[MI184] 54°
Posted: Wed Oct 16, 2024 1:55 pm
Traccia 2. "Quel timido raggio".
Freddo, aveva sempre freddo, una sensazione pungente che arrivava dritta alle ossa. Un freddo bagnato, viscoso, perenne.
Era giugno inoltrato, vestita a cipolla come d’abitudine, ma inutilmente; da anni rimuoveva l’ultimo strato solo per andare a letto, senza però salvarsi dagli occhi arrossati, liquidi, brucianti.
Lory non piangeva più, nonostante spesso le lacrime irrompessero nella gola, spingeva le pareti della trachea, che rispondeva con spasmi dolorosi, stringendosi a non far passare nemmeno l’aria. Lei annaspava composta, poteva sembrare l’aborto di uno starnuto, o di un ruttino, ricacciava indietro il pianto, immaginava il liquido annidarsi tra le ossa, solo una minima parte era riservata agli occhi costantemente gonfi.
Da tempo nessuno le chiedeva più nulla, non un gesto di conforto, erano finiti anche gli sguardi indagatori e quelli compassionevoli.
Decisamente meglio per Lory.
Era arrivata in quell’ufficio da meno di un anno, dopo quattro di riabilitazione psicologica ed uno chiuso in una clinica psichiatrica. Era tornata al mondo del lavoro grazie ad un percorso di inserimento che tutelava le persone fragili, il riconoscimento di un’invalidità che dava maggior peso al sopravvenuto morbo di Crohn, rispetto all’irrefrenabile autolesionismo e al dolore cronico dell’anima: nell’insieme assicurava un bel risparmio di contributi al suo nuovo datore di lavoro, che l’aveva collocata all’ufficio protocollo.
Lory era ancora piacente alla soglia dei quarant’anni, pur non curandosi affatto: i capelli chiari sempre legati con un elastico, diverse striature bianche che non avrebbero più visto una tinta, sempre struccata, con le occhiaia e un accenno di borse sotto gli occhi di un celeste spento. Labbra carnose, ma tirate.
Non nascondeva le bruciature che dalla mano sinistra solcavano la pelle risalendo fino alla spalla, lambendo il collo fino al lobo dell’orecchio. Magrissima, ma con un bel seno.
Gli abiti che indossava erano di ottima fattura, però le cadevano addosso e cominciavano a mostrare i segni del tempo. A nessuno era passato per la testa che le fossero stati regalati. Sapevano che fino a sei maledetti anni prima era una donna in carriera, gestiva i contratti milionari per le pubblicità delle maggiori emittenti televisive e radiofoniche nella sua agenzia, in città.
Al suo ritorno al paesello anche i più invidiosi avevano abbassato lo sguardo incontrandola, con lo stomaco in subbuglio che gridava vergogna per le volte che avevano immaginato di vederla in disgrazia quando era all’apice del successo.
Lory era tornata al paese senza marito. Sua madre, vedova da un decennio, con i parenti in Venezuela e gli altri due figli a Parigi, si era ritrovata con una figlia adulta di cui prendersi cura, una figlia nei cui occhi specchiava la sua disperazione, ma nella voragine che un tempo era stato sguardo fiero, insinuava tacite accuse e non trovava motivazione per quel rapporto ormai forzato.
Quando una leucemia fulminante se l’era portata via in quattro giorni, Lory aveva avuto una parvenza di sollievo, che credeva non avrebbe mai più fatto capolino nella sua routine.
La routine di Lory. Il corrimano della sua vita. La routine aveva originato la fine; così dicevano, una tragica fatalità, frutto della meccanicità dei gesti, dell’alienazione dei tempi moderni. Non voleva essere difesa da nessuno, ma all’epoca aveva perso l’uso della parola, la capacità di reagire. Era un fantoccio dallo sguardo vacuo. Il mondo attorno a lei si agitava, alzava la voce, mentre lei si sgretolova, i ricordi scivolavano tra le dita come sabbia, lei stessa era sabbia asciutta, incapace di sostenere nulla, nemmeno i pensieri.
