[MI 184] Come Stephen King
Posted: Wed Oct 16, 2024 10:16 pm
Traccia 1. "La verità di un sogno"
Come Stephen King
«Da quand’è che fai sogni così?» Nic appoggia la bottiglia sul gradino.
«Non lo so», risponde Giada. «Da quando ho iniziato l’università, forse?» Stanno tutti in silenzio, seduti sugli scalini del cimitero, sotto le stelle coperte dalle nuvole.
Te hace falta corashe; te hace, te hace, te hace falta corashe
La cassa sputa la voce della rapper. Giada sorseggia la birra e si stringe nel cappotto. “Coraggio”. Le sembra di non averne mai avuto.
«Ogni tanto ho paralisi del sonno», continua. «Demoni che mi fanno a pezzi, incubi, cose così».
Ale bestemmia. «Io impazzirei».
Scuote la testa e si accende una sigaretta. «Sono solo sogni, capite?»
La guardano come fuori di testa. «Sì», fa Bryan, «ma quello che hai raccontato prima è assurdo, il sogno durato più anni. Quanto reale ti sembrava?»
«Non ricordo tutto, adesso. Ho conosciuto questa ragazza, bellissima, intelligente. Stra presa bene col rap. L’ho sognata più volte, in realtà. Ci siamo sposate e siamo andate a vivere in questa villetta davanti al mare. La sera ci beccavamo con gli amici, c’eravate anche voi, rappavamo; oppure guardavamo film sdraiati sul divano col gatto, e la notte scrivevo barre sul quaderno, e al mattino potevo dormire senza nessuna sveglia a rompermi le palle.»
«E che lavoro facevi?» Chiede Gabri.
«Lavoro? E che ne so! Magari non c’era manco, il lavoro. Magari era un’utopia socialista. E dai.» Il cellulare le vibra nella tasca e la sua mano si muove da sola.
«Ma che faresti, otto ore al giorno?»
Giada apre la bocca e poi la richiude. La bambina dentro di lei sta gridando la risposta, ma l’adulta le tiene le labbra cucite. Appoggia il telefono e butta il mozzicone nella bottiglia vuota.
Y aunque venga y me hechize Morfeo voy a seguir teniendo a mi estrella en el cielo
Resta in silenzio, trasportata dalle vibrazioni del rap, ipnotizzata da Lo’ che sta facendo su. Lo schermo del cellulare si illumina di nuovo e sorride.
«Almeno tu fai quello che ti piace», fa Bryan. «E per me è una figata. Volevi fare la biologa marina e ci sei riuscita. Cazzo, io ti ammiro. Hai realizzato i tuoi sogni.»
I sogni?
Guarda la scalinata, l’inferriata del cimitero, l’asfalto, e sente di volere scomparire assieme al vento che soffia tra le lapidi. Le sta girando la testa...
La vita è un brivido che vola via veloce in un soffio o in uno schiocco di dita; questa è la mia, so che non dura in eterno, per questo ne lascio i segni sopra un quaderno
Che vuol dire realizzare i sogni, in un mondo in cui si è tutti schiavi? Per qualche ragione le pareva che Nic, con il suo odio di classe, avesse la risposta, ma ora sa che non è così. Ogni volta che parlavano del futuro, della vita adulta, delle incertezze e delle prospettive vertiginose, concludevano dicendo: «Va be’, se tutto va proprio in merda, andiamo in Sudamerica e apriamo una fattoria».
Che fine fa tutta la rabbia quando si cresce? Tutto lo schifo per gli abusi passati dalle loro sorelle, per la distruzione della mente dell’operaio, per la violenza dei maiali in divisa contro chi ha la pelle di un altro colore, per la propaganda che azzitisce l’arte?
Alla fine nessuno di loro ha la risposta. Forse è questo che li unisce.
Ti accorgi che la vita è una foto di gruppo, molti posano, troppi vivono a contatto con una realtà che non è di casa, si affrettano a prendere decisioni nell’attesa di qualcosa con il rischio che non accada, di qualcuno con il rischio che non ti veda, del motivo che ci accomuna dentro la cornice
Ila e Gabri hanno sempre disegnato. Hanno smesso, ora fanno la dietista e il becchino. Marghe ce l’ha fatta, ma Giada si chiede comunque se sia felice, imbottigliando l’arte nei ritmi frenetici della produttività e del fatturato.
Marti scriveva poesie, ma adesso lavora in un’agenzia giornalistica e non ha le energie neanche per respirare.
Ale e Mina scrivevano racconti, ma hanno smesso per lo stress di un dottorato in storia e uno in biologia. Dovevano solo crederci di più, per diventare come Stephen King.
