[Lab15] Chi semina vento
Posted: Sun Nov 24, 2024 11:16 am
Sulla fine del generale Eriberto Magliacci di RoccaMula, eroe della grande guerra e per questo pluridecorato, spirava da sempre un alone di mistero che nessuno aveva mai osato dissipare.
Sussurri, alzate di sopracciglio, frasi che si limitavano a vari Eh beh… D’altra parte… ma nessuno che volesse raccontare per filo e per segno come fosse andata veramente.
Non Donna Filomena, da allora drappeggiata nel nero vedovile, né Agata, l’unica figlia, da allora rimasta in virginale cura dei possedimenti di famiglia.
Il da allora si dice risalisse almeno a quindici anni prima, a un ricevimento di fine ottobre a cui intervennero notabili e maggiorenti di RoccaMula e zone circostanti.
Fiaccole lungo il viale d’accesso, valletti in attesa e un gran viavai di carrozze come sempre ad ogni evento mondano dai Migliacci organizzato, ma più di sempre, dato che in tale circostanza il generale avrebbe annunciato il fidanzamento di Agata con l’anziano colonnello Raniero Salvestrini, compagno d’arme e amico fraterno del generale medesimo.
Costui, segaligno, cereo, dardeggiava sguardi lubrichi verso qualsiasi cosa mostrasse sembianze femminee, foss’anche accomodata tra le vivande del buffet.
«È forse pollo questo?» biascicava puntando l’indice ritorto.
«No, colonnello, è gallina farcita di salsiccia.»
«Ah, farcita di salsiccia…» E poi ad Agata: «Una bella gallinella con la salsiccia dentro» ripeteva con un risucchio osceno, ammiccando compiaciuto del fine doppio senso.
La povera fanciulla, che fanciulla non lo era più da tempo, forse per questo s’era adattata a quelle nozze che certo la disgustavano, ma che sperava brevi.
«È di eccelsa casata, figlia mia. E ricco» le diceva Donna Filomena. «Cosa vuoi di più?»
L’amore forse? Quel palpito che un giorno le sfiorò la pelle e che le fremeva ancora in grembo al solo pronunciarne il nome? «Non è adatto, non è appropriato.» Che disparve all’improvviso, trascinato nella boscaglia dagli uomini di suo padre, come ogni altro che aveva osato levar lo sguardo su di lei? «Non fa per te. Dimenticalo.»
L’amore. Quel vuoto che le rimase dentro a rimembrar dolcezze ch’ella tentava invano di colmare con cannoli e bomboloni, sfogliatelle, cioccolate, giuggiole e meringhe. L’amore.
Agata guardava la sua immagine allo specchio della toletta, il collo ch’era tutt’uno con le spalle, la folta peluria ai lati della bocca e la vana leggiadria di fiocchi e merletti che Donna Filomena aveva sempre imposto rosa, quasi non bastasse il tratto suino di tutta la figura.
Adesso tutto quel ben di Dio sarebbe finito nelle adunche mani del colonnello Raniero Salvestrini. Cosa voleva di più?
Dunque si ebbe ad allestire il ricevimento. In pompa magna lo si volle, dacché il fidanzamento della figlia del generale sarebbe dovuta esser cosa da lasciare il segno. E allora stragi di pollame e cacciagione, ogni sorta di manicaretti prelibati e fiumi di quel vino che riposava nei tonneaux delle cantine. Venne ingaggiata per l’occasione l’orchestra del maestro Cervolazzi, con la comanda di lasciare sempre un sottofondo delicato, almeno fino all’inizio delle danze vere e proprie.
Fu con le prime note del Valzer Brillante di Verdi che accadde l’inaspettato.
Agata si alzò dal divanetto dove conversavano le dame, veleggiò attraverso la sala e attraccò proprio davanti al padre restando a beccheggiare lievemente come una chiatta in rada.
Questi sulle prime non vi badò, intento com’era ad esporre a certi giovani ufficiali i pregi della colonizzazione.
«Il Sud dell’America, l’Africa, il mondo è pieno di posti dove si vive in condizioni animalesche» concionava. «Bipedi inconsapevoli, a cui è dovere di ogni galantuomo mostrare cosa sia la civiltà.»
«Oh sì, concordo» disse un tenentino azzimato, lanciando occhiate intorno per accertarsi di esser stato il primo a concordare. «Perché il difetto peggiore di costoro non è tanto l’esser selvaggi, quanto l’ostinazione a rimanervi.»