Aveva lasciato Cassandra al nido, ne era certissima, sganciata dal seggiolino e affidata alla maestra Daniela, come tutte le mattine, tutte, sempre, di corsa. Come sempre.
A questo si erano appigliati. Alla confusione mentale dettata dai gesti che si ripetono uguali tutti i giorni, alla frenesia imposta dai tempi moderni, allo stress.
Sentiva lacerarle il petto l’urlo della sua verità. Aveva lasciato Cassandra a scuola. Ma le urla silenziose venivano sotterrate dalle immagini di chi, tornando dalla pausa pranzo, aveva notato la bimba sul seggiolino nella macchina sotto al sole.
Le urla gridate per davvero. I suoi dipendenti che la chiamavano disperati, mentre sfondavano i finestrini. L’ambulanza, inutile. Cassandra.
Non poteva averla lasciata in macchina. Non era possibile. Cinquantaquattro gradi. Due anni compiuti da poco.
Perché qualcuno doveva difenderla? Doveva pagare, soffrire, essere torturata ogni minuto della sua misera vita. Questa era la muta richiesta di Lory.
Il marito, supportato da un’equipe di psicologi, per un paio di settimane aveva provato a galleggiare e a farsi tronco nel mare della disperazione. Troppo dolore. Il legno era marcito appena informato della notizia. Lui non riusciva a guardare Lory e Lory lo avrebbe voluto accanto solo per sentirsi addosso il suo disprezzo. Lo ha liberato lei. Era un’ulteriore fardello che quel buon padre non meritava.
Presa coscienza dell’accaduto e delle sue responsabilità, Lory aveva tentato il suicidio in una sauna regolata alla massima potenza, stordita dall’alcol per non cedere alla tentazione di uscire, ma era stata salvata dagli addetti, avvisati di una porta che non si riusciva ad aprire dall’esterno.
Tornata a casa dopo due notti in ospedale, si era avvolta con una tenda acrilica ed aveva dato fuoco al tessuto sintetico. L’istinto di sopravvivenza e il dolore insopportabile le avevano permesso di salvarsi.
Una salvezza a forma di macigno impastato coi vetri, che la schiacciava ripetutamente, conducendo la sua mente alle sofferenze che aveva patito la figlia, mentre lei, vigliaccamente, aveva raggiunto la doccia e posto fine al martirio.
Il ricovero coatto in clinica psichiatrica non era stato naturale conseguenza dello stato di Lory, ma una durissima battaglia del suo avvocato, nonché carissima amica di infanzia, preoccupatissima per un imminente gesto definitivo.
Dimessa pochi giorni prima del suo trentaquattresimo compleanno, Lory veniva valutata all’inizio di un percorso di accettazione che poteva percorrere con sedute settimanali di psicanalisi al di fuori dell’istituto.
Il giorno che uscì aveva un golfino leggero adatto alla temperatura, ma venne avvolta da un freddo inaspettato che non l’avrebbe più abbandonata. Il cielo grigio, l’aria scura e ovattata pensò che l’avrebbero accompagnata per il resto dei suoi giorni, esattamente settemilatrecentosei.
Non si sarebbe permessa di morire prima del suo cinquantaquattresimo compleanno.
Troppo facile morire.
Nei prossimi venti anni il 9 e il 21 di ogni mese, giorno di nascita e di morte di Cassandra, la sua punizione doveva farsi carne. Si sarebbe inflitta ulteriori punizioni corporali ogni primo giorno d’inizio del nido frequentato dalla piccola, ogni Natale e ogni martedì grasso. Cinquecentoquaranta torture per i cinquantaquattro gradi, prima di andare definitivamente all’inferno.
Tagli, segni sul collo, lividi, svenimenti, non furono mai degni di attenzioni per nessuno in paese. Aveva pur diritto di soffrire come meglio credeva la sciagurata. La sua unica cara amica rimasta, aveva i suoi problemi di salute improvvisi e gravi, oltre ad abitare in città. Nessun ostacolo al piano che procedeva ormai da cinque anni.
