sei proprio matto.”
Andrea sbarra gli occhi: “Io non sono matto.” Con la mano destra gli afferra la gola e la stringe, V lo colpisce sul viso che prende a sanguinare: scende una pioggia di sangue, ma Andrea non sente il dolore, impassibile continua a stringere, l’altro è cianotico e colpisce senza ormai forza, sta quasi per svenire. Nel frattempo qualcuno ha detto che Andrea è stato maltrattato e offeso da V a Carlo che ora ha negli occhi la solita furia che lo rende cieco, nessuno a parte lui maltratta suo fratello.
Entra sbattendo la porta, ma una volta dentro non crede ai suoi occhi: tempestivamente interviene, con enorme fatica libera V dalla morsa di Andrea.
“Porco demonio cosa stai facendo, lo vuoi uccidere?”
Andrea col volto coperto di sangue non risponde. V con gli occhi pieni di terrore con voce sottile dice : “ Vi rovino.”
“Spiegami cosa ti ha fatto questo sanguisuga.”
Andrea risponde: “Mi tratta male e mi dice cose cattive, io non sono matto.”
V prova a chiamare qualcuno, ma Carlo gli tappa la bocca.
“Stammi a sentire, per come la vedo io qui c’è un operaio pieno di sangue: se ora andiamo al pronto soccorso ci danno almeno tre settimane, probabilmente ha il naso rotto.”
“Mi stava uccidendo questo pazzo.”
Andrea si avvicina e lo afferra stavolta con due mani.
Carlo gli si fa addosso “Fermati dopo andiamo alla stazione. Te lo giuro.”
Andrea ha un attimo di esitazione, ma poi allenta la presa.
“Stai attento a quello che dici, mio fratello se ti stringe con due mani ti risvegli all’inferno.”
V guarda quelle due tenaglie e si placa, Carlo approfitta per parlare.
“Ora le soluzioni sono due: la prima ti metti ad urlare e racconti la tua versione sapendo che pochi ti crederebbero. Andrea non fa male ad una mosca, guarda la sua faccia è piena di sangue, io testimonierò che entrando ti ho visto che lo colpivi, perderai il posto e senza i soldi uno come te non ha nulla, perché solo comprando tu puoi avere qualcosa. La seconda, finiamo qui il nostro lavoro, andiamo al pronto soccorso, ma non ti denunciamo. Diremo che ha sbattuto contro una trave, in caso tu testimonierai a nostro favore e poi ci vediamo tra tre settimane, il tempo che scompaiono i segni in faccia ovviamente tutto pagato da ‘mamma cantiere’, cosa ne pensi?”
“Andatevene e tornate tra due settimane.”
“Ti ho detto tre settimane caprone.”
Prima di uscire Andrea si pulisce il volto su una tendina dell’ufficio: “Noi non siamo schiavi.”
In macchina Carlo è allegro, accende la radio e si mette a fischiettare, Andrea si guarda la faccia nello specchietto.
“Si vede tanto? Mi ha fatto un occhio nero.”
Carlo lo guarda e ride: “Non siamo schiavi, ma cosa hai in testa?”
“Noi due non siamo schiavi, andiamo alla stazione, vero?”
Carlo ingrana la marcia e non risponde, ma Andrea insiste: “Andiamo alla stazione?”
Carlo ride, si accende una sigaretta, ma Andrea scuote la testa: “Non si fuma in macchina.” Carlo sorpassa tre semafori poi si ferma.
“Eccola la tua stazione dove si arriva e si parte.”
Andrea la guarda e resta muto in silenzio come un credente davanti ad una cattedrale.
“Un giorno anche noi partiremo vero Carlo?”
Carlo lo abbraccia. Andrea di scatto apre la portiera della macchina, e si indirizza verso un cestino, mima il gesto per due volte di gettare qualcosa, un signore con il cane lo osserva, cerca di capire cosa diavolo abbia gettato, poi non capendo si allontana trascinando il suo cane. Quando Andrea ritorna in macchina Carlo lo osserva scoppiando a ridere.
“Sei proprio strano, cosa ti passa per la testa?”
Stavolta la risposta di Andrea non si fa attendere; “Ho gettato nel cestino le nostre catene, da oggi possiamo andare dove vogliamo.”
“Pensa se i nostri arti potessero essere indipendenti, staccarsi e andarsene dove vogliono? Sarebbe bellissimo vedere una gamba che da sola prende la metropolitana, incredibile non trovi?”
