[Lab 15] Minuetto celeste
Posted: Tue Nov 19, 2024 4:18 pm
Minuetto celeste
C’è stato un tempo in cui mi sentivo impavido e credevo che la paura fosse un sentimento riservato solo agli animi deboli e alla gente ignorante.
Non ricordo come mi fosse venuta l’idea di puntare il cannocchiale verso il cielo. Pensai che, se la lente dello strumento riusciva a mostrare oggetti lontani sulla Terra, forse poteva farlo anche con quelli che occupavano il firmamento… da quell’istante la mia vita non fu più la stessa.
Notte dopo notte, neppure il gelo che mordeva il volto e irrigidiva le mani avrebbe potuto farmi desistere dai miei propositi: mentre il buio ingoiava ogni tetto delle case di Padova, puntavo il mio tubo verso la volta stellata e mi lasciavo sorprendere dall’immensità.
Mi colava il naso e mi lagrimavano gli occhi per cui, spesso, dovevo fermarmi per asciugare la carta su cui disegnavo con cura ciò che vedevo: i profondi crateri della Luna e le sue ombre, la piccola falce di Venere, l’innumerevole quantità di stelle che, a occhio nudo, non avrei mai potuto ammirare. Guardavo e annotavo con precisione ciò che il limpido cielo invernale mi mostrava.
Il sette di gennaio dell’anno 1610, mentre stavo osservando Giove, notai la presenza di quattro piccoli puntini luminosi, due da un lato e due dall’altro lato del pianeta. Sulle prime credetti che fossero delle stelle fisse che non avevo mai visto nonostante avessi già ispezionato molte volte quella zona del cielo. Pensai che forse, in passato, le lenti del mio cannocchiale erano troppo deboli; le mie mani indolenzite portavano ancora i segni delle molte ore trascorse nel laboratorio per perfezionarle.
La notte seguente tornai a guardare la stessa parte del cielo, e mi accorsi che quelle stelline sembravano essersi spostate, come se si fossero mosse. Che fosse solo un’illusione, un errore della vista, un difetto delle lenti o, forse, era colpa dell’umidità della notte che aveva appannato lo strumento?
Mi allontanai dall’oculare, stropicciai gli occhi, feci qualche passo nel buio e dei respiri profondi prima di ritentare l’osservazione ma, quando misi di nuovo l’occhio sul cannocchiale, mi accorsi che la situazione non era cambiata: i puntini luminosi avevano davvero assunto una formazione diversa da quella della notte prima. Il disegno sul mio taccuino ne era la prova evidente.
Annotai subito la nuova posizione di quegli astri. Da allora, notte dopo notte, ogni volta li trovavo disposti in modo differente. A volte precedevano il pianeta, altre lo seguivano. Come stormi di uccelli cambiavano spesso la formazione obbedendo a una legge di cui mi sfuggiva la regola. Una volta uno dei piccoli lumi sembrava essere svanito nell’oscurità ma, la notte successiva, riapparve.
Col passare dei giorni, mi resi conto che quegli astri non erano affatto stelle lontane e fisse come credevo: si trattava di corpi celesti che ruotavano attorno a Giove.
I loro movimenti sembravano una sorta di danza: seguivano un ritmo e una simmetria prestabilita simile a un minuetto. Era come se il pianeta li facesse volteggiare attorno a lui sostenendoli con mano sicura e invisibile.
Dovetti sdraiarmi per non vacillare perché era come se il mondo stesso si fosse capovolto all’improvviso sotto di me. Secoli di credenze spazzati via da una semplice lente d’ingrandimento.
Quelle piccole lune, brillanti come gemme nel velluto nero del cielo, continuavano a ruotare ignare del tumulto che avevano suscitato nella mia mente.
Mi chiedevo come fosse possibile negare ciò che gli occhi potevano vedere con tanta chiarezza: se quei quattro piccoli mondi non giravano attorno alla Terra ma attorno a Giove, perché mai la Terra doveva ancora essere ritenuta al centro di tutto il creato? Forse il nostro non era che uno dei tanti pianeti che danzavano attorno al Sole.
Nell’oscurità e nel silenzio potevo sentire il fluire del sangue ardere nelle vene, il cuore galoppare fino a mozzarmi il respiro.
Dunque, ben ragionava Messer Copernico nel dire che le cose del cielo funzionavano in modo diverso da quello che ci avevano sempre insegnato...
Questo fatto non si poteva più ignorare. Io ne avevo ottenuto la prova.