Lo’ ha idee pazzesche per i video e ha la passione del cinema, sono anni che dice di voler fare sul serio, ma l’affitto e un lavoro che non paga abbastanza lo stanno consumando.
Ste poteva fare strada nel pugilato, ma era costellata di troppi sacrifici, e ora ha una casa e un mutuo da pagare.
Bryan possiede un bar, ma non gliene frega un cazzo, gli piace pescare. Forse lui ha capito davvero.
E Giada, be’... Giada alza il volume della cassa per sentire il rap che le fa vibrare le ossa. Hip hop non è solo rabbia; è il bisogno di gridare al mondo qualcosa che nessuno vuole ascoltare, è un sogno, è arte.
Non è un hobby, faccio ancora musica per i miei quattro stronzi
Le dita battono sulla tastiera del telefono.
«Ma con chi ti stai scrivendo? Ho visto quel sorriso.» Marti allunga il collo per sbirciare e lei blocca lo schermo.
«Ma niente, una tipa con cui ho matchato su Tinder», scrolla le spalle.
«E che ha di tanto speciale?»
«Ma figurati», si stringe le ginocchia. «Lascia stare».
«E dai! Sentiti libera di fare la romanticona.» Dice Lo’, e le passa da fumare.
«Non so. Il fatto è che ci capiamo su così tanti livelli. Come se tutto ciò...» Alza le mani in un gesto che vuole includere il cimitero, la città, forse l’universo. «Come se tutto ciò fosse solo secondario. Mi fa sentire di non essere sbagliata per credere che il modo in cui viviamo otto ore al giorno non abbia a che fare con chi siamo davvero, capite? E poi–»
«Giada è innamorata». La stanno guardando con dei sorrisi a metà tra il sincero e la presa per il culo.
«Ma va’. Manco l’ho vista, ancora. ‘Sto fine settimana ci becchiamo.»
«E che t’aspetti?»
«Ormai un cazzo. Già se è una persona normale è tanto. Però, capite, ho questo strano sentore che... Come dei déjà vu, e... Va be’, guardate.» Apre la foto profilo della ragazza. Si avvicinano, si accalcano sullo schermo come locuste su una vaschetta di gelato. «La conoscete?»
«Mai vista. Perché?»
«Perché ho questa strana sensazione di averla già incontrata, ma non ricordo dove. A scuola? In una compagnia con cui siamo usciti?»
«Boh. Come si chiama?»
«Non ve lo dico. Non importa.»
«Come non importa?»
«Un nome è solo un nome, dice. Dice di sentirsi qualcosa di più. L’insieme delle storie che l’ha portata dov’è adesso, frammenti di universi più vasti, sogni. Dice di essere una medusa, e sto iniziando a credere di esserlo anch’io.»
«Minchia, fortuna che doveva essere normale», fa Ale.
Io voglio perdermi, tu vienimi a cercare fra i detriti, tra le bottiglie rotte e i sogni infranti dei falliti
«Dai, medusa», Den le dà un colpo sulla spalla, «metti su un beat. Facciamo freestyle.»
In metro, Giada ha la mente piena di cotone e i capelli spettinati; si sente grigia come le persone che ha attorno. Non sono questo, si dice. Non sono un’impiegata, non sono una pendolare, non sono una ricercatrice. Come è emerso, il pensiero torna sopito, seppellito sotto metri di impegni, scadenze da rispettare, pensieri razionali, catene logiche che portano da ipotesi a conclusione. Mentre la mente lavora, non ha le energie neanche per ascoltare del rap.
A casa chiude fuori dalle finestre lo smog, si lava ma continua a sentirsi sporca. Ha un sorriso genuino solo quando prende il telefono per rispondere a lei. A qualsiasi ora del giorno. Solo allora smette di sentirsi una ricercatrice, una lavoratrice, un cazzo di ingranaggio nel sistema, e può sentirsi libera di essere una bambina, una medusa, un fungo.
Si danno conferma: il giorno dopo, dieci di sera.
Che saremo poi, forse solo stelle esplose libere nell’universo che ci porta al limite, poi ti vedo che pure te sei d’accordo, in fondo sei soltanto me dentro un altro corpo
Si sdraia a letto e non le passa neanche in testa di prendere il quaderno e scrivere. Chiude gli occhi e vede script informatici, formule statistiche, pipette da laboratorio. Che poi non c’è niente di male, pensa. Non si sta spaccando la schiena in fabbrica. Molti suoi colleghi sono appassionati. Però lei sa benissimo qual è la sua passione, che cosa farebbe per otto ore al giorno. Ma il mercato del rap non paga. È un passatempo, essere adulti è responsabilità. Deve fare soldi.