Carlo guarda Andrea scuotendo la testa.
“Ma cos’hai in quella testa bacata? Possibile che tu non abbia mai un pensiero normale, ma solo idee storte e strampalate. “
Andrea lo guarda, ma prima che possa replicare qualcosa Carlo continua: “Dici cose che se le dicesse un bambino farebbe sorridere, ma in bocca ad un uomo di quasi quarant’anni fanno pensare che abbia preso un colpo in testa.”
Andrea si fa serio: “La devi smettere di dirmi cose cattive, non fa bene né a te né a chi ti sta a sentire, hai troppa energia negativa, ho letto che è tutta energia che poi ti torna contro.”
“Finiscila di dire idiozie, tu mi farai impazzire, muoviti che dobbiamo andare al cantiere.”
Carlo prende il giubbotto e la borsa piena di attrezzi, poi ci ripensa e lascia la borsa a terra.
“Prendi tu la borsa.”
Andrea la solleva come se contenesse piume, da quando è bambino è sempre stato fortissimo, ma considerato da tutti come un frutto che nonostante abbia fatto il suo corso sia rimasto acerbo.
Andrea, alto al punto che scherzando i suoi genitori gli dicevano di fare attenzione a non toccare i fili della luce alzando le braccia, ha lineamenti fini uguali a quelli di sua madre Rina, Carlo invece è la fotocopia di suo padre Giovanni che certo non brillava per l’estetica e ha altezza media, nulla che desti attenzione.
In macchina Andrea accende la radio.
“Vai piano, bisogna correre solo in caso d’urgenza.”
Carlo lo guarda con fare ironico: “Ti sei messo a leggere il libro della patente?”
Andrea non coglie l’ironia e si mette a bassa voce a canticchiare, il fratello sbuffa poi spegne la musica. “Perché l’hai spenta?”
Carlo non fa tempo a controbattere, perché una moto gli taglia la strada.
“Idiota bastardo” urla; l’altro non risponde, ma la rabbia trasforma Carlo, così scende di scatto dalla macchina gridando e minacciando. Il motociclista stavolta lo sente, ferma la moto e scende, ma non avanza. Poi pesa quell’ometto smilzo: a guardarlo non pare essere un problema e perciò decide di avanzare, ma in quell’attimo scende anche Andrea che non ha nessuna voglia di litigare, ma è talmente un deterrente con i suoi due metri e le sue spalle larghe e dritte come le ante di un armadio che induce il motociclista a ritornare sulla sua moto insultandoli.
Carlo guarda Andrea poi sputa per terra: “Il mondo è pieno di vigliacchi.”
Andrea vorrebbe dire qualcosa, ma sa che se sbaglia suo fratello se la prenderebbe con lui: se c’è una cosa che ha imparato è che conviene stare zitti.
“Stavo aspettando che si avvicinasse, sai cosa gli avrei fatto?”
Andrea annuisce, ma a Carlo non basta: “Gli davo come regalo provare quanto è dura la mia testa.” “Gli è andata bene” esclama Andrea mentre suo fratello ancora scruta l’orizzonte e poi si tocca la testa.
“Senti, è calda, era pronta, gli avrei frantumato il naso.”
Andrea gli tocca la fronte poi annuisce: “Era pronta.” L’uso della testa è il suo cavallo di battaglia, il suo modus operandi è sempre lo stesso, glielo ha sentito raccontare almeno mille volte: si avvicina tranquillo con il fare di uno che vuole solo parlare, ma quando l’altro è a tiro gli appioppa una testata mirando al naso ed è fatta. Con questo metodo, si vanta di aver rotto più di trenta tra zigomi e nasi.
Andrea riaccende la musica, ma dopo due canzoni Carlo spegne.
“Hai già solo nuvole nella testa la musica te le fa aumentare, se proprio vuoi ascolta la musica dei cavalli del motore.”
Andrea sbuffa, la storia delle nuvole nella testa proprio non la capisce e poi a lui i cavalli piacciono liberi e non dentro un motore, così riaccende la radio mentre Carlo lo guarda nervoso.
Se qualcuno gli avesse chiesto chi mai fosse suo fratello avrebbe detto che era un tipo sveglio, bravo ad andare in macchina e anche in moto, un bravo meccanico, in gamba in molte cose, perfino con le donne, tanto che era stato contemporaneamente fidanzato con tre donne. Lui invece non aveva neanche la patente e in moto, quando ci era salito, era subito caduto e per quanto riguardava le donne lui ne aveva avuta solo una, Sonia.