Sotto la grande volta stellata, mi sentivo parte del mistero della natura, un piccolo ingranaggio di un antico meccanismo che stava iniziando a svelare i suoi segreti.
I miei pensieri vagavano altalenanti come un vascello sbattuto dalla furia delle onde, a volte vedevo gli antri bui e dolorosi delle torture che avrei potuto subire dalla Santa Inquisizione per le mie scoperte, altre volte mi vedevo protetto dalla bonaccia di una baia, osannato come accade solo ai grandi uomini.
Conoscevo bene i rischi che avrei corso se avessi rivelato ciò che ormai non poteva e non doveva essere più essere taciuto al mondo. La verità divampava dentro di me come un fuoco che divorava le paure e l’orgoglio e la frenesia mi accecavano.
Di giorno insegnavo, di notte osservavo e scrivevo cercando di utilizzare le parole del popolo. Tutti coloro che sapevano leggere dovevano capire, o quantomeno intuire, la portata di ciò che avevo scoperto. “Sidereus Nuncius”: così volli intitolare la mia opera.
C’è stato un tempo in cui credevo che il potere del denaro e delle lusinghe mi avrebbe fornito la chiave per aprire qualsiasi porta. Anche quella della Chiesa.
Mi servivano denaro e protezione, sapevo bene che qualcuno avrebbe cercato di farmi tacere. Ma dilaniarsi nel dubbio non sarebbe stato utile ad alcuno. Allora l’ingegno venne di nuovo in mio soccorso: la battaglia contro l’ignoranza dovevano combatterla altri al posto mio. Potenti contro potenti.
Forte di questa illuminazione mandai il mio giovane assistente ad acquistare la carta più preziosa e, lontano da occhi indiscreti, vergai la lettera indirizzata al Granduca di Toscana Cosimo II di cui, a quei tempi, godevo la stima.
Ricordo ancora la cura con cui scelsi ogni parola e verbo:
“Considerando quanto il nome della Vostra Altezza Serenissima sia glorioso e come voi irradiate virtù divina e fortuna legale, mi è parso parso giusto associare questa nuova rivelazione astronomica al nome della vostra eccelsa famiglia, affinché gli astri appena scoperti, prendano il loro posto nei cieli eterni col nome di “Astri Medicei…”
C’è stato un tempo in cui ho dovuto nascondere il rossore del volto chinando la testa senza poter più rivolgere lo sguardo al cielo.
“Veemente sospetto di eresia” questo fu il verdetto del Tribunale della Santa Inquisizione contro di me.
Io, Galileo Galilei, fui considerato eretico e costretto ad abiurare. Se la paura è un sentimento riservato agli uomini deboli, ebbene, io fui debole.
Forse, se fossi stato condannato al rogo non mi sarei piegato, probabilmente avrei scelto il martirio in nome della Verità, ma l’idea di dover passare il resto dei miei giorni rinchiuso in un carcere della Chiesa, lontano dai miei strumenti e dai miei studi, mi sembrò mille volte peggiore della morte stessa. Per questo abiurai e ottenni di trascorre il resto dei miei giorni recluso nella mia casa ad Arcetri.
C’è un tempo in cui i sensi perdono il loro potere e mostrano al nostro intelletto una realtà altrimenti invisibile. È ciò che, adesso, capita a me che sono vecchio e stanco, ormai. Oggi la strada mi appare chiara come non mai, ma ho bisogno dei miei bastoni per percorrerla dritta fino alla fine. E, per questo, mi sento fortunato. Ho due validi bastoni in carne e ossa che si occupano di me.
Mi muovo a tentoni tra le pareti. Del cielo e del movimento dei suoi astri mi resta solo il ricordo impresso nella memoria, una fitta coltre di nebbia mi vela gli occhi.
Bussano alla porta. Mi pare quasi di vederli, i miei fedeli amici Vincenzo Viviani ed Evangelista Torricelli; due anime nobili che sfidano la sorte, la Santa Inquisizione e i miasmi del mio corpo ogni volta che mi vengono a trovare.
Riconosco l’incedere dei loro passi nel corridoio.
Oggi loro sono la mia vista e la mia penna e grazie al loro coraggio la scrittura de “Il dialogo sopra due nuove scienze” è quasi ultimata.
Finché avrò respiro non smetterò di combattere l’ignoranza.
Non si può fermare la Terra, non si possono fermare le idee con una carta di tribunale.