Era difficilissimo limitare le punizioni corporali alle date prefissate, faticava ad ammettere di provare un sollievo quando si auto torturava, minando il suo obiettivo. L’attesa dei giorni consacrati era diventata una punizione addirittura peggiore, che subiva coscienziosamente ma con tensione, soprattutto il fine settimana, quando non aveva un lavoro per impiegare diversamente il tempo.
Erano le 11 di una domenica di maggio quando, seduta al tavolo della cucina, fissando un giornale senza leggerlo, sobbalzò vedendo cadere l’asta a molla con attaccata una delle due tendine a vetro. Dalla finestra appena accostata per fare uscire la puzza di un pentolino lasciato oltremisura sul fuoco, era entrato un gattino arruffato, che giocava con la tenda sul piano della cucina, facendo buffe giravolte, coprendosi e facendo capolino a ripetizione. Decisa ad interrompere subito questa novità inspiegabilmente consolatoria allo sguardo, si avvicinò alla finestra dietro al lavello. Nonostante lo scorrere delle stagioni, Lory non aveva memoria di pelle scaldata dal sole, spesso non accendeva la luce elettrica perché riteneva sufficiente quella naturale, ma non ricordava giornate che non fossero state plumbee. Da tempo non vedeva la luce e quel timido raggio giunse inatteso. C’era un prima, con il sole dentro casa, e un dopo, sprofondato nel grigio con tutti i sensi. Immobile, sconcertata, non era certa di avere avuto una visione a colori negli ultimi anni. Lasciando da parte le incertezze, voleva fare uscire il micetto che continuava a giocare con attacchi a prede immaginarie e saltelli scomposti. Il piccolo non vide nessun pericolo in Lory, le andò incontro curioso, zampettando sul bordo del lavello, alzando la schiena con la peluria corta che sembrava avesse preso la scossa, finendo per strusciarsi sul ventre di Lory, che rimase scioccata dal calore che quell’esserino le trasmetteva.
Con la naturalezza involontaria di un battito cardiaco, le dita erano scivolate tra il morbido pelo del micio, che aveva chiuso gli occhi e sollevato il mento, indicando le sue preferenze. Lory si ritrasse non appena vide il gesto che non pensava di aver compiuto. Pensò che era scomodo farlo uscire dalla finestra e non era sua intenzione fargli male, inoltre aveva deciso di allontanarlo dal suo cortiletto, sperando che non si ripresentasse. Uscendo dalla porta ebbe la visuale completa della piccola corte antistante il cieloterra dove era cresciuta e ormai definitivamente tornata. Quasi a ridosso del cancello di entrata, si era trascinata mamma gatta, evidentemente investita, seguita dai suoi piccoli. Uno le si accoccolava accanto spingendole la pancia con la testina sporca del sangue materno, altri due si rincorrevano nelle vicinanze e il piccolo che aveva in braccio scalpitò per raggiungerli.
Lory fu attraversata da un’inaspettata e scandalosa tenerezza. Indietreggiò per allontanarsi da sentimenti seppelliti con la sua creatura, si rimproverò, ricordando a se stessa che erano solo gatti, ma il corpo non ubbidiva, non riusciva a distogliere lo sguardo dalla scena straziante del piccolo, che tentava di avere le attenzioni della madre. Un flusso di emozioni e sentimenti sopiti la bloccavano. Non poteva lasciare quella situazione nel suo cortile. Per scrupolo andò ad accertarsi che la mamma fosse effettivamente morta e mentre era chinata, il piccolino era balzato all’interno dell’ampia tasca centrale della felpa, in cerca di un rifugio.
Lory sentiva repulsione per quell’istinto protettivo che stava prendendo il sopravvento, per la dolcezza calda che pareva sciogliere il ghiaccio nelle ossa, per l’istinto di sorridere, pur nella tragicità dell’evento, vedendo i giochi buffi degli altri tre cuccioli, che ora le gironzolavano intorno, certi che sarebbe arrivato del cibo.
Dovette ripetersi che erano solo gatti, si umiliò ricordandosi che non poteva salvare nessuno, che era incapace di fare bene, che non aveva rispetto per sua figlia nemmeno da morta: l’irrimediabile l’aveva condannata senza appello.
