[Lab15] Facebook vi distruggerà
Posted: Thu Nov 21, 2024 3:39 pm
“Non sei un sosia, Giovanni, ma lui, proprio lui, stesso identico DNA”. Queste furono le parole che usò mio padre quel giorno. Avevo sei anni e non sapevo ancora di essere Mark Zuckerberg. Mi disse anche che era ora che io cominciassi a dimostrare di avere qualche capacità straordinaria, visti i soldi che lui e mia madre avevano speso per avermi, e che al Genetic Research Center, gli avevano fatto perfino i complimenti quando, appena nato, vennero a prendermi: "un figlio genio dell'informatica non è una scelta comune," gli dissero.
Io non risposi, abbassai lo schermo del notebook, mi alzai in piedi e sostenni il suo sguardo: con solennità stesi una gamba in avanti, aprii le braccia ed eseguii un plié, e sollevato un piede vicino al ginocchio, davanti ai suoi occhi increduli, feci una piroetta perfetta. Andò su tutte le furie.
Io, in realtà, sono Giovanni Scicolone e da ventinove anni vado in giro con questa faccia da nerd.
Fino a tre anni fa, e mi dispiace per mio padre, non me ne fregava della computazione quantistica e delle sue applicazioni innovative, della medicina biotecnologica, delle IA, dei cloni di personaggi famosi, della gente sterile e senza futuro, dei cinquecentosessantadue modelli di Jannik, con la faccia di un famoso tennista del passato, che hanno sostituito gli uomini in molti lavori, dei governi multimediali eccetera… Fino a tre anni fa… Poi mia madre è scomparsa e a mio padre è preso un ictus.
Ora viviamo con il suo sussidio in una stanza con bagno.
I governi pensano a tutto e a tutti, se stiamo buoni tutto va bene, ci lasciano vivere, lenti, fino alla totale estinzione, forse. Ma hanno preso mia madre e da allora tutto è cambiato: anche lei amava ballare.
Apro gli occhi, la stanza accoglie la luce chiara dell'alba. Ricomincia la danza della sopravvivenza.
— Papà? Sei già sveglio? Mi alzo e ti preparo la colazione.
Apro l’armadietto sopra il lavandino.
— Abbiamo finito i cereali, oggi mangerai pane e latte, uscirò più tardi a prendere altre provviste.
Lui alza il mento e chiude un occhio, significa che è d’accordo. Le nostre conversazioni sono ridotte a gesti e versi di varia intensità.
Metto le tazze nel microonde, accendo la TV; un notiziario viene trasmesso ogni due ore, I governi multimediali ci informano che va tutto bene e noi siamo "tranquilli."
Vado alla finestra: dietro le tende la città si muove appena. Sulle strade i soliti Jannik220 sorvegliano gli incroci, camminano con la loro tipica andatura, lenta ma vigile, le telecamere, installate praticamente dappertutto, puntano i loro occhi sui portoni, le finestre, le terrazze; a intervalli regolari si spostano verso gli obiettivi impostati nel loro sistema.
Prendo in braccio mio padre e lo adagio sulla sua sedia a rotelle, l’avvicino al tavolo, lui piega la testa da un lato, mi fissa.
Capisco al volo cosa vuole.
— Sì, papà, più tardi lavoreremo al nostro progetto, prima pensiamo alla colazione, ci laviamo e ci vestiamo, poi andrò a prendere le tue medicine e il cibo, non ci metterò molto.
Nell’ascensore lo specchio di cortesia non rende giustizia all’immagine di Zuckerberg che ho visto in rete: mi sono fatto crescere apposta i capelli e la barba. Ci sono cloni di personaggi famosi che ostentano la loro condizione, io non ne vado fiero, assolutamente. Non vado molto in giro ma, non mi stupirei nemmeno se dovessi incontrare Cristoforo Colombo; per strada girano attrici e attori famosi, presidenti, campioni dello sport e artisti di varie epoche…
Negli anni trenta la manipolazione genetica neonatale veniva venduta come la soluzione alla criminalità e alle malattie, chi poteva permetterselo acquistava figli sani, forti, intelligenti e possibilmente bellissimi. Nel giro di pochi anni, però, i prezzi sono crollati, l’umanità non è più un buon investimento, il corpo umano muore, invece, se uno Jannik viene danneggiato, ne arrivano immediatamente altri che sostituiscono i pezzi in dieci minuti. Intanto, in tutta la terra il numero dei figli naturali continua a diminuire e l’umanità geneticamente deformata regge un gioco di potere che io non capisco. Hanno fatto un vero disastro.