Ogni tanto ci pensava e gli mancava la sua voce, perché Sonia per lui aveva una voce bellissima, da sirena. Quando se ne andò sbattendo la porta Carlo, per confortarlo, disse solo: “Fidati, è meglio così.”
Ma Andrea non si riprendeva, brutta malattia quella d’amore non ci sono né farmacie né pastiglie contro le sofferenze del cuore. Carlo, vedendolo soffrire, pensò bene di fargli un regalo.
“Domani ti faccio conoscere una mia amica, ha visto una tua foto e ti vuole incontrare.”
“Quale foto gli hai fatto vedere? Lo sai che non vengo bene in foto.”
“Dettagli, ti interessi solo di dettagli, questo è il tuo problema, lascia perdere le menate che hai in testa, vedrai che ti piacerà.”
Andrea si mise in ghingheri, si tagliò i capelli e con il completo sembrava un distinto uomo d’affari. Quella che Carlo chiamava amica era in verità una prostituta, ma Andrea, ovviamente, non lo sapeva. Appena la vide pensò subito che fosse differente da Sonia, molto differente. Marika era bionda e prosperosa, aveva un viso truccato e la gonna un po’ troppo corta, pensò che se ci fosse stata ancora sua madre certo non ne sarebbe stata contenta. Si muoveva come se conoscesse già la casa, disse subito che poteva restare al massimo un’ora e quando le offrì da bere accettò solo un caffè. Andrea la guardava, era carina e aveva un viso simpatico, ma anche triste. Si misero a parlare, la fece ridere finché ad un certo punto Marika disse: “Sei divertente, ma l’orologio corre, vogliamo fare?”
Andrea non era un fulmine, ma Marika era stata talmente esplicita che anche un cieco avrebbe visto la strada che aveva davanti: le diede una carezza, lei sorrise e ridusse la distanza stringendolo in una morsa di baci.
“Aspetta accendo la radio.”
Lei rimase senza parole, di solito gli uomini le saltavano addosso appena la vedevano, uno come lui non le era mai capitato.
“Vuoi ballare?”
Senza attendere la risposta l’afferrò e le fece fare tre giri di danza, una strana danza come quella dei pinguini in amore. Quando la musica terminò tutto sembrava diverso: parlarono di tante cose, delle ingiustizie sociali, dei loro genitori, non fecero nulla, ma fu una bella serata.
Carlo quando lo seppe scosse la testa: “Che figura mi hai fatto fare, dovevi solo fare l’uomo.”
La macchina corre, Carlo fa una brusca frenata: “Ci fermiamo un attimo al bar oggi, che dici?”
Faceva sempre così, chiedeva, ma non attendeva mai la risposta. Andrea guarda l’orologio, sono al pelo, ma è inutile dire qualcosa di contrario per due motivi: Carlo non lo avrebbe ascoltato e poi era già fuori dalla macchina. Il bar era un postaccio, la mattina pieno di perditempo, il pomeriggio e la sera di ubriachi e balordi. Franco, il barista, un uomo sui cinquanta con la faccia butterata, la barba incolta e una cicatrice vicina all’occhio sinistro quando vede entrare Carlo ha un’espressione di fastidio, ma dura un secondo, poi gli ritorna il solito viso impenetrabile.
“Due bianchi e tre cartelle per il lotto.”
Franco pare non aver sentito, poi senza neanche alzare il viso dal lavandino dove sta pulendo le tazzine a mezza voce dice: “Prima paga quello che mi devi.”
“Non mi trattare come uno di questi falliti, dimmi ti ho mai fregato? Lo sanno tutti che pago quello che devo, vero Andrea?”
Chiamato in causa Andrea muove la testa in su e in giù poi aggiunge: “Mio fratello paga sempre i conti.”
“Tu hai i soldi da dare a tuo fratello?” Andrea esita a rispondere poi si guarda in tasca.
“Mi dispiace, non ho nulla.”
Carlo ha un moto di rabbia.
“Franco è con me che devi parlare, non con Andrea.”
“La storia con te la conosco a memoria, non hai soldi ma domani me li porterai e quel domani diventa un futuro lontano e incerto.”