Non doveva nemmeno pensare di poter sorridere.
Lory prese i quattro cuccioli e li infilò nel secchio bucarellato del giardino, alto più di un metro, con un robusto coperchio, avvolse mamma gatta nella tela che copriva le sedie in plastica e con lei in braccio si incamminò per oltre un’ora nella campagna circostante, per lasciarla, avvolta e sistemata con cura, ai piedi di un grande ulivo.
Durante il percorso di ritorno si domandò con apprensione se i cuccioli potessero essere abbastanza forti da fare cadere il secchio, se potevano scappare, finire in strada. Si rispose che era improbabile, che anche se fosse accaduto i gatti sanno badare a sé stessi e vicino casa sua passavano ben poche macchine, ma intanto aveva accelerato il passo, raggiungendo i ritmi di una corsetta leggera.
Tornata a casa utilizzò dei sottovasi per offrire acqua e una scatoletta di carne che aveva in dispensa, avendo rinunciato da tempo ai cibi freschi e all’arte della cucina.
Lory si vergognava per l’attenzione dedicata ai gattini, non avendo saputo proteggere sua figlia un forte senso di colpa le opprimeva il petto, si chiese cosa poteva pensare la gente, quanto fosse inopportuno che si dedicasse ad un’attività non doverosa o punitiva e improvvisamente si trovò a chiedersi, nauseata, come si permettesse di preoccuparsi del giudizio degli altri, sentiva che stava mettendo sé stessa davanti Cassandra.
----------
Spazzolata la ciotola in pochi minuti, i piccoli riprendono a giocare rumorosamente, attirando una donna che poteva avere qualche anno più di Lory.
“I piccoletti hanno invaso la tua proprietà a quanto vedo! Per caso hai visto la mamma? In genere quando riempio la ciotola arriva in pochi minuti.”
Lory reagisce come se fosse stata colta in flagranza di reato, incava il collo nelle spalle, la voce di sua madre che le chiede -ma come hai fatto?- le gambe cedono, appoggia le mani al muro per non cadere. La donna con difficoltà scavalca il cancello e corre a sorreggerla.
Lory annaspa in un abisso di disperazione, le lacrime hanno travolto la diga, le ossa sembrano cedere, si divincola dall’abbraccio di sostegno, sguardo a terra.
“Non sono stata io. Deve essersi trascinata qui moribonda, io l’ho trovata già morta, con i piccoli intorno.” Si siede a terra, abbracciando le ginocchia e dondolando.
La donna ha un’aria devastata e preoccupata.
“Puoi dirmi dov’è?”
Lory ha rotto gli argini, piange scomposta e piagnucola “so solo spargere dolore. Dolore e morte.”
La donna la cinge con un braccio.
“Se Meg si è trascinata qui con i piccoli, ha sentito di potersi fidare, se ne è andata con la tranquillità di averli messi al sicuro. I gatti leggono l’anima.”
Lory non riesce a guardarla, mormora in continuazione che le dispiace. La donna continua, forzando la presa sull’avambraccio.
“Alcune persone hanno una vita che sembra volerle annientare ad ogni passo con sofferenze che fanno male solo ad immaginarle. Sono le destinatarie di grandi messaggi per l’umanità, trovano la forza dedicandosi ad altri e seminano nuova consapevolezza.”
Lory è rabbiosa, si stacca dalla sconosciuta e le risponde a denti stretti “mia figlia non aveva fatto nulla, mia figlia era solo gioia, mia figlia… non esiste… non si può, i bambini non dovrebbero soffrire… io dovevo pensare a lei.”
La donna piange con lei, le si avvicina nuovamente
“scusami, ti prego. Non c’è consolazione, non ci sono parole, ma veramente questa società ci uccide. Tu hai salvato la mia famiglia. Mi sono trasferita dopo poco la tua tragedia. Due giorni prima della terribile notizia, stavo andando al lavoro. Ho inchiodato a meno di un chilometro da scuola di mia figlia, ho dovuto guardare il seggiolino. Non avevo memoria di averla lasciata alla materna, vuoto assoluto. Ero sconvolta, sono tornata indietro a verificare, con il terrore di averla lasciata sola a casa. Ho capito perfettamente le parole della tua avvocatessa, parlava anche per me, anche io mi sentivo indifendibile.”