La porta dell’ascensore si apre sull'atrio, due Jannik150 si avvicinano, mi scannerizzano, li lascio fare, tengo lo sguardo su di loro anche più del dovuto.
Esco, è una bella giornata, il marciapiede è lucido come al solito e io, per andare contro il sistema, cammino sulla guida per i non vedenti; è una cosa tollerata, altrimenti sarei già stato redarguito da un drone o qualche altro controllore.
Le auto sfrecciano silenziose, le persone più giovani indossano visori virtuali, ogni tanto girano lo sguardo sulle vetrine dei negozi, gli anziani, immersi nei loro pensieri, camminano fidandosi dei loro sensi per evitare ostacoli, si affidano agli odori e agli spazi, per orientarsi nella città.
C’è una piccola coda davanti ai distributori delle medicine, la gente “normale” invecchia male e si ammala facilmente: devo dedicare più tempo al progetto, quando ho spiegato a papà la mia idea ha pianto, lo capisco, era quello che voleva: scelse di farmi nascere col cervello di Mark perché io diventassi un genio, e adesso, io vedo la cosa come l'unica possibilità di uscire dal cerchio, dal rituale quotidiano del quale sento di far parte mio malgrado.
È il mio turno, passo la tessera sul lettore e le medicine cadono nella fessura, da un lato della macchinetta prendo un sacchetto di carta e ritiro le scatole dei medicinali, ripeto la stessa procedura davanti ai distributori di generi alimentari.
Cammino accanto alla lunga fila al distributore di pannoloni, tre signore di una certa età parlano con rimpianto di antichi ricordi sfumati dal tempo, inveiscono, voci basse e pugni stretti.
Nel tragitto verso casa cammino veloce, la rabbia che sale ogni giorno è diventata urgenza. Ho il fiato corto quando entro nel portone del mio condominio, mi gelo: i due Jannik150 si sono spostati, mi ostacolano il passaggio.
Sono pronto a fuggire ma non avrei scampo, i muscoli si contraggono, i peli delle braccia si sollevano: razionalizzo, non è possibile che sappiano già, mi avrebbero prelevato senza storie, come hanno fatto con la mamma. La mia è solo paranoia: coraggio.
Faccio due passi decisi, l’aria sembra gelatina, non riesce a entrare nei polmoni, se quei due non si spostano sono guai. Loro non fanno una mossa, mi ripeto che non ho nulla da temere e m’infilo tra i due, riesco a malapena a non sfiorarli.
Chiamo l’ascensore, cerco di non svenire… La porta si chiude dietro di me, lascio cadere i sacchetti sul pavimento della cabina e ricomincio a respirare, mi tengo le ginocchia con le mani: le gambe tremano.
Arrivato al piano la porta si riapre, prendo la mia roba e mi trascino verso il mio appartamento.
Papà è seduto davanti al televisore, come l’ho lasciato, mi dà le spalle ma mi ha sentito; butta indietro la testa, emette un suono appena percettibile: è il suo saluto.
— Eccomi, non ci ho messo molto, vero? Adesso ci mettiamo subito a lavorare.
Cerco di dissimulare il panico di poco prima, sistemo i medicinali e le altre cose nello zaino pronto per la fuga. Non riesco a smettere di tremare…
Giro la sedia a rotelle, lo guardo dritto negli occhi.
— Dobbiamo terminare il progetto e dobbiamo farlo oggi. Quando avremo finito ti porto nella nostra casetta al mare, ti ricordi quando la mamma diceva che avrebbe voluto dei nipotini per portarli sulla spiaggia? Non sapevamo ancora che il suo sogno non si sarebbe realizzato, non sapevamo che lei lo volesse così tanto da mettersi contro il sistema, questo cavolo di sistema che…
Accendo il terminale, anche lui non vede l’ora, non può muoversi ma il suo cervello è intatto, da giovane non era un genio, ma con questo genere di cose ci sapeva fare. Il PC si sta collegando. Per ora sono riuscito a entrare qualche volta nella loro rete, i governi multimediali non usano internet. La tecnologia quantistica ha sbalzato in avanti il mondo di più di cento anni in pochi decenni, la loro rete non è accessibile a tutti, ma io ci sono riuscito.