Mentre fatica a prendere sonno, emozioni di una vita diversa filtrano attraverso il velo della realtà. Una casa in riva al mare, un gatto, due fedi luccicanti, una donna che la ama. Da un universo lontano sente l’ombra del suo odore, sapore, calore. Chi è?
In sogno è in ufficio a fare script al computer. La porta si apre. Sulla soglia c’è lei, sua moglie in altri universi irraggiungibili, e tiene per mano una bambina. Dietro di loro, il soggiorno della loro casa, e fuori dalla finestra, il mare che preme forte contro il vetro per entrare. Nel blu intenso fluttuano pigre meduse.
La donna dà un biglietto bianco alla bambina e la spinge verso Giada. I suoi passi non emettono un suono. Giada la riconosce e rimane pietrificata. È sé stessa, è Giada da piccola. Si ricorda allora di aver lasciato correre i giorni, senza mai fermarsi a riflettere, e di essere invecchiata, una professoressa autorevole e rispettata con una cattedra e tutto quanto.
La bambina le porge il foglio. Lei ci mette un’eternità a muoversi. Lo afferra e legge. “Non è così che finirà e lo hai sempre saputo”.
Senza razza né colore, è una cosa sola, è l'hip-hop che batte in petto ed esce dalla gola, è la voglia di cantare per non stare muti, è la voglia di volare per non stare chiusi, è amore puro, per chi rimane solidale, rimane umano, per chi condivide il pane
«E questa la conosci?» Giada prende il telefono e cerca una canzone.
«Non ci credo», risponde Medusa. «Amo, questa traccia mi piace un botto».
«Ah sì? Allora poi ti faccio sentire un pezzo di una mia socia che è nelle stesse vibe. Sta solo su YouTube però.»
Mentre si godono le vibrazioni del rap restano sedute a guardarsi, in silenzio. Sono sulla vecchia Clio Storia di Giada. È mezza scassata, ma lei le vuole bene come a un’amica; c’è una ghirlanda colorata sui sedili posteriori e la carrozzeria è piena di adesivi di animali, loghi di centri di ricerca, personaggi anime, rapper storici.
La pioggia scroscia e nelle pozzanghere si riflettono i lampioni.
«Che nome hai dato alla tua macchina?» Chiede l’altra.
«Come sapevi che le ho dato un nome?»
«Connessione Bluetooth mentale». Spalanca gli occhi azzurro ghiaccio.
Giada ride. «Si chiama Cassiopea».
«La mia invece Carla».
«Carla, eh? Cassiopea è anche la mia costellazione preferita, perché la si vede ovunque, anche in città dove c’è inquinamento luminoso, ed è tipica dell’autunno, la mia stagione preferita.»
«È anche la mia preferita».
«Il nome gliel’ha dato una mia amica, Ila, perché ha detto che sembra una cassa da morto».
«Ma poverina!»
«Con affetto. All’inizio aveva detto Cassandra, ma preferisco Cassiopea. Le auto di Ale e Nic invece si chiamano Eteromobile e Gaymobile, perché una è una Cinquecento nera manuale e l’altra una Cinquecento rosa automatica.
Giuro che non parlo così tanto di solito. È solo che anche tu parli così tanto e ho così tante cose da dire e...»
«Ma non c’è problema», fa l’altra. «Guarda, ti faccio vedere una cosa. Ti ho detto che faccio teatro, no? Ti faccio vedere il costume per lo spettacolo dell’anno scorso, guarda...»
Le fa vedere foto, spezzoni di spettacoli, video, scorrendo la galleria davanti a lei come se si conoscessero da sempre. E Giada apre il quaderno, e anche se lei sbircia dentro, tra le righe in cui ha versato il cuore, non sente alcun bisogno di nasconderlo, perché sa che è uno spazio senza giudizio.
Mettono su dei beat, Giada prova qualche testo.
Parlano ininterrottamente, due fiumi in piena, mossi dalla gravità di volersi raggiungere, che è poi la spinta che sta dietro a qualsiasi forma d’arte. Ed è questo che pensa, mentre la ammira in un attimo di silenzio; pensa che lei sia arte. E continua a chiedersi dove l’abbia già incontrata, in passato, perché ne è sicura; ma forse non importa neanche dove.