Con fatica la donna intercetta lo sguardo di Lory, che sembra persa in pensieri lontani. La donna non aveva mai avuto il coraggio di parlarle. Ma ora sente che deve continuare, a costo di farsi odiare.
“Ho mollato il lavoro, sono venuta qui, non ti nego che ho delle difficoltà perché l’improvvisata struttura ricettiva va poco, ma mi sento salva. Ho capito che poteva essere successo a me, che può capitare ad ognuna di noi. Mi dispiace tantissimo.”
Due micetti decisero che era un buon momento per farsi coccolare. Lory affonda le dita nel loro soffice pelo, il rumore delle fusa la conforta. Le lacrime le stanno solcando il viso, togliendo un po’ di peso dal cuore.
Freddo, aveva sempre freddo, una sensazione pungente che arrivava dritta alle ossa. Un freddo bagnato, viscoso, perenne.
Era giugno inoltrato, vestita a cipolla come d’abitudine, ma inutilmente; da anni rimuoveva l’ultimo strato solo per andare a letto, senza però salvarsi dagli occhi arrossati, liquidi, brucianti.
Lory non piangeva più, nonostante spesso le lacrime irrompessero nella gola, spingeva le pareti della trachea, che rispondeva con spasmi dolorosi, stringendosi a non far passare nemmeno l’aria. Lei annaspava composta, poteva sembrare l’aborto di uno starnuto, o di un ruttino, ricacciava indietro il pianto, immaginava il liquido annidarsi tra le ossa, solo una minima parte era riservata agli occhi costantemente gonfi.
Da tempo nessuno le chiedeva più nulla, non un gesto di conforto, erano finiti anche gli sguardi indagatori e quelli compassionevoli.
Decisamente meglio per Lory.
Era arrivata in quell’ufficio da meno di un anno, dopo quattro di riabilitazione psicologica ed uno chiuso in una clinica psichiatrica. Era tornata al mondo del lavoro grazie ad un percorso di inserimento che tutelava le persone fragili, il riconoscimento di un’invalidità che dava maggior peso al sopravvenuto morbo di Crohn, rispetto all’irrefrenabile autolesionismo e al dolore cronico dell’anima: nell’insieme assicurava un bel risparmio di contributi al suo nuovo datore di lavoro, che l’aveva collocata all’ufficio protocollo.
Lory era ancora piacente alla soglia dei quarant’anni, pur non curandosi affatto: i capelli chiari sempre legati con un elastico, diverse striature bianche che non avrebbero più visto una tinta, sempre struccata, con le occhiaia e un accenno di borse sotto gli occhi di un celeste spento. Labbra carnose, ma tirate.
Non nascondeva le bruciature che dalla mano sinistra solcavano la pelle risalendo fino alla spalla, lambendo il collo fino al lobo dell’orecchio. Magrissima, ma con un bel seno.
Gli abiti che indossava erano di ottima fattura, però le cadevano addosso e cominciavano a mostrare i segni del tempo. A nessuno era passato per la testa che le fossero stati regalati. Sapevano che fino a sei maledetti anni prima era una donna in carriera, gestiva i contratti milionari per le pubblicità delle maggiori emittenti televisive e radiofoniche nella sua agenzia, in città.
Al suo ritorno al paesello anche i più invidiosi avevano abbassato lo sguardo incontrandola, con lo stomaco in subbuglio che gridava vergogna per le volte che avevano immaginato di vederla in disgrazia quando era all’apice del successo.
Lory era tornata al paese senza marito. Sua madre, vedova da un decennio, con i parenti in Venezuela e gli altri due figli a Parigi, si era ritrovata con una figlia adulta di cui prendersi cura, una figlia nei cui occhi specchiava la sua disperazione, ma nella voragine che un tempo era stato sguardo fiero, insinuava tacite accuse e non trovava motivazione per quel rapporto ormai forzato.