Mi siedo davanti al computer, il cuore mi batte forte nel petto. Conosco i rischi ma devo farlo, apro una finestra sul terminale. Ho paura ma ho smesso di tremare; le dita non sembrano le mie, volano sulla tastiera.
Il sistema mi chiede la password, inserisco la stringa, la so a memoria:
bash
ssh -L 8080:localhost:8080 giovanni@server_governativo
Dopo qualche istante, il terminale conferma la connessione. Manteniamo la calma, non è il momento di lasciarsi andare.
— Ora comincia il bello, papà, dobbiamo bypassare il firewall dei governi. Vediamo se funziona l’exploit di quel vecchio forum di hacker.
Aspettiamo. Ho pianificato ogni mossa, analizzato ogni possibilità decine di volte.
— Il comando sta scansionando le porte dei server governativi, sta cercando una vulnerabilità.
Lui non stacca gli occhi dal PC, so cosa mi direbbe se potesse parlare. Vorrei abbracciarlo.
Passano i minuti… Incrocio le dita…
—Ecco! Ha trovato una porta aperta.
È il momento di entrare: digito il comando. Fin qui è stato facile
bash
telnet 192.168.1.1 8080
— Siamo dentro!
Sudore freddo mi cola dalla nuca lungo la schiena. Ora vediamo se questo funziona: clicco invio e Brute Force comincia a decifrare le credenziali di accesso al sistema segreto del governo. Ci vorrà del tempo ma a questo punto non possiamo fare altro che aspettare.
—Ti vedo sai?, sei in ansia quanto me. Ce la faremo, vedrai.
Che ne sarà di te se anche io sparissi come la mamma? Non posso nemmeno pensarci.
Saltiamo il pranzo, non riusciamo a pensare al cibo, ormai non si torna indietro.
La luce del pomeriggio comincia a colorarsi di arancio: preparo la moka. Sorseggiamo il caffè, restiamo in silenzio a guardare il monitor che macina dati…
bash
hydra -l admin -P /path/to/password/list.txt 192.168.1.1 http-get /login
— Papà ci siamo! Il programma ha trovato la combinazione.
Esploro il sistema ma la mente è in allerta, siamo in grave pericolo adesso, avranno percepito l’intrusione? Forse mi staranno già cercando.
Il cuore sembra voglia sfondare la cassa toracica, ogni secondo che passa ho meno probabilità di riuscire ad arrivare alla fine, Ogni rumore esterno mi fa sobbalzare, lui ha gli occhi lucidi, è molto agitato, gli tengo una mano tra le mie fino a che non smette di tremare.
Respiro, inspiro… Devo far presto.
Ora il comando decisivo: devo essere preciso, ogni carattere conta.
bash
echo "curl -X POST -d 'username=IA&password=segreta' http://programma_di_giovanni.com/register" | sudo tee /etc/init.d/register_all_IA.sh
— Bene, adesso piazziamo la trappola, apro il mio programma:"InterFacebookapi", su un’altra finestra e premo invio.
Aspettiamo…
—Sì! Eccoli, si stanno registrando, Venite dai, venite tutti da zio Mark. Più veloce, più veloce, forza… Maledizione, ci vorrà troppo tempo. I flussi dei protocolli sono troppo lenti. Proviamo a…
bash
sudo ln -s /etc/init.d/register_all_IA.sh /etc/rc0.d/K99register_all_IA
Invio:
— Ecco, così è più veloce. Ma non basta, il sistema dovrà riavviarsi ogni volta che le IA e le macchine si registreranno sul nostro programma. Non riesco neanche a immaginare quanto tempo potrebbe volerci.
Devo trovare il modo per avviare un'azione immediata. Non so cosa fare, il tempo passa e ogni secondo è una tortura.
— Abbia i stema to ale. To ta lle
— Giusto! Hai ragione papà, è questo che intendi? Inserisco l'ultimo comando:
bash
sudo chmod +x /etc/init.d/register_all_IA.sh
sudo ln -s /etc/init.d/register_all_IA.sh /etc/rc0.d/K99register_all_IA
Trattengo l’aria, sbuffo via la tensione… Si tratta solo di aspettare e…
— È fatta! Sono tutti dentro! Macchine e AI dell’intero sistema si sono auto registrati su "interFACEBOOKapi". Abbiamo tutti i dati.