«Per questo serve mano ferma» fece il generale. «All’occorrenza anche severità.» E nel dirlo gli tornò in mente quello scudiscio che tante situazioni aveva risolto con semplicità ed efficacia. Una in particolare, in terra somala, che riguardava il giacersi con Rahima, undici anni, forse dodici, e l’arrivo inaspettato del fratello Bashir o Rashid o come diavolo si chiamasse non avrebbe fatto alcuna differenza, che le nerbate gli sarebbero toccate con qualsiasi nome.
Dovettero tenerlo in quattro per consentire a lui di portare a termine ciò che gli era rimasto, per così dire a mezz’asta. E in quattro continuarono a tenerlo fermo mentre con il suddetto scudiscio gli chiariva quale fosse il suo posto. Bestiole.
Fu al secondo colpetto di tosse che il generale si avvide della figlia: «Agata.»
«Mi fareste il dono di questo valzer?» disse ella con voce ferma.
«Perché me lo chiedi? Non sono avvezzo alle danze, lo sai».
«Suvvia, non fatevi pregare. Dopotutto è tradizione che un padre balli con la figlia il giorno del suo fidanzamento.» Lo disse con un guizzo negli occhi, inusitato quanto l’invito.
Il generale si guardò intorno cercando qualcuno che si offrisse al posto suo. Ma non accadde.
Agata continuava a beccheggiare, gli astanti ad annuire. Non c’era verso di evitare quel cimento. Dunque si alzò, accolse nella sua la mano della figlia e raggiunse il centro della sala.
Il maestro Cervolazzi aizzava i violini a inseguire il flauto mentre il generale cercava di ricordare quale piede muovere per primo.
Passo di cambio, giro naturale, passo di cambio, giro rovescio. Due giri. Naturale, rovescio e poi da capo. Cosa avrà mai questo valzer da esser così gradito. Roba da donne.
Agata lo fissava. Non si era mai accorto che anche lei avesse i baffi. Pazienza, ormai era un problema del colonnello.
«Devo dirvi una cosa» fece lei.
«Ti ascolto.»
«Sono incinta.»
Passo di cambio, giro naturale, passo di cambio, giro rovescio.
«Avete compreso cosa ho detto?»
Il generale avrebbe dovuto rispondere, dire qualcosa. Ma non riuscì a proferire verbo.
Passo di cambio, giro naturale, passo di cambio, giro rovescio.
Ora, nonostante la spessa coltre di omertà che ricoprì gli eventi che seguirono, di una cosa si ebbe assoluta contezza: l’infausto evento accadde proprio quella sera, coincidenza confermata dalla data sulla lapide nella tomba di famiglia. Cosa certa, dunque, ma nulla più di questo. Nessuno ricordava o voleva ricordare.
Eppure la dipartita del generale Eriberto Migliacci di RoccaMula, fatte le debite premesse, i doverosi distinguo e le necessarie cautele che una questione tanto delicata imporrebbe, alla fine una morale ce l’avrebbe. Morale su cui, beninteso, non ci si soffermerà, a cagione di una crudele quanto bizzarra evidenza.
«Ve lo ripeto: sono incinta» sussurrò Agata continuando a fissarlo. «E nel caso vi interessasse saperlo, il padre è Jamil.»
«Jamil… lo stalliere? » balbettò incredulo il generale.
«Certo. Non crederete mica che sia stato il colonnello!» disse e scoppiò in una risata argentina, che ben si attagliava al trillo dei violini, ma che al generale invece fece l’effetto di una cascata di pentole e coperchi.
«È una gran notizia, non credete?» incalzava la fanciulla volteggiando come sospinta da un vento di mezza primavera. «Forse sarebbe il caso dare l’annuncio» fece ridendo sulle ultime note. «Se volete posso farlo io.»
Garbati applausi al Cervolazzi e ai suoi orchestrali. Le coppie restarono in attesa del pezzo seguente, qualcuna tornò a sedere.
«Amici!» trillò Agata «Ho qualcosa da dirvi.»
Si fece un gran silenzio nella sala. I volti degli ospiti illuminati dai sorrisi lievi di chi crede di sapere cosa sta per ascoltare, qualcuno col calice del brindisi già pronto.