E non siamo altro che una somma tra amici, famiglia, quartiere, paure degli altri, insulti, preghiere
«Sai», incomincia sottovoce Giada, con quella serietà con cui si incominciano frasi che non si sa dove andranno a parare, «io non lo so davvero quello che sto facendo. Mi chiedo tutti i cazzo di giorni chi sono, se sto seguendo il percorso giusto, e che cosa vuol dire giusto, e a volte mi sento che non ho energie per fare niente, ed è come essere già morti, e...»
«Ora chiudi gli occhi», la sua voce è un sussurro, «e ascoltami. Prendi un respiro. Tutto quello che sei, tutto quello che pensi di essere, tutta la vita che fai lassù, in superficie... Tu sei un fungo. Che aspetto hai?»
«Io... Io ho il fusto alto, chiaro, con un anello bianco. Il cappello è largo e sottile, ho tante lamelle, e sopra sono marroncino chiaro, con tante macchie più scure.»
«Bene. Sei un fungo meraviglioso.» Si capisce dalla voce che sta sorridendo. «E sottoterra ci sono le tue ife. Una rete fitta e scura che si estende in tutte le direzioni, che va a profondità incredibili, più in là del tempo stesso. Riesci a vederlo? Riesci a vedere chi sei, nel sottosuolo?»
Giada mormora di sì e rimane in silenzio ad ascoltare la musica a occhi chiusi, sentendosi più grande di quello che è, grande come una bambina.
«A me non piace pensare al futuro», dice l’altra. «So che non potrò fare teatro per sempre, ma io mi sento io quando sono su un palco, sai? Però il teatro non paga, perciò devo optare per altro. Ci sono anche altre cose che mi piacciono. Mi piace...»
«No, ti prego», fa lei. Spalanca gli occhi, lucidi.
Passione si appassisce, passa inosservata; una vita a testa bassa non rimane conservata
«Che cosa?»
«Ti prego. Ho visto la passione nei tuoi occhi quando parli del teatro, come vibri quando parli di quello che ami fare. Non puoi rinunciare. È dura lottare per i sogni, lo so, ma puoi dire di avere davvero vissuto, se non ci hai almeno provato? Ti prego, forse è egoista da parte mia chiedertelo, ma... Se è quello che sogni, non rinunciare a essere un’attrice di teatro.»
Il bacio arriva senza alcun preavviso. Feroce, bollente. Sente il cervello andare in cortocircuito, mentre l’altra le afferra il colletto della camicia e la tira a sé. Ricorda la sensazione, è come un sogno.
Ha capito. Finalmente ha capito chi ha davanti.
Durante gli attimi feroci e lenti tu stringi i pugni, io digrigno i denti
La musica si interrompe, le due si guardano. «Il cavo aux, lo stai tirando...» Fa Giada, e scoppiano a ridere, si abbracciano. «Ho capito», bisbiglia poi.
«Che cosa hai capito?»
Le passa una mano tra i capelli, piano. «Sei tu la ragazza che continuo a sognare. Quella del sogno con la casa in riva al mare, e il gatto, e le notti senza sveglie. Sei sempre stata tu. Quella che ho sempre conosciuto.»
L’altra fa un sorriso enigmatico. «Chissà. Nel sottosuolo, le nostre ife si conoscevano già. Perché anche io sono un fungo, sai? Ma da tempo non vedevo la luce, e ora, be’, questo timido raggio giunge inatteso.»
È notte fonda quando si salutano. Prima di scendere dall’auto, fissa i suoi occhi di ghiaccio su di lei. «Vero che mi riscrivi?»
«Non devi neanche chiederlo». Ha smesso di piovere.
Durante il breve viaggio di ritorno sente di star percorrendo strade di un altro universo di cui neanche conosceva l’esistenza. Antiche meduse fluttuano in aria. Ha ancora addosso il suo odore, il suo sapore, il suo calore. Mette su un beat e improvvisa un freestyle. Sputa fuori tutto, con una chiarezza cristallina che non ha mai avuto. Paure, amori. Ansie, sogni.
Parcheggia l’auto in cortile, spegne i fanali, rimane seduta ad ascoltare beat. Sul tappetino dal lato passeggero c’è un ombrello coi cupcakes. Sorride, contenta di avere una scusa per scriverle subito.
“Oh no, mi hai lasciato l’ombrello in macchina! Mi sa che ci tocca rivederci >:(”
Alza lo sguardo oltre il parabrezza rigato, oltre il condominio giallo, oltre le nuvole, oltre le stelle. Apre il quaderno, prende la penna. Sa di essere arrugginita, ma il testo che sta per scrivere è un nuovo inizio. L’inchiostro tocca la carta.