Alzo le braccia al cielo,
— Mark, saresti fiero di me?
Creo uno script e digito l’ordine per annullare le operazioni delle IA e delle macchine: impongo l’auto distruzione di tutti i protocolli.
bash
sudo /etc/init.d/stop_all_operations.sh
E infine, esegui:
bash
sudo /etc/init.d/shutdown_all_IA.sh
È notte. Nella stanza il tempo sembra essersi fermato nell’aria densa, incombe la catastrofe. La testa incassata nelle spalle e i palmi sugli occhi, non ho il coraggio di guardare…
— A..dda
Alzo lo sguardo sul monitor.
— Si, papà! Sta funzionando, ancora non ci credo ma il sistema sta iniziando a spegnersi.
I dati si cancellano sullo schermo. Le IA, le macchine e ogni operazione si annullano una dopo l'altra.
Fermi, quasi non osiamo nemmeno respirare da ore, potrebbero sfondare la porta da un momento all’altro.
Aspettiamo, a bocca chiusa, il monitor continua a cancellare dati.
È notte, da fuori arriva il riverbero freddo della luna.
Vado alla finestra. Due Jannik488 sono fermi davanti al portone del condominio, l'ascensore sta salendo.
È ora di muoversi, lego mio padre sulla mia pancia, come un neonato in una fascia premaman, prendo lo zaino con le scorte di cibo e medicine e scendiamo dalle scale: passeremo dai garage. Ci prenderanno lo stesso, lo so.
Scendo con cautela, spero solo che non arrivino in tempo al PC. A ogni pianerottolo mi fermo e controllo che non ci siano altri Jennik. L'ascensore sta ancora salendo, temo lo incroceremo tra poco.
Il buio mi sorprende sull'utimo scalino della rampa, non c'è più energia, la luce di emergenza illumina il vano dell'ascensore che si arresta davanti a noi. Chiunque ci sia dentro resterà bloccato per parecchio tempo, il programma ha terminato il lavoro.
Ce l'abbiamo fatta, Non so immaginare un domani ma, non me ne importa.
Da tempo, In macchina ho tutto quello che ci serve, ce ne andiamo al mare, la danza della sopravvivenza è finita, ora si balla sul serio.
Io non risposi, abbassai lo schermo del notebook, mi alzai in piedi e sostenni il suo sguardo: con solennità stesi una gamba in avanti, aprii le braccia ed eseguii un plié, e sollevato un piede vicino al ginocchio, davanti ai suoi occhi increduli, feci una piroetta perfetta. Andò su tutte le furie.
Io, in realtà, sono Giovanni Scicolone e da ventinove anni vado in giro con questa faccia da nerd.
Fino a tre anni fa, e mi dispiace per mio padre, non me ne fregava della computazione quantistica e delle sue applicazioni innovative, della medicina biotecnologica, delle IA, dei cloni di personaggi famosi, della gente sterile e senza futuro, dei cinquecentosessantadue modelli di Jannik, con la faccia di un famoso tennista del passato, che hanno sostituito gli uomini in molti lavori, dei governi multimediali eccetera… Fino a tre anni fa… Poi mia madre è scomparsa e a mio padre è preso un ictus.
Ora viviamo con il suo sussidio in una stanza con bagno.
I governi pensano a tutto e a tutti, se stiamo buoni tutto va bene, ci lasciano vivere, lenti, fino alla totale estinzione, forse. Ma hanno preso mia madre e da allora tutto è cambiato: anche lei amava ballare.
Apro gli occhi, la stanza accoglie la luce chiara dell'alba. Ricomincia la danza della sopravvivenza.
— Papà? Sei già sveglio? Mi alzo e ti preparo la colazione.
Apro l’armadietto sopra il lavandino.
— Abbiamo finito i cereali, oggi mangerai pane e latte, uscirò più tardi a prendere altre provviste.
Lui alza il mento e chiude un occhio, significa che è d’accordo. Le nostre conversazioni sono ridotte a gesti e versi di varia intensità.