Solo in pochi si accorsero del generale che s’era fatto pallido, la fronte imperlata di sudore e la mascella contratta.
Afferrò il braccio di Agata, ma quella si divincolò: «Suvvia, lasciatemi dire!» cinguettò.
Da quel momento, tutto accadde in modo tumultuoso.
Il generale emise un gemito soffocato, corse verso la scala dei piani superiori, si bloccò, fece marcia indietro, si precipitò a spalancare la porta della cucina, dove c’erano gli alloggi della servitù, raggiunse la latrina e ci si chiuse dentro. Donna Filomena scattò in piedi: «Eriberto!» gridò e gli corse dietro. Nessuno osò fare altrettanto. Restarono invece immobili, con le orecchie tese e il busto inclinato verso la porta ch’era rimasta aperta.
Il maestro Cervolazzi pensò di riprendere col sottofondo delicato, ma venne zittito proprio mentre risuonò un rumore che s’apparentava a quello di una zampogna, subito sovrastato da un altro più cavernoso, come di un controfagotto. Zampogna e controfagotto, uno dopo l’altro, uno sull’altro. Il Cervolazzi interdetto. Che idea era mai quella di suonare nella latrina della servitù? L’avessero avvertito almeno!
Donna Filomena irruppe nella sala: «Un dottore, presto!» gridò.
«Chi? Come?» Che se a star male era un cameriere non c’era da affannarsi.
«Eriberto!» urlava Donna Filomena. «Un dottore, un dottore!»
E infatti il poveretto, forse per lo sgomento cagionato dall’improntitudine della figlia, forse per il presagio di rovina della reputazione sua e del colonnello Salvestrini, s’era ritrovato tutto il turbamento concentrato nelle viscere dove ribolliva come lava di un vulcano e come da un vulcano fuoriusciva rumoreggiando senza sosta.
«Generale, tutto bene?» La voce del dottor spinelli. Solo lui poteva fare una domanda così idiota.
«Sì, sto bene» mentì il generale tra un colpo di zampogna e uno di controfagotto.
«Non è vero!» urlò Donna Filomena.
«Ho detto che sto bene!» intimò.
E in effetti, a un tono così perentorio obbedì anche il vulcano che a poco a poco si placò. Al punto che, sebbene malfermo sulle gambe per lo sforzo reiterato, riuscì a sollevarsi e a guardarsi intorno in cerca di qualcosa per nettarsi.
Non era un bagno quello, era una latrina. Del resto alla servitù bastava e avanzava. Ma non a lui, che oltre al rango, adesso aveva un problema di non poco conto, sparso dai glutei fino a metà coscia, fors’anche fino all’inizio della schiena. Imperativo nettarsi. Questione di decoro oltre che di odore.
«Eriberto, apri!» continuava a strillare Donna Filomena.
Farsi portare un asciugamano da quella gallina isterica? Dunque farla entrare. Manco a parlarne.
Vide la catenella dello sciacquone. L’afferrò ed ebbe l’idea di restarsene seduto sperando che l’acqua facesse il suo lavoro anche sulle terga. Lo fece. Con tale entusiasmo da non voler più smettere, da inondare tutto il pavimento.
Tirò ancora la catenella. Più e più volte finché se la ritrovò in mano che pendeva inerte, mentre l’acqua sgorgava senza più ritegno.
Ci sono momenti in cui anche il più eroico dei combattenti deve battere in ritirata.
E il generale l’avrebbe anche fatto se non l’avesse frenato il pensiero di Donna Filomena, del dottor Spinelli e di chissà quanti altri dietro la porta. L’idea di tanto oltraggio lo fece avvampare e mentre lo sciacquone persisteva nell’attacco, decise che si sarebbe battuto da par suo.
Si arrampicò sul water con il braccio proteso verso il nemico, ma scivolò ritrovandosi con un piede nella tazza. Riuscì a sfilarsi la scarpa e ci ficcò dentro un braccio per recuperarla.
«Eriberto, apri!» urlava Donna Filomena. «Mioddio, non parla più!»
«Ci penso io. Si faccia da parte» disse il dottor Spinelli. E cominciò a prendere a spallate la porta mentre il generale vi si opponeva con tutto il suo peso digrignando i denti, ringhiando, cercando di puntare i piedi sul pavimento scivoloso, finché lo Spinelli, campione dei pesi welter, dette la spallata decisiva e il generale finì con la testa incastrata nella tazza.