“Tu lo sai cosa vale per te, io lo so cosa vale per me, i sogni, i sogni”
Come Stephen King
«Da quand’è che fai sogni così?» Nic appoggia la bottiglia sul gradino.
«Non lo so», risponde Giada. «Da quando ho iniziato l’università, forse?» Stanno tutti in silenzio, seduti sugli scalini del cimitero, sotto le stelle coperte dalle nuvole.
Te hace falta corashe; te hace, te hace, te hace falta corashe
La cassa sputa la voce della rapper. Giada sorseggia la birra e si stringe nel cappotto. “Coraggio”. Le sembra di non averne mai avuto.
«Ogni tanto ho paralisi del sonno», continua. «Demoni che mi fanno a pezzi, incubi, cose così».
Ale bestemmia. «Io impazzirei».
Scuote la testa e si accende una sigaretta. «Sono solo sogni, capite?»
La guardano come fuori di testa. «Sì», fa Bryan, «ma quello che hai raccontato prima è assurdo, il sogno durato più anni. Quanto reale ti sembrava?»
«Non ricordo tutto, adesso. Ho conosciuto questa ragazza, bellissima, intelligente. Stra presa bene col rap. L’ho sognata più volte, in realtà. Ci siamo sposate e siamo andate a vivere in questa villetta davanti al mare. La sera ci beccavamo con gli amici, c’eravate anche voi, rappavamo; oppure guardavamo film sdraiati sul divano col gatto, e la notte scrivevo barre sul quaderno, e al mattino potevo dormire senza nessuna sveglia a rompermi le palle.»
«E che lavoro facevi?» Chiede Gabri.
«Lavoro? E che ne so! Magari non c’era manco, il lavoro. Magari era un’utopia socialista. E dai.» Il cellulare le vibra nella tasca e la sua mano si muove da sola.
«Ma che faresti, otto ore al giorno?»
Giada apre la bocca e poi la richiude. La bambina dentro di lei sta gridando la risposta, ma l’adulta le tiene le labbra cucite. Appoggia il telefono e butta il mozzicone nella bottiglia vuota.
Y aunque venga y me hechize Morfeo voy a seguir teniendo a mi estrella en el cielo
Resta in silenzio, trasportata dalle vibrazioni del rap, ipnotizzata da Lo’ che sta facendo su. Lo schermo del cellulare si illumina di nuovo e sorride.
«Almeno tu fai quello che ti piace», fa Bryan. «E per me è una figata. Volevi fare la biologa marina e ci sei riuscita. Cazzo, io ti ammiro. Hai realizzato i tuoi sogni.»
I sogni?
Guarda la scalinata, l’inferriata del cimitero, l’asfalto, e sente di volere scomparire assieme al vento che soffia tra le lapidi. Le sta girando la testa...
La vita è un brivido che vola via veloce in un soffio o in uno schiocco di dita; questa è la mia, so che non dura in eterno, per questo ne lascio i segni sopra un quaderno
Che vuol dire realizzare i sogni, in un mondo in cui si è tutti schiavi? Per qualche ragione le pareva che Nic, con il suo odio di classe, avesse la risposta, ma ora sa che non è così. Ogni volta che parlavano del futuro, della vita adulta, delle incertezze e delle prospettive vertiginose, concludevano dicendo: «Va be’, se tutto va proprio in merda, andiamo in Sudamerica e apriamo una fattoria».
Che fine fa tutta la rabbia quando si cresce? Tutto lo schifo per gli abusi passati dalle loro sorelle, per la distruzione della mente dell’operaio, per la violenza dei maiali in divisa contro chi ha la pelle di un altro colore, per la propaganda che azzitisce l’arte?
Alla fine nessuno di loro ha la risposta. Forse è questo che li unisce.
Ti accorgi che la vita è una foto di gruppo, molti posano, troppi vivono a contatto con una realtà che non è di casa, si affrettano a prendere decisioni nell’attesa di qualcosa con il rischio che non accada, di qualcuno con il rischio che non ti veda, del motivo che ci accomuna dentro la cornice
Ila e Gabri hanno sempre disegnato. Hanno smesso, ora fanno la dietista e il becchino. Marghe ce l’ha fatta, ma Giada si chiede comunque se sia felice, imbottigliando l’arte nei ritmi frenetici della produttività e del fatturato.
Marti scriveva poesie, ma adesso lavora in un’agenzia giornalistica e non ha le energie neanche per respirare.
Ale e Mina scrivevano racconti, ma hanno smesso per lo stress di un dottorato in storia e uno in biologia. Dovevano solo crederci di più, per diventare come Stephen King.