Esse sono come l’acqua: datele un po’ di tempo e scaverà la roccia.
C’è stato un tempo in cui mi sentivo impavido e credevo che la paura fosse un sentimento riservato solo agli animi deboli e alla gente ignorante.
Non ricordo come mi fosse venuta l’idea di puntare il cannocchiale verso il cielo. Pensai che, se la lente dello strumento riusciva a mostrare oggetti lontani sulla Terra, forse poteva farlo anche con quelli che occupavano il firmamento… da quell’istante la mia vita non fu più la stessa.
Notte dopo notte, neppure il gelo che mordeva il volto e irrigidiva le mani avrebbe potuto farmi desistere dai miei propositi: mentre il buio ingoiava ogni tetto delle case di Padova, puntavo il mio tubo verso la volta stellata e mi lasciavo sorprendere dall’immensità.
Mi colava il naso e mi lagrimavano gli occhi per cui, spesso, dovevo fermarmi per asciugare la carta su cui disegnavo con cura ciò che vedevo: i profondi crateri della Luna e le sue ombre, la piccola falce di Venere, l’innumerevole quantità di stelle che, a occhio nudo, non avrei mai potuto ammirare. Guardavo e annotavo con precisione ciò che il limpido cielo invernale mi mostrava.
Il sette di gennaio dell’anno 1610, mentre stavo osservando Giove, notai la presenza di quattro piccoli puntini luminosi, due da un lato e due dall’altro lato del pianeta. Sulle prime credetti che fossero delle stelle fisse che non avevo mai visto nonostante avessi già ispezionato molte volte quella zona del cielo. Pensai che forse, in passato, le lenti del mio cannocchiale erano troppo deboli; le mie mani indolenzite portavano ancora i segni delle molte ore trascorse nel laboratorio per perfezionarle.
La notte seguente tornai a guardare la stessa parte del cielo, e mi accorsi che quelle stelline sembravano essersi spostate, come se si fossero mosse. Che fosse solo un’illusione, un errore della vista, un difetto delle lenti o, forse, era colpa dell’umidità della notte che aveva appannato lo strumento?
Mi allontanai dall’oculare, stropicciai gli occhi, feci qualche passo nel buio e dei respiri profondi prima di ritentare l’osservazione ma, quando misi di nuovo l’occhio sul cannocchiale, mi accorsi che la situazione non era cambiata: i puntini luminosi avevano davvero assunto una formazione diversa da quella della notte prima. Il disegno sul mio taccuino ne era la prova evidente.
Annotai subito la nuova posizione di quegli astri. Da allora, notte dopo notte, ogni volta li trovavo disposti in modo differente. A volte precedevano il pianeta, altre lo seguivano. Come stormi di uccelli cambiavano spesso la formazione obbedendo a una legge di cui mi sfuggiva la regola. Una volta uno dei piccoli lumi sembrava essere svanito nell’oscurità ma, la notte successiva, riapparve.
Col passare dei giorni, mi resi conto che quegli astri non erano affatto stelle lontane e fisse come credevo: si trattava di corpi celesti che ruotavano attorno a Giove.
I loro movimenti sembravano una sorta di danza: seguivano un ritmo e una simmetria prestabilita simile a un minuetto. Era come se il pianeta li facesse volteggiare attorno a lui sostenendoli con mano sicura e invisibile.
Dovetti sdraiarmi per non vacillare perché era come se il mondo stesso si fosse capovolto all’improvviso sotto di me. Secoli di credenze spazzati via da una semplice lente d’ingrandimento.
Quelle piccole lune, brillanti come gemme nel velluto nero del cielo, continuavano a ruotare ignare del tumulto che avevano suscitato nella mia mente.
Mi chiedevo come fosse possibile negare ciò che gli occhi potevano vedere con tanta chiarezza: se quei quattro piccoli mondi non giravano attorno alla Terra ma attorno a Giove, perché mai la Terra doveva ancora essere ritenuta al centro di tutto il creato? Forse il nostro non era che uno dei tanti pianeti che danzavano attorno al Sole.
Nell’oscurità e nel silenzio potevo sentire il fluire del sangue ardere nelle vene, il cuore galoppare fino a mozzarmi il respiro.
Dunque, ben ragionava Messer Copernico nel dire che le cose del cielo funzionavano in modo diverso da quello che ci avevano sempre insegnato...
Questo fatto non si poteva più ignorare. Io ne avevo ottenuto la prova.