Carlo sta diventando incandescente, ma con Franco è meglio lasciar perdere, sa bene che sotto il banco ha una mazza che all’occorrenza usa sulla schiena di chi diventa inopportuno. Esce mandando a quel paese il bar e il suo gestore che c’è abituato, con gli insulti che gli mandano o che gli scrivono nel bagno potrebbe farci un libro. Andrea segue suo fratello salutando Franco imbarazzato con un sorriso.
“Io i pidocchi di questa baracca li schiaccio, in questo schifo di bar non ci metto più piede.” Quando Andrea sale in macchina Carlo se la prende con lui: “Con chi stai, con quel buffone o con tuo fratello?” Andrea attende troppo a rispondere.
“La prossima volta te la fai a piedi.”
Arrivare al cantiere è poco più di cinque minuti: Carlo non spiaccica una parola, Andrea visto che la musica è spenta si ripete nella testa una melodia.
“Eccoci arrivati, sei contento? Questo è il posto per gente che abbassa la testa come te, come fai a non capire che ci rubano oltre ai soldi anche la vita? Corri dal padrone che ti aspetta.”
Andrea scende dalla macchina, prende la borsa, timbra il cartellino ed entra. Giornata dura tra polvere e fatica; Andrea sta male, senza suo fratello il tempo pare allungarsi, cerca un contatto con lui, il suo umore non pare migliorato, prova timoroso ad incontrare il suo sguardo, ma non c’è nulla che gli faccia pensare ad una possibile pace. Maledizione è solo lunedì, il fine settimana è così lontano che si fa fatica solo a pensarci. Tra sé immagina che se diventasse ricco saprebbe come fare ridere Carlo, gli comprerebbe un auto bella, una di quelle sportive che tanto gli piacciono e poi andrebbero insieme a fare un viaggio in America, in India o in Argentina.
Carlo a metà mattina getta gli attrezzi a terra e si allontana dal lavoro per chissà dove, Andrea lo guarda e prova a chiedergli dove andasse, lui si gira e gli risponde secco: “Vedi forse le catene? Io non chiedo certo il permesso per far qualcosa, ma è inutile dirtelo, tu non capisci.”
Andrea vorrebbe ribattere e dimostrargli che nemmeno lui aveva le catene ai piedi, ma Carlo è sempre più veloce dei suoi pensieri e si allontana con passo così veloce che dopo un attimo lo perde tra bancali e piccole montagne di malta.
Da tempo si mette in tasca un sassetto così quando torna a casa gli torna in mente un pensiero che altrimenti fuggirebbe. Carlo dice che è uno stratagemma da idioti, ma lui non ha letto di quel bambino che con le molliche di pane ritrovava la strada, lui invece ritrova coi sassi i suoi pensieri.
Il capocantiere lo osserva, si avvicina di soppiatto: ha un nome strano, Venanzio, che Andrea non ha mai ben imparato, per fortuna tutti lo chiamano signor V. E’ un uomo scontroso con un’età indefinibile, ha la pelle che tende al giallo, nessuno lo ha mai visto contento nemmeno il venerdì quando già si avverte il piacere del fine settimana. Appena gli giunge alle spalle urla: “Andreaaaa, cosa diavolo stai combinando? Quel fottuto di tuo fratello dov’è?”
Andrea è in panico, V ha la faccia da stupratore di anime; se ci fosse Carlo saprebbe come tenergli testa, gli risponderebbe, lo prenderebbe in giro, ma ad Andrea non esce una parola.
“Sono stanco di voi due, tuo fratello è uno scansafatiche e tu non capisci niente sei da ricovero!” V attende per un attimo una replica, ma Andrea ha la testa confusa, perché mai lo dovrebbero ricoverare, mica è malato.
“Quando tuo fratello si degna di tornare venite in ufficio.”
Andrea pare destarsi, V gli ha già girato le spalle ma lui gli chiede: “Perché dobbiamo venire in ufficio?”
V guarda quest’uomo alto come un albero e grosso come un toro e seccato gli risponde: “Finite la settimana e poi state a casa.” Poi torna a muoversi verso il suo ufficio.
Andrea ha quasi una convulsione, pensa che adesso Carlo dirà che è colpa sua e così preso dall’ansia pensa che l’unica cosa sia provare a far cambiare idea a V. Dopo minuti passati a rimuginare si dirige verso il suo ufficio, questa storia la deve rimediare a tutti costi. Quando entra V è seduto e parla al telefono, ha un buon tono e non pare arrabbiato, ma appena lo vede chiude la telefonata e diventa quello di sempre.