Quando una leucemia fulminante se l’era portata via in quattro giorni, Lory aveva avuto una parvenza di sollievo, che credeva non avrebbe mai più fatto capolino nella sua routine.
La routine di Lory. Il corrimano della sua vita. La routine aveva originato la fine; così dicevano, una tragica fatalità, frutto della meccanicità dei gesti, dell’alienazione dei tempi moderni. Non voleva essere difesa da nessuno, ma all’epoca aveva perso l’uso della parola, la capacità di reagire. Era un fantoccio dallo sguardo vacuo. Il mondo attorno a lei si agitava, alzava la voce, mentre lei si sgretolova, i ricordi scivolavano tra le dita come sabbia, lei stessa era sabbia asciutta, incapace di sostenere nulla, nemmeno i pensieri.
Aveva lasciato Cassandra al nido, ne era certissima, sganciata dal seggiolino e affidata alla maestra Daniela, come tutte le mattine, tutte, sempre, di corsa. Come sempre.
A questo si erano appigliati. Alla confusione mentale dettata dai gesti che si ripetono uguali tutti i giorni, alla frenesia imposta dai tempi moderni, allo stress.
Sentiva lacerarle il petto l’urlo della sua verità. Aveva lasciato Cassandra a scuola. Ma le urla silenziose venivano sotterrate dalle immagini di chi, tornando dalla pausa pranzo, aveva notato la bimba sul seggiolino nella macchina sotto al sole.
Le urla gridate per davvero. I suoi dipendenti che la chiamavano disperati, mentre sfondavano i finestrini. L’ambulanza, inutile. Cassandra.
Non poteva averla lasciata in macchina. Non era possibile. Cinquantaquattro gradi. Due anni compiuti da poco.
Perché qualcuno doveva difenderla? Doveva pagare, soffrire, essere torturata ogni minuto della sua misera vita. Questa era la muta richiesta di Lory.
Il marito, supportato da un’equipe di psicologi, per un paio di settimane aveva provato a galleggiare e a farsi tronco nel mare della disperazione. Troppo dolore. Il legno era marcito appena informato della notizia. Lui non riusciva a guardare Lory e Lory lo avrebbe voluto accanto solo per sentirsi addosso il suo disprezzo. Lo ha liberato lei. Era un’ulteriore fardello che quel buon padre non meritava.
Presa coscienza dell’accaduto e delle sue responsabilità, Lory aveva tentato il suicidio in una sauna regolata alla massima potenza, stordita dall’alcol per non cedere alla tentazione di uscire, ma era stata salvata dagli addetti, avvisati di una porta che non si riusciva ad aprire dall’esterno.
Tornata a casa dopo due notti in ospedale, si era avvolta con una tenda acrilica ed aveva dato fuoco al tessuto sintetico. L’istinto di sopravvivenza e il dolore insopportabile le avevano permesso di salvarsi.
Una salvezza a forma di macigno impastato coi vetri, che la schiacciava ripetutamente, conducendo la sua mente alle sofferenze che aveva patito la figlia, mentre lei, vigliaccamente, aveva raggiunto la doccia e posto fine al martirio.
Il ricovero coatto in clinica psichiatrica non era stato naturale conseguenza dello stato di Lory, ma una durissima battaglia del suo avvocato, nonché carissima amica di infanzia, preoccupatissima per un imminente gesto definitivo.
Dimessa pochi giorni prima del suo trentaquattresimo compleanno, Lory veniva valutata all’inizio di un percorso di accettazione che poteva percorrere con sedute settimanali di psicanalisi al di fuori dell’istituto.
Il giorno che uscì aveva un golfino leggero adatto alla temperatura, ma venne avvolta da un freddo inaspettato che non l’avrebbe più abbandonata. Il cielo grigio, l’aria scura e ovattata pensò che l’avrebbero accompagnata per il resto dei suoi giorni, esattamente settemilatrecentosei.
Non si sarebbe permessa di morire prima del suo cinquantaquattresimo compleanno.
Troppo facile morire.