Il medico legale scrisse deceduto per annegamento.
Si convenne di sorvolare dentro a cosa.
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Sussurri, alzate di sopracciglio, frasi che si limitavano a vari Eh beh… D’altra parte… ma nessuno che volesse raccontare per filo e per segno come fosse andata veramente.
Non Donna Filomena, da allora drappeggiata nel nero vedovile, né Agata, l’unica figlia, da allora rimasta in virginale cura dei possedimenti di famiglia.
Il da allora si dice risalisse almeno a quindici anni prima, a un ricevimento di fine ottobre a cui intervennero notabili e maggiorenti di RoccaMula e zone circostanti.
Fiaccole lungo il viale d’accesso, valletti in attesa e un gran viavai di carrozze come sempre ad ogni evento mondano dai Migliacci organizzato, ma più di sempre, dato che in tale circostanza il generale avrebbe annunciato il fidanzamento di Agata con l’anziano colonnello Raniero Salvestrini, compagno d’arme e amico fraterno del generale medesimo.
Costui, segaligno, cereo, dardeggiava sguardi lubrichi verso qualsiasi cosa mostrasse sembianze femminee, foss’anche accomodata tra le vivande del buffet.
«È forse pollo questo?» biascicava puntando l’indice ritorto.
«No, colonnello, è gallina farcita di salsiccia.»
«Ah, farcita di salsiccia…» E poi ad Agata: «Una bella gallinella con la salsiccia dentro» ripeteva con un risucchio osceno, ammiccando compiaciuto del fine doppio senso.
La povera fanciulla, che fanciulla non lo era più da tempo, forse per questo s’era adattata a quelle nozze che certo la disgustavano, ma che sperava brevi.
«È di eccelsa casata, figlia mia. E ricco» le diceva Donna Filomena. «Cosa vuoi di più?»
L’amore forse? Quel palpito che un giorno le sfiorò la pelle e che le fremeva ancora in grembo al solo pronunciarne il nome? «Non è adatto, non è appropriato.» Che disparve all’improvviso, trascinato nella boscaglia dagli uomini di suo padre, come ogni altro che aveva osato levar lo sguardo su di lei? «Non fa per te. Dimenticalo.»
L’amore. Quel vuoto che le rimase dentro a rimembrar dolcezze ch’ella tentava invano di colmare con cannoli e bomboloni, sfogliatelle, cioccolate, giuggiole e meringhe. L’amore.
Agata guardava la sua immagine allo specchio della toletta, il collo ch’era tutt’uno con le spalle, la folta peluria ai lati della bocca e la vana leggiadria di fiocchi e merletti che Donna Filomena aveva sempre imposto rosa, quasi non bastasse il tratto suino di tutta la figura.
Adesso tutto quel ben di Dio sarebbe finito nelle adunche mani del colonnello Raniero Salvestrini. Cosa voleva di più?
Dunque si ebbe ad allestire il ricevimento. In pompa magna lo si volle, dacché il fidanzamento della figlia del generale sarebbe dovuta esser cosa da lasciare il segno. E allora stragi di pollame e cacciagione, ogni sorta di manicaretti prelibati e fiumi di quel vino che riposava nei tonneaux delle cantine. Venne ingaggiata per l’occasione l’orchestra del maestro Cervolazzi, con la comanda di lasciare sempre un sottofondo delicato, almeno fino all’inizio delle danze vere e proprie.
Fu con le prime note del Valzer Brillante di Verdi che accadde l’inaspettato.
Agata si alzò dal divanetto dove conversavano le dame, veleggiò attraverso la sala e attraccò proprio davanti al padre restando a beccheggiare lievemente come una chiatta in rada.
Questi sulle prime non vi badò, intento com’era ad esporre a certi giovani ufficiali i pregi della colonizzazione.
«Il Sud dell’America, l’Africa, il mondo è pieno di posti dove si vive in condizioni animalesche» concionava. «Bipedi inconsapevoli, a cui è dovere di ogni galantuomo mostrare cosa sia la civiltà.»
«Oh sì, concordo» disse un tenentino azzimato, lanciando occhiate intorno per accertarsi di esser stato il primo a concordare. «Perché il difetto peggiore di costoro non è tanto l’esser selvaggi, quanto l’ostinazione a rimanervi.»