Metto le tazze nel microonde, accendo la TV; un notiziario viene trasmesso ogni due ore, I governi multimediali ci informano che va tutto bene e noi siamo "tranquilli."
Vado alla finestra: dietro le tende la città si muove appena. Sulle strade i soliti Jannik220 sorvegliano gli incroci, camminano con la loro tipica andatura, lenta ma vigile, le telecamere, installate praticamente dappertutto, puntano i loro occhi sui portoni, le finestre, le terrazze; a intervalli regolari si spostano verso gli obiettivi impostati nel loro sistema.
Prendo in braccio mio padre e lo adagio sulla sua sedia a rotelle, l’avvicino al tavolo, lui piega la testa da un lato, mi fissa.
Capisco al volo cosa vuole.
— Sì, papà, più tardi lavoreremo al nostro progetto, prima pensiamo alla colazione, ci laviamo e ci vestiamo, poi andrò a prendere le tue medicine e il cibo, non ci metterò molto.
Nell’ascensore lo specchio di cortesia non rende giustizia all’immagine di Zuckerberg che ho visto in rete: mi sono fatto crescere apposta i capelli e la barba. Ci sono cloni di personaggi famosi che ostentano la loro condizione, io non ne vado fiero, assolutamente. Non vado molto in giro ma, non mi stupirei nemmeno se dovessi incontrare Cristoforo Colombo; per strada girano attrici e attori famosi, presidenti, campioni dello sport e artisti di varie epoche…
Negli anni trenta la manipolazione genetica neonatale veniva venduta come la soluzione alla criminalità e alle malattie, chi poteva permetterselo acquistava figli sani, forti, intelligenti e possibilmente bellissimi. Nel giro di pochi anni, però, i prezzi sono crollati, l’umanità non è più un buon investimento, il corpo umano muore, invece, se uno Jannik viene danneggiato, ne arrivano immediatamente altri che sostituiscono i pezzi in dieci minuti. Intanto, in tutta la terra il numero dei figli naturali continua a diminuire e l’umanità geneticamente deformata regge un gioco di potere che io non capisco. Hanno fatto un vero disastro.
La porta dell’ascensore si apre sull'atrio, due Jannik150 si avvicinano, mi scannerizzano, li lascio fare, tengo lo sguardo su di loro anche più del dovuto.
Esco, è una bella giornata, il marciapiede è lucido come al solito e io, per andare contro il sistema, cammino sulla guida per i non vedenti; è una cosa tollerata, altrimenti sarei già stato redarguito da un drone o qualche altro controllore.
Le auto sfrecciano silenziose, le persone più giovani indossano visori virtuali, ogni tanto girano lo sguardo sulle vetrine dei negozi, gli anziani, immersi nei loro pensieri, camminano fidandosi dei loro sensi per evitare ostacoli, si affidano agli odori e agli spazi, per orientarsi nella città.
C’è una piccola coda davanti ai distributori delle medicine, la gente “normale” invecchia male e si ammala facilmente: devo dedicare più tempo al progetto, quando ho spiegato a papà la mia idea ha pianto, lo capisco, era quello che voleva: scelse di farmi nascere col cervello di Mark perché io diventassi un genio, e adesso, io vedo la cosa come l'unica possibilità di uscire dal cerchio, dal rituale quotidiano del quale sento di far parte mio malgrado.
È il mio turno, passo la tessera sul lettore e le medicine cadono nella fessura, da un lato della macchinetta prendo un sacchetto di carta e ritiro le scatole dei medicinali, ripeto la stessa procedura davanti ai distributori di generi alimentari.
Cammino accanto alla lunga fila al distributore di pannoloni, tre signore di una certa età parlano con rimpianto di antichi ricordi sfumati dal tempo, inveiscono, voci basse e pugni stretti.
Nel tragitto verso casa cammino veloce, la rabbia che sale ogni giorno è diventata urgenza. Ho il fiato corto quando entro nel portone del mio condominio, mi gelo: i due Jannik150 si sono spostati, mi ostacolano il passaggio.
Sono pronto a fuggire ma non avrei scampo, i muscoli si contraggono, i peli delle braccia si sollevano: razionalizzo, non è possibile che sappiano già, mi avrebbero prelevato senza storie, come hanno fatto con la mamma. La mia è solo paranoia: coraggio.