Nei prossimi venti anni il 9 e il 21 di ogni mese, giorno di nascita e di morte di Cassandra, la sua punizione doveva farsi carne. Si sarebbe inflitta ulteriori punizioni corporali ogni primo giorno d’inizio del nido frequentato dalla piccola, ogni Natale e ogni martedì grasso. Cinquecentoquaranta torture per i cinquantaquattro gradi, prima di andare definitivamente all’inferno.
Tagli, segni sul collo, lividi, svenimenti, non furono mai degni di attenzioni per nessuno in paese. Aveva pur diritto di soffrire come meglio credeva la sciagurata. La sua unica cara amica rimasta, aveva i suoi problemi di salute improvvisi e gravi, oltre ad abitare in città. Nessun ostacolo al piano che procedeva ormai da cinque anni.
Era difficilissimo limitare le punizioni corporali alle date prefissate, faticava ad ammettere di provare un sollievo quando si auto torturava, minando il suo obiettivo. L’attesa dei giorni consacrati era diventata una punizione addirittura peggiore, che subiva coscienziosamente ma con tensione, soprattutto il fine settimana, quando non aveva un lavoro per impiegare diversamente il tempo.
Erano le 11 di una domenica di maggio quando, seduta al tavolo della cucina, fissando un giornale senza leggerlo, sobbalzò vedendo cadere l’asta a molla con attaccata una delle due tendine a vetro. Dalla finestra appena accostata per fare uscire la puzza di un pentolino lasciato oltremisura sul fuoco, era entrato un gattino arruffato, che giocava con la tenda sul piano della cucina, facendo buffe giravolte, coprendosi e facendo capolino a ripetizione. Decisa ad interrompere subito questa novità inspiegabilmente consolatoria allo sguardo, si avvicinò alla finestra dietro al lavello. Nonostante lo scorrere delle stagioni, Lory non aveva memoria di pelle scaldata dal sole, spesso non accendeva la luce elettrica perché riteneva sufficiente quella naturale, ma non ricordava giornate che non fossero state plumbee. Da tempo non vedeva la luce e quel timido raggio giunse inatteso. C’era un prima, con il sole dentro casa, e un dopo, sprofondato nel grigio con tutti i sensi. Immobile, sconcertata, non era certa di avere avuto una visione a colori negli ultimi anni. Lasciando da parte le incertezze, voleva fare uscire il micetto che continuava a giocare con attacchi a prede immaginarie e saltelli scomposti. Il piccolo non vide nessun pericolo in Lory, le andò incontro curioso, zampettando sul bordo del lavello, alzando la schiena con la peluria corta che sembrava avesse preso la scossa, finendo per strusciarsi sul ventre di Lory, che rimase scioccata dal calore che quell’esserino le trasmetteva.
Con la naturalezza involontaria di un battito cardiaco, le dita erano scivolate tra il morbido pelo del micio, che aveva chiuso gli occhi e sollevato il mento, indicando le sue preferenze. Lory si ritrasse non appena vide il gesto che non pensava di aver compiuto. Pensò che era scomodo farlo uscire dalla finestra e non era sua intenzione fargli male, inoltre aveva deciso di allontanarlo dal suo cortiletto, sperando che non si ripresentasse. Uscendo dalla porta ebbe la visuale completa della piccola corte antistante il cieloterra dove era cresciuta e ormai definitivamente tornata. Quasi a ridosso del cancello di entrata, si era trascinata mamma gatta, evidentemente investita, seguita dai suoi piccoli. Uno le si accoccolava accanto spingendole la pancia con la testina sporca del sangue materno, altri due si rincorrevano nelle vicinanze e il piccolo che aveva in braccio scalpitò per raggiungerli.
Lory fu attraversata da un’inaspettata e scandalosa tenerezza. Indietreggiò per allontanarsi da sentimenti seppelliti con la sua creatura, si rimproverò, ricordando a se stessa che erano solo gatti, ma il corpo non ubbidiva, non riusciva a distogliere lo sguardo dalla scena straziante del piccolo, che tentava di avere le attenzioni della madre. Un flusso di emozioni e sentimenti sopiti la bloccavano. Non poteva lasciare quella situazione nel suo cortile. Per scrupolo andò ad accertarsi che la mamma fosse effettivamente morta e mentre era chinata, il piccolino era balzato all’interno dell’ampia tasca centrale della felpa, in cerca di un rifugio.