Lo’ ha idee pazzesche per i video e ha la passione del cinema, sono anni che dice di voler fare sul serio, ma l’affitto e un lavoro che non paga abbastanza lo stanno consumando.
Ste poteva fare strada nel pugilato, ma era costellata di troppi sacrifici, e ora ha una casa e un mutuo da pagare.
Bryan possiede un bar, ma non gliene frega un cazzo, gli piace pescare. Forse lui ha capito davvero.
E Giada, be’... Giada alza il volume della cassa per sentire il rap che le fa vibrare le ossa. Hip hop non è solo rabbia; è il bisogno di gridare al mondo qualcosa che nessuno vuole ascoltare, è un sogno, è arte.
Non è un hobby, faccio ancora musica per i miei quattro stronzi
Le dita battono sulla tastiera del telefono.
«Ma con chi ti stai scrivendo? Ho visto quel sorriso.» Marti allunga il collo per sbirciare e lei blocca lo schermo.
«Ma niente, una tipa con cui ho matchato su Tinder», scrolla le spalle.
«E che ha di tanto speciale?»
«Ma figurati», si stringe le ginocchia. «Lascia stare».
«E dai! Sentiti libera di fare la romanticona.» Dice Lo’, e le passa da fumare.
«Non so. Il fatto è che ci capiamo su così tanti livelli. Come se tutto ciò...» Alza le mani in un gesto che vuole includere il cimitero, la città, forse l’universo. «Come se tutto ciò fosse solo secondario. Mi fa sentire di non essere sbagliata per credere che il modo in cui viviamo otto ore al giorno non abbia a che fare con chi siamo davvero, capite? E poi–»
«Giada è innamorata». La stanno guardando con dei sorrisi a metà tra il sincero e la presa per il culo.
«Ma va’. Manco l’ho vista, ancora. ‘Sto fine settimana ci becchiamo.»
«E che t’aspetti?»
«Ormai un cazzo. Già se è una persona normale è tanto. Però, capite, ho questo strano sentore che... Come dei déjà vu, e... Va be’, guardate.» Apre la foto profilo della ragazza. Si avvicinano, si accalcano sullo schermo come locuste su una vaschetta di gelato. «La conoscete?»
«Mai vista. Perché?»
«Perché ho questa strana sensazione di averla già incontrata, ma non ricordo dove. A scuola? In una compagnia con cui siamo usciti?»
«Boh. Come si chiama?»
«Non ve lo dico. Non importa.»
«Come non importa?»
«Un nome è solo un nome, dice. Dice di sentirsi qualcosa di più. L’insieme delle storie che l’ha portata dov’è adesso, frammenti di universi più vasti, sogni. Dice di essere una medusa, e sto iniziando a credere di esserlo anch’io.»
«Minchia, fortuna che doveva essere normale», fa Ale.
Io voglio perdermi, tu vienimi a cercare fra i detriti, tra le bottiglie rotte e i sogni infranti dei falliti
«Dai, medusa», Den le dà un colpo sulla spalla, «metti su un beat. Facciamo freestyle.»
In metro, Giada ha la mente piena di cotone e i capelli spettinati; si sente grigia come le persone che ha attorno. Non sono questo, si dice. Non sono un’impiegata, non sono una pendolare, non sono una ricercatrice. Come è emerso, il pensiero torna sopito, seppellito sotto metri di impegni, scadenze da rispettare, pensieri razionali, catene logiche che portano da ipotesi a conclusione. Mentre la mente lavora, non ha le energie neanche per ascoltare del rap.
A casa chiude fuori dalle finestre lo smog, si lava ma continua a sentirsi sporca. Ha un sorriso genuino solo quando prende il telefono per rispondere a lei. A qualsiasi ora del giorno. Solo allora smette di sentirsi una ricercatrice, una lavoratrice, un cazzo di ingranaggio nel sistema, e può sentirsi libera di essere una bambina, una medusa, un fungo.
Si danno conferma: il giorno dopo, dieci di sera.
Che saremo poi, forse solo stelle esplose libere nell’universo che ci porta al limite, poi ti vedo che pure te sei d’accordo, in fondo sei soltanto me dentro un altro corpo
Si sdraia a letto e non le passa neanche in testa di prendere il quaderno e scrivere. Chiude gli occhi e vede script informatici, formule statistiche, pipette da laboratorio. Che poi non c’è niente di male, pensa. Non si sta spaccando la schiena in fabbrica. Molti suoi colleghi sono appassionati. Però lei sa benissimo qual è la sua passione, che cosa farebbe per otto ore al giorno. Ma il mercato del rap non paga. È un passatempo, essere adulti è responsabilità. Deve fare soldi.