«Per questo serve mano ferma» fece il generale. «All’occorrenza anche severità.» E nel dirlo gli tornò in mente quello scudiscio che tante situazioni aveva risolto con semplicità ed efficacia. Una in particolare, in terra somala, che riguardava il giacersi con Rahima, undici anni, forse dodici, e l’arrivo inaspettato del fratello Bashir o Rashid o come diavolo si chiamasse non avrebbe fatto alcuna differenza, che le nerbate gli sarebbero toccate con qualsiasi nome.
Dovettero tenerlo in quattro per consentire a lui di portare a termine ciò che gli era rimasto, per così dire a mezz’asta. E in quattro continuarono a tenerlo fermo mentre con il suddetto scudiscio gli chiariva quale fosse il suo posto. Bestiole.
Fu al secondo colpetto di tosse che il generale si avvide della figlia: «Agata.»
«Mi fareste il dono di questo valzer?» disse ella con voce ferma.
«Perché me lo chiedi? Non sono avvezzo alle danze, lo sai».
«Suvvia, non fatevi pregare. Dopotutto è tradizione che un padre balli con la figlia il giorno del suo fidanzamento.» Lo disse con un guizzo negli occhi, inusitato quanto l’invito.
Il generale si guardò intorno cercando qualcuno che si offrisse al posto suo. Ma non accadde.
Agata continuava a beccheggiare, gli astanti ad annuire. Non c’era verso di evitare quel cimento. Dunque si alzò, accolse nella sua la mano della figlia e raggiunse il centro della sala.
Il maestro Cervolazzi aizzava i violini a inseguire il flauto mentre il generale cercava di ricordare quale piede muovere per primo.
Passo di cambio, giro naturale, passo di cambio, giro rovescio. Due giri. Naturale, rovescio e poi da capo. Cosa avrà mai questo valzer da esser così gradito. Roba da donne.
Agata lo fissava. Non si era mai accorto che anche lei avesse i baffi. Pazienza, ormai era un problema del colonnello.
«Devo dirvi una cosa» fece lei.
«Ti ascolto.»
«Sono incinta.»
Passo di cambio, giro naturale, passo di cambio, giro rovescio.
«Avete compreso cosa ho detto?»
Il generale avrebbe dovuto rispondere, dire qualcosa. Ma non riuscì a proferire verbo.
Passo di cambio, giro naturale, passo di cambio, giro rovescio.
Ora, nonostante la spessa coltre di omertà che ricoprì gli eventi che seguirono, di una cosa si ebbe assoluta contezza: l’infausto evento accadde proprio quella sera, coincidenza confermata dalla data sulla lapide nella tomba di famiglia. Cosa certa, dunque, ma nulla più di questo. Nessuno ricordava o voleva ricordare.
Eppure la dipartita del generale Eriberto Migliacci di RoccaMula, fatte le debite premesse, i doverosi distinguo e le necessarie cautele che una questione tanto delicata imporrebbe, alla fine una morale ce l’avrebbe. Morale su cui, beninteso, non ci si soffermerà, a cagione di una crudele quanto bizzarra evidenza.
«Ve lo ripeto: sono incinta» sussurrò Agata continuando a fissarlo. «E nel caso vi interessasse saperlo, il padre è Jamil.»
«Jamil… lo stalliere? » balbettò incredulo il generale.
«Certo. Non crederete mica che sia stato il colonnello!» disse e scoppiò in una risata argentina, che ben si attagliava al trillo dei violini, ma che al generale invece fece l’effetto di una cascata di pentole e coperchi.
«È una gran notizia, non credete?» incalzava la fanciulla volteggiando come sospinta da un vento di mezza primavera. «Forse sarebbe il caso dare l’annuncio» fece ridendo sulle ultime note. «Se volete posso farlo io.»
Garbati applausi al Cervolazzi e ai suoi orchestrali. Le coppie restarono in attesa del pezzo seguente, qualcuna tornò a sedere.
«Amici!» trillò Agata «Ho qualcosa da dirvi.»
Si fece un gran silenzio nella sala. I volti degli ospiti illuminati dai sorrisi lievi di chi crede di sapere cosa sta per ascoltare, qualcuno col calice del brindisi già pronto.
Solo in pochi si accorsero del generale che s’era fatto pallido, la fronte imperlata di sudore e la mascella contratta.