Sotto la grande volta stellata, mi sentivo parte del mistero della natura, un piccolo ingranaggio di un antico meccanismo che stava iniziando a svelare i suoi segreti.
I miei pensieri vagavano altalenanti come un vascello sbattuto dalla furia delle onde, a volte vedevo gli antri bui e dolorosi delle torture che avrei potuto subire dalla Santa Inquisizione per le mie scoperte, altre volte mi vedevo protetto dalla bonaccia di una baia, osannato come accade solo ai grandi uomini.
Conoscevo bene i rischi che avrei corso se avessi rivelato ciò che ormai non poteva e non doveva essere più essere taciuto al mondo. La verità divampava dentro di me come un fuoco che divorava le paure e l’orgoglio e la frenesia mi accecavano.
Di giorno insegnavo, di notte osservavo e scrivevo cercando di utilizzare le parole del popolo. Tutti coloro che sapevano leggere dovevano capire, o quantomeno intuire, la portata di ciò che avevo scoperto. “Sidereus Nuncius”: così volli intitolare la mia opera.
C’è stato un tempo in cui credevo che il potere del denaro e delle lusinghe mi avrebbe fornito la chiave per aprire qualsiasi porta. Anche quella della Chiesa.
Mi servivano denaro e protezione, sapevo bene che qualcuno avrebbe cercato di farmi tacere. Ma dilaniarsi nel dubbio non sarebbe stato utile ad alcuno. Allora l’ingegno venne di nuovo in mio soccorso: la battaglia contro l’ignoranza dovevano combatterla altri al posto mio. Potenti contro potenti.
Forte di questa illuminazione mandai il mio giovane assistente ad acquistare la carta più preziosa e, lontano da occhi indiscreti, vergai la lettera indirizzata al Granduca di Toscana Cosimo II di cui, a quei tempi, godevo la stima.
Ricordo ancora la cura con cui scelsi ogni parola e verbo:
“Considerando quanto il nome della Vostra Altezza Serenissima sia glorioso e come voi irradiate virtù divina e fortuna legale, mi è parso parso giusto associare questa nuova rivelazione astronomica al nome della vostra eccelsa famiglia, affinché gli astri appena scoperti, prendano il loro posto nei cieli eterni col nome di “Astri Medicei…”
C’è stato un tempo in cui ho dovuto nascondere il rossore del volto chinando la testa senza poter più rivolgere lo sguardo al cielo.
“Veemente sospetto di eresia” questo fu il verdetto del Tribunale della Santa Inquisizione contro di me.
Io, Galileo Galilei, fui considerato eretico e costretto ad abiurare. Se la paura è un sentimento riservato agli uomini deboli, ebbene, io fui debole.
Forse, se fossi stato condannato al rogo non mi sarei piegato, probabilmente avrei scelto il martirio in nome della Verità, ma l’idea di dover passare il resto dei miei giorni rinchiuso in un carcere della Chiesa, lontano dai miei strumenti e dai miei studi, mi sembrò mille volte peggiore della morte stessa. Per questo abiurai e ottenni di trascorre il resto dei miei giorni recluso nella mia casa ad Arcetri.
C’è un tempo in cui i sensi perdono il loro potere e mostrano al nostro intelletto una realtà altrimenti invisibile. È ciò che, adesso, capita a me che sono vecchio e stanco, ormai. Oggi la strada mi appare chiara come non mai, ma ho bisogno dei miei bastoni per percorrerla dritta fino alla fine. E, per questo, mi sento fortunato. Ho due validi bastoni in carne e ossa che si occupano di me.
Mi muovo a tentoni tra le pareti. Del cielo e del movimento dei suoi astri mi resta solo il ricordo impresso nella memoria, una fitta coltre di nebbia mi vela gli occhi.
Bussano alla porta. Mi pare quasi di vederli, i miei fedeli amici Vincenzo Viviani ed Evangelista Torricelli; due anime nobili che sfidano la sorte, la Santa Inquisizione e i miasmi del mio corpo ogni volta che mi vengono a trovare.
Riconosco l’incedere dei loro passi nel corridoio.
Oggi loro sono la mia vista e la mia penna e grazie al loro coraggio la scrittura de “Il dialogo sopra due nuove scienze” è quasi ultimata.
Finché avrò respiro non smetterò di combattere l’ignoranza.
Non si può fermare la Terra, non si possono fermare le idee con una carta di tribunale.
Esse sono come l’acqua: datele un po’ di tempo e scaverà la roccia.