Mentre fatica a prendere sonno, emozioni di una vita diversa filtrano attraverso il velo della realtà. Una casa in riva al mare, un gatto, due fedi luccicanti, una donna che la ama. Da un universo lontano sente l’ombra del suo odore, sapore, calore. Chi è?
In sogno è in ufficio a fare script al computer. La porta si apre. Sulla soglia c’è lei, sua moglie in altri universi irraggiungibili, e tiene per mano una bambina. Dietro di loro, il soggiorno della loro casa, e fuori dalla finestra, il mare che preme forte contro il vetro per entrare. Nel blu intenso fluttuano pigre meduse.
La donna dà un biglietto bianco alla bambina e la spinge verso Giada. I suoi passi non emettono un suono. Giada la riconosce e rimane pietrificata. È sé stessa, è Giada da piccola. Si ricorda allora di aver lasciato correre i giorni, senza mai fermarsi a riflettere, e di essere invecchiata, una professoressa autorevole e rispettata con una cattedra e tutto quanto.
La bambina le porge il foglio. Lei ci mette un’eternità a muoversi. Lo afferra e legge. “Non è così che finirà e lo hai sempre saputo”.
Senza razza né colore, è una cosa sola, è l'hip-hop che batte in petto ed esce dalla gola, è la voglia di cantare per non stare muti, è la voglia di volare per non stare chiusi, è amore puro, per chi rimane solidale, rimane umano, per chi condivide il pane
«E questa la conosci?» Giada prende il telefono e cerca una canzone.
«Non ci credo», risponde Medusa. «Amo, questa traccia mi piace un botto».
«Ah sì? Allora poi ti faccio sentire un pezzo di una mia socia che è nelle stesse vibe. Sta solo su YouTube però.»
Mentre si godono le vibrazioni del rap restano sedute a guardarsi, in silenzio. Sono sulla vecchia Clio Storia di Giada. È mezza scassata, ma lei le vuole bene come a un’amica; c’è una ghirlanda colorata sui sedili posteriori e la carrozzeria è piena di adesivi di animali, loghi di centri di ricerca, personaggi anime, rapper storici.
La pioggia scroscia e nelle pozzanghere si riflettono i lampioni.
«Che nome hai dato alla tua macchina?» Chiede l’altra.
«Come sapevi che le ho dato un nome?»
«Connessione Bluetooth mentale». Spalanca gli occhi azzurro ghiaccio.
Giada ride. «Si chiama Cassiopea».
«La mia invece Carla».
«Carla, eh? Cassiopea è anche la mia costellazione preferita, perché la si vede ovunque, anche in città dove c’è inquinamento luminoso, ed è tipica dell’autunno, la mia stagione preferita.»
«È anche la mia preferita».
«Il nome gliel’ha dato una mia amica, Ila, perché ha detto che sembra una cassa da morto».
«Ma poverina!»
«Con affetto. All’inizio aveva detto Cassandra, ma preferisco Cassiopea. Le auto di Ale e Nic invece si chiamano Eteromobile e Gaymobile, perché una è una Cinquecento nera manuale e l’altra una Cinquecento rosa automatica.
Giuro che non parlo così tanto di solito. È solo che anche tu parli così tanto e ho così tante cose da dire e...»
«Ma non c’è problema», fa l’altra. «Guarda, ti faccio vedere una cosa. Ti ho detto che faccio teatro, no? Ti faccio vedere il costume per lo spettacolo dell’anno scorso, guarda...»
Le fa vedere foto, spezzoni di spettacoli, video, scorrendo la galleria davanti a lei come se si conoscessero da sempre. E Giada apre il quaderno, e anche se lei sbircia dentro, tra le righe in cui ha versato il cuore, non sente alcun bisogno di nasconderlo, perché sa che è uno spazio senza giudizio.
Mettono su dei beat, Giada prova qualche testo.
Parlano ininterrottamente, due fiumi in piena, mossi dalla gravità di volersi raggiungere, che è poi la spinta che sta dietro a qualsiasi forma d’arte. Ed è questo che pensa, mentre la ammira in un attimo di silenzio; pensa che lei sia arte. E continua a chiedersi dove l’abbia già incontrata, in passato, perché ne è sicura; ma forse non importa neanche dove.