“Non ti hanno insegnato a bussare, sei proprio matto.”
Andrea sbarra gli occhi: “Io non sono matto.” Con la mano destra gli afferra la gola e la stringe, V lo colpisce sul viso che prende a sanguinare: scende una pioggia di sangue, ma Andrea non sente il dolore, impassibile continua a stringere, l’altro è cianotico e colpisce senza ormai forza, sta quasi per svenire. Nel frattempo qualcuno ha detto che Andrea è stato maltrattato e offeso da V a Carlo che ora ha negli occhi la solita furia che lo rende cieco, nessuno a parte lui maltratta suo fratello.
Entra sbattendo la porta, ma una volta dentro non crede ai suoi occhi: tempestivamente interviene, con enorme fatica libera V dalla morsa di Andrea.
“Porco demonio cosa stai facendo, lo vuoi uccidere?”
Andrea col volto coperto di sangue non risponde. V con gli occhi pieni di terrore con voce sottile dice : “ Vi rovino.”
“Spiegami cosa ti ha fatto questo sanguisuga.”
Andrea risponde: “Mi tratta male e mi dice cose cattive, io non sono matto.”
V prova a chiamare qualcuno, ma Carlo gli tappa la bocca.
“Stammi a sentire, per come la vedo io qui c’è un operaio pieno di sangue: se ora andiamo al pronto soccorso ci danno almeno tre settimane, probabilmente ha il naso rotto.”
“Mi stava uccidendo questo pazzo.”
Andrea si avvicina e lo afferra stavolta con due mani.
Carlo gli si fa addosso “Fermati dopo andiamo alla stazione. Te lo giuro.”
Andrea ha un attimo di esitazione, ma poi allenta la presa.
“Stai attento a quello che dici, mio fratello se ti stringe con due mani ti risvegli all’inferno.”
V guarda quelle due tenaglie e si placa, Carlo approfitta per parlare.
“Ora le soluzioni sono due: la prima ti metti ad urlare e racconti la tua versione sapendo che pochi ti crederebbero. Andrea non fa male ad una mosca, guarda la sua faccia è piena di sangue, io testimonierò che entrando ti ho visto che lo colpivi, perderai il posto e senza i soldi uno come te non ha nulla, perché solo comprando tu puoi avere qualcosa. La seconda, finiamo qui il nostro lavoro, andiamo al pronto soccorso, ma non ti denunciamo. Diremo che ha sbattuto contro una trave, in caso tu testimonierai a nostro favore e poi ci vediamo tra tre settimane, il tempo che scompaiono i segni in faccia ovviamente tutto pagato da ‘mamma cantiere’, cosa ne pensi?”
“Andatevene e tornate tra due settimane.”
“Ti ho detto tre settimane caprone.”
Prima di uscire Andrea si pulisce il volto su una tendina dell’ufficio: “Noi non siamo schiavi.”
In macchina Carlo è allegro, accende la radio e si mette a fischiettare, Andrea si guarda la faccia nello specchietto.
“Si vede tanto? Mi ha fatto un occhio nero.”
Carlo lo guarda e ride: “Non siamo schiavi, ma cosa hai in testa?”
“Noi due non siamo schiavi, andiamo alla stazione, vero?”
Carlo ingrana la marcia e non risponde, ma Andrea insiste: “Andiamo alla stazione?”
Carlo ride, si accende una sigaretta, ma Andrea scuote la testa: “Non si fuma in macchina.” Carlo sorpassa tre semafori poi si ferma.
“Eccola la tua stazione dove si arriva e si parte.”
Andrea la guarda e resta muto in silenzio come un credente davanti ad una cattedrale.
“Un giorno anche noi partiremo vero Carlo?”
Carlo lo abbraccia. Andrea di scatto apre la portiera della macchina, e si indirizza verso un cestino, mima il gesto per due volte di gettare qualcosa, un signore con il cane lo osserva, cerca di capire cosa diavolo abbia gettato, poi non capendo si allontana trascinando il suo cane. Quando Andrea ritorna in macchina Carlo lo osserva scoppiando a ridere.
“Sei proprio strano, cosa ti passa per la testa?”
Stavolta la risposta di Andrea non si fa attendere; “Ho gettato nel cestino le nostre catene, da oggi possiamo andare dove vogliamo.”