Faccio due passi decisi, l’aria sembra gelatina, non riesce a entrare nei polmoni, se quei due non si spostano sono guai. Loro non fanno una mossa, mi ripeto che non ho nulla da temere e m’infilo tra i due, riesco a malapena a non sfiorarli.
Chiamo l’ascensore, cerco di non svenire… La porta si chiude dietro di me, lascio cadere i sacchetti sul pavimento della cabina e ricomincio a respirare, mi tengo le ginocchia con le mani: le gambe tremano.
Arrivato al piano la porta si riapre, prendo la mia roba e mi trascino verso il mio appartamento.
Papà è seduto davanti al televisore, come l’ho lasciato, mi dà le spalle ma mi ha sentito; butta indietro la testa, emette un suono appena percettibile: è il suo saluto.
— Eccomi, non ci ho messo molto, vero? Adesso ci mettiamo subito a lavorare.
Cerco di dissimulare il panico di poco prima, sistemo i medicinali e le altre cose nello zaino pronto per la fuga. Non riesco a smettere di tremare…
Giro la sedia a rotelle, lo guardo dritto negli occhi.
— Dobbiamo terminare il progetto e dobbiamo farlo oggi. Quando avremo finito ti porto nella nostra casetta al mare, ti ricordi quando la mamma diceva che avrebbe voluto dei nipotini per portarli sulla spiaggia? Non sapevamo ancora che il suo sogno non si sarebbe realizzato, non sapevamo che lei lo volesse così tanto da mettersi contro il sistema, questo cavolo di sistema che…
Accendo il terminale, anche lui non vede l’ora, non può muoversi ma il suo cervello è intatto, da giovane non era un genio, ma con questo genere di cose ci sapeva fare. Il PC si sta collegando. Per ora sono riuscito a entrare qualche volta nella loro rete, i governi multimediali non usano internet. La tecnologia quantistica ha sbalzato in avanti il mondo di più di cento anni in pochi decenni, la loro rete non è accessibile a tutti, ma io ci sono riuscito.
Mi siedo davanti al computer, il cuore mi batte forte nel petto. Conosco i rischi ma devo farlo, apro una finestra sul terminale. Ho paura ma ho smesso di tremare; le dita non sembrano le mie, volano sulla tastiera.
Il sistema mi chiede la password, inserisco la stringa, la so a memoria:
bash
ssh -L 8080:localhost:8080 giovanni@server_governativo
Dopo qualche istante, il terminale conferma la connessione. Manteniamo la calma, non è il momento di lasciarsi andare.
— Ora comincia il bello, papà, dobbiamo bypassare il firewall dei governi. Vediamo se funziona l’exploit di quel vecchio forum di hacker.
Aspettiamo. Ho pianificato ogni mossa, analizzato ogni possibilità decine di volte.
— Il comando sta scansionando le porte dei server governativi, sta cercando una vulnerabilità.
Lui non stacca gli occhi dal PC, so cosa mi direbbe se potesse parlare. Vorrei abbracciarlo.
Passano i minuti… Incrocio le dita…
—Ecco! Ha trovato una porta aperta.
È il momento di entrare: digito il comando. Fin qui è stato facile
bash
telnet 192.168.1.1 8080
— Siamo dentro!
Sudore freddo mi cola dalla nuca lungo la schiena. Ora vediamo se questo funziona: clicco invio e Brute Force comincia a decifrare le credenziali di accesso al sistema segreto del governo. Ci vorrà del tempo ma a questo punto non possiamo fare altro che aspettare.
—Ti vedo sai?, sei in ansia quanto me. Ce la faremo, vedrai.
Che ne sarà di te se anche io sparissi come la mamma? Non posso nemmeno pensarci.
Saltiamo il pranzo, non riusciamo a pensare al cibo, ormai non si torna indietro.
La luce del pomeriggio comincia a colorarsi di arancio: preparo la moka. Sorseggiamo il caffè, restiamo in silenzio a guardare il monitor che macina dati…
bash
hydra -l admin -P /path/to/password/list.txt 192.168.1.1 http-get /login
— Papà ci siamo! Il programma ha trovato la combinazione.
Esploro il sistema ma la mente è in allerta, siamo in grave pericolo adesso, avranno percepito l’intrusione? Forse mi staranno già cercando.