Afferrò il braccio di Agata, ma quella si divincolò: «Suvvia, lasciatemi dire!» cinguettò.
Da quel momento, tutto accadde in modo tumultuoso.
Il generale emise un gemito soffocato, corse verso la scala dei piani superiori, si bloccò, fece marcia indietro, si precipitò a spalancare la porta della cucina, dove c’erano gli alloggi della servitù, raggiunse la latrina e ci si chiuse dentro. Donna Filomena scattò in piedi: «Eriberto!» gridò e gli corse dietro. Nessuno osò fare altrettanto. Restarono invece immobili, con le orecchie tese e il busto inclinato verso la porta ch’era rimasta aperta.
Il maestro Cervolazzi pensò di riprendere col sottofondo delicato, ma venne zittito proprio mentre risuonò un rumore che s’apparentava a quello di una zampogna, subito sovrastato da un altro più cavernoso, come di un controfagotto. Zampogna e controfagotto, uno dopo l’altro, uno sull’altro. Il Cervolazzi interdetto. Che idea era mai quella di suonare nella latrina della servitù? L’avessero avvertito almeno!
Donna Filomena irruppe nella sala: «Un dottore, presto!» gridò.
«Chi? Come?» Che se a star male era un cameriere non c’era da affannarsi.
«Eriberto!» urlava Donna Filomena. «Un dottore, un dottore!»
E infatti il poveretto, forse per lo sgomento cagionato dall’improntitudine della figlia, forse per il presagio di rovina della reputazione sua e del colonnello Salvestrini, s’era ritrovato tutto il turbamento concentrato nelle viscere dove ribolliva come lava di un vulcano e come da un vulcano fuoriusciva rumoreggiando senza sosta.
«Generale, tutto bene?» La voce del dottor spinelli. Solo lui poteva fare una domanda così idiota.
«Sì, sto bene» mentì il generale tra un colpo di zampogna e uno di controfagotto.
«Non è vero!» urlò Donna Filomena.
«Ho detto che sto bene!» intimò.
E in effetti, a un tono così perentorio obbedì anche il vulcano che a poco a poco si placò. Al punto che, sebbene malfermo sulle gambe per lo sforzo reiterato, riuscì a sollevarsi e a guardarsi intorno in cerca di qualcosa per nettarsi.
Non era un bagno quello, era una latrina. Del resto alla servitù bastava e avanzava. Ma non a lui, che oltre al rango, adesso aveva un problema di non poco conto, sparso dai glutei fino a metà coscia, fors’anche fino all’inizio della schiena. Imperativo nettarsi. Questione di decoro oltre che di odore.
«Eriberto, apri!» continuava a strillare Donna Filomena.
Farsi portare un asciugamano da quella gallina isterica? Dunque farla entrare. Manco a parlarne.
Vide la catenella dello sciacquone. L’afferrò ed ebbe l’idea di restarsene seduto sperando che l’acqua facesse il suo lavoro anche sulle terga. Lo fece. Con tale entusiasmo da non voler più smettere, da inondare tutto il pavimento.
Tirò ancora la catenella. Più e più volte finché se la ritrovò in mano che pendeva inerte, mentre l’acqua sgorgava senza più ritegno.
Ci sono momenti in cui anche il più eroico dei combattenti deve battere in ritirata.
E il generale l’avrebbe anche fatto se non l’avesse frenato il pensiero di Donna Filomena, del dottor Spinelli e di chissà quanti altri dietro la porta. L’idea di tanto oltraggio lo fece avvampare e mentre lo sciacquone persisteva nell’attacco, decise che si sarebbe battuto da par suo.
Si arrampicò sul water con il braccio proteso verso il nemico, ma scivolò ritrovandosi con un piede nella tazza. Riuscì a sfilarsi la scarpa e ci ficcò dentro un braccio per recuperarla.
«Eriberto, apri!» urlava Donna Filomena. «Mioddio, non parla più!»
«Ci penso io. Si faccia da parte» disse il dottor Spinelli. E cominciò a prendere a spallate la porta mentre il generale vi si opponeva con tutto il suo peso digrignando i denti, ringhiando, cercando di puntare i piedi sul pavimento scivoloso, finché lo Spinelli, campione dei pesi welter, dette la spallata decisiva e il generale finì con la testa incastrata nella tazza.
Il medico legale scrisse deceduto per annegamento.
Si convenne di sorvolare dentro a cosa.
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