E non siamo altro che una somma tra amici, famiglia, quartiere, paure degli altri, insulti, preghiere
«Sai», incomincia sottovoce Giada, con quella serietà con cui si incominciano frasi che non si sa dove andranno a parare, «io non lo so davvero quello che sto facendo. Mi chiedo tutti i cazzo di giorni chi sono, se sto seguendo il percorso giusto, e che cosa vuol dire giusto, e a volte mi sento che non ho energie per fare niente, ed è come essere già morti, e...»
«Ora chiudi gli occhi», la sua voce è un sussurro, «e ascoltami. Prendi un respiro. Tutto quello che sei, tutto quello che pensi di essere, tutta la vita che fai lassù, in superficie... Tu sei un fungo. Che aspetto hai?»
«Io... Io ho il fusto alto, chiaro, con un anello bianco. Il cappello è largo e sottile, ho tante lamelle, e sopra sono marroncino chiaro, con tante macchie più scure.»
«Bene. Sei un fungo meraviglioso.» Si capisce dalla voce che sta sorridendo. «E sottoterra ci sono le tue ife. Una rete fitta e scura che si estende in tutte le direzioni, che va a profondità incredibili, più in là del tempo stesso. Riesci a vederlo? Riesci a vedere chi sei, nel sottosuolo?»
Giada mormora di sì e rimane in silenzio ad ascoltare la musica a occhi chiusi, sentendosi più grande di quello che è, grande come una bambina.
«A me non piace pensare al futuro», dice l’altra. «So che non potrò fare teatro per sempre, ma io mi sento io quando sono su un palco, sai? Però il teatro non paga, perciò devo optare per altro. Ci sono anche altre cose che mi piacciono. Mi piace...»
«No, ti prego», fa lei. Spalanca gli occhi, lucidi.
Passione si appassisce, passa inosservata; una vita a testa bassa non rimane conservata
«Che cosa?»
«Ti prego. Ho visto la passione nei tuoi occhi quando parli del teatro, come vibri quando parli di quello che ami fare. Non puoi rinunciare. È dura lottare per i sogni, lo so, ma puoi dire di avere davvero vissuto, se non ci hai almeno provato? Ti prego, forse è egoista da parte mia chiedertelo, ma... Se è quello che sogni, non rinunciare a essere un’attrice di teatro.»
Il bacio arriva senza alcun preavviso. Feroce, bollente. Sente il cervello andare in cortocircuito, mentre l’altra le afferra il colletto della camicia e la tira a sé. Ricorda la sensazione, è come un sogno.
Ha capito. Finalmente ha capito chi ha davanti.
Durante gli attimi feroci e lenti tu stringi i pugni, io digrigno i denti
La musica si interrompe, le due si guardano. «Il cavo aux, lo stai tirando...» Fa Giada, e scoppiano a ridere, si abbracciano. «Ho capito», bisbiglia poi.
«Che cosa hai capito?»
Le passa una mano tra i capelli, piano. «Sei tu la ragazza che continuo a sognare. Quella del sogno con la casa in riva al mare, e il gatto, e le notti senza sveglie. Sei sempre stata tu. Quella che ho sempre conosciuto.»
L’altra fa un sorriso enigmatico. «Chissà. Nel sottosuolo, le nostre ife si conoscevano già. Perché anche io sono un fungo, sai? Ma da tempo non vedevo la luce, e ora, be’, questo timido raggio giunge inatteso.»
È notte fonda quando si salutano. Prima di scendere dall’auto, fissa i suoi occhi di ghiaccio su di lei. «Vero che mi riscrivi?»
«Non devi neanche chiederlo». Ha smesso di piovere.
Durante il breve viaggio di ritorno sente di star percorrendo strade di un altro universo di cui neanche conosceva l’esistenza. Antiche meduse fluttuano in aria. Ha ancora addosso il suo odore, il suo sapore, il suo calore. Mette su un beat e improvvisa un freestyle. Sputa fuori tutto, con una chiarezza cristallina che non ha mai avuto. Paure, amori. Ansie, sogni.
Parcheggia l’auto in cortile, spegne i fanali, rimane seduta ad ascoltare beat. Sul tappetino dal lato passeggero c’è un ombrello coi cupcakes. Sorride, contenta di avere una scusa per scriverle subito.
“Oh no, mi hai lasciato l’ombrello in macchina! Mi sa che ci tocca rivederci >:(”
Alza lo sguardo oltre il parabrezza rigato, oltre il condominio giallo, oltre le nuvole, oltre le stelle. Apre il quaderno, prende la penna. Sa di essere arrugginita, ma il testo che sta per scrivere è un nuovo inizio. L’inchiostro tocca la carta.
“Tu lo sai cosa vale per te, io lo so cosa vale per me, i sogni, i sogni”