Il cuore sembra voglia sfondare la cassa toracica, ogni secondo che passa ho meno probabilità di riuscire ad arrivare alla fine, Ogni rumore esterno mi fa sobbalzare, lui ha gli occhi lucidi, è molto agitato, gli tengo una mano tra le mie fino a che non smette di tremare.
Respiro, inspiro… Devo far presto.
Ora il comando decisivo: devo essere preciso, ogni carattere conta.
bash
echo "curl -X POST -d 'username=IA&password=segreta' http://programma_di_giovanni.com/register" | sudo tee /etc/init.d/register_all_IA.sh
— Bene, adesso piazziamo la trappola, apro il mio programma:"InterFacebookapi", su un’altra finestra e premo invio.
Aspettiamo…
—Sì! Eccoli, si stanno registrando, Venite dai, venite tutti da zio Mark. Più veloce, più veloce, forza… Maledizione, ci vorrà troppo tempo. I flussi dei protocolli sono troppo lenti. Proviamo a…
bash
sudo ln -s /etc/init.d/register_all_IA.sh /etc/rc0.d/K99register_all_IA
Invio:
— Ecco, così è più veloce. Ma non basta, il sistema dovrà riavviarsi ogni volta che le IA e le macchine si registreranno sul nostro programma. Non riesco neanche a immaginare quanto tempo potrebbe volerci.
Devo trovare il modo per avviare un'azione immediata. Non so cosa fare, il tempo passa e ogni secondo è una tortura.
— Abbia i stema to ale. To ta lle
— Giusto! Hai ragione papà, è questo che intendi? Inserisco l'ultimo comando:
bash
sudo chmod +x /etc/init.d/register_all_IA.sh
sudo ln -s /etc/init.d/register_all_IA.sh /etc/rc0.d/K99register_all_IA
Trattengo l’aria, sbuffo via la tensione… Si tratta solo di aspettare e…
— È fatta! Sono tutti dentro! Macchine e AI dell’intero sistema si sono auto registrati su "interFACEBOOKapi". Abbiamo tutti i dati.
Alzo le braccia al cielo,
— Mark, saresti fiero di me?
Creo uno script e digito l’ordine per annullare le operazioni delle IA e delle macchine: impongo l’auto distruzione di tutti i protocolli.
bash
sudo /etc/init.d/stop_all_operations.sh
E infine, esegui:
bash
sudo /etc/init.d/shutdown_all_IA.sh
È notte. Nella stanza il tempo sembra essersi fermato nell’aria densa, incombe la catastrofe. La testa incassata nelle spalle e i palmi sugli occhi, non ho il coraggio di guardare…
— A..dda
Alzo lo sguardo sul monitor.
— Si, papà! Sta funzionando, ancora non ci credo ma il sistema sta iniziando a spegnersi.
I dati si cancellano sullo schermo. Le IA, le macchine e ogni operazione si annullano una dopo l'altra.
Fermi, quasi non osiamo nemmeno respirare da ore, potrebbero sfondare la porta da un momento all’altro.
Aspettiamo, a bocca chiusa, il monitor continua a cancellare dati.
È notte, da fuori arriva il riverbero freddo della luna.
Vado alla finestra. Due Jannik488 sono fermi davanti al portone del condominio, l'ascensore sta salendo.
È ora di muoversi, lego mio padre sulla mia pancia, come un neonato in una fascia premaman, prendo lo zaino con le scorte di cibo e medicine e scendiamo dalle scale: passeremo dai garage. Ci prenderanno lo stesso, lo so.
Scendo con cautela, spero solo che non arrivino in tempo al PC. A ogni pianerottolo mi fermo e controllo che non ci siano altri Jennik. L'ascensore sta ancora salendo, temo lo incroceremo tra poco.
Il buio mi sorprende sull'utimo scalino della rampa, non c'è più energia, la luce di emergenza illumina il vano dell'ascensore che si arresta davanti a noi. Chiunque ci sia dentro resterà bloccato per parecchio tempo, il programma ha terminato il lavoro.
Ce l'abbiamo fatta, Non so immaginare un domani ma, non me ne importa.
Da tempo, In macchina ho tutto quello che ci serve, ce ne andiamo al mare, la danza della sopravvivenza è finita, ora si balla sul serio.