Lory sentiva repulsione per quell’istinto protettivo che stava prendendo il sopravvento, per la dolcezza calda che pareva sciogliere il ghiaccio nelle ossa, per l’istinto di sorridere, pur nella tragicità dell’evento, vedendo i giochi buffi degli altri tre cuccioli, che ora le gironzolavano intorno, certi che sarebbe arrivato del cibo.
Dovette ripetersi che erano solo gatti, si umiliò ricordandosi che non poteva salvare nessuno, che era incapace di fare bene, che non aveva rispetto per sua figlia nemmeno da morta: l’irrimediabile l’aveva condannata senza appello.
Non doveva nemmeno pensare di poter sorridere.
Lory prese i quattro cuccioli e li infilò nel secchio bucarellato del giardino, alto più di un metro, con un robusto coperchio, avvolse mamma gatta nella tela che copriva le sedie in plastica e con lei in braccio si incamminò per oltre un’ora nella campagna circostante, per lasciarla, avvolta e sistemata con cura, ai piedi di un grande ulivo.
Durante il percorso di ritorno si domandò con apprensione se i cuccioli potessero essere abbastanza forti da fare cadere il secchio, se potevano scappare, finire in strada. Si rispose che era improbabile, che anche se fosse accaduto i gatti sanno badare a sé stessi e vicino casa sua passavano ben poche macchine, ma intanto aveva accelerato il passo, raggiungendo i ritmi di una corsetta leggera.
Tornata a casa utilizzò dei sottovasi per offrire acqua e una scatoletta di carne che aveva in dispensa, avendo rinunciato da tempo ai cibi freschi e all’arte della cucina.
Lory si vergognava per l’attenzione dedicata ai gattini, non avendo saputo proteggere sua figlia un forte senso di colpa le opprimeva il petto, si chiese cosa poteva pensare la gente, quanto fosse inopportuno che si dedicasse ad un’attività non doverosa o punitiva e improvvisamente si trovò a chiedersi, nauseata, come si permettesse di preoccuparsi del giudizio degli altri, sentiva che stava mettendo sé stessa davanti Cassandra.
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Spazzolata la ciotola in pochi minuti, i piccoli riprendono a giocare rumorosamente, attirando una donna che poteva avere qualche anno più di Lory.
“I piccoletti hanno invaso la tua proprietà a quanto vedo! Per caso hai visto la mamma? In genere quando riempio la ciotola arriva in pochi minuti.”
Lory reagisce come se fosse stata colta in flagranza di reato, incava il collo nelle spalle, la voce di sua madre che le chiede -ma come hai fatto?- le gambe cedono, appoggia le mani al muro per non cadere. La donna con difficoltà scavalca il cancello e corre a sorreggerla.
Lory annaspa in un abisso di disperazione, le lacrime hanno travolto la diga, le ossa sembrano cedere, si divincola dall’abbraccio di sostegno, sguardo a terra.
“Non sono stata io. Deve essersi trascinata qui moribonda, io l’ho trovata già morta, con i piccoli intorno.” Si siede a terra, abbracciando le ginocchia e dondolando.
La donna ha un’aria devastata e preoccupata.
“Puoi dirmi dov’è?”
Lory ha rotto gli argini, piange scomposta e piagnucola “so solo spargere dolore. Dolore e morte.”
La donna la cinge con un braccio.
“Se Meg si è trascinata qui con i piccoli, ha sentito di potersi fidare, se ne è andata con la tranquillità di averli messi al sicuro. I gatti leggono l’anima.”
Lory non riesce a guardarla, mormora in continuazione che le dispiace. La donna continua, forzando la presa sull’avambraccio.
“Alcune persone hanno una vita che sembra volerle annientare ad ogni passo con sofferenze che fanno male solo ad immaginarle. Sono le destinatarie di grandi messaggi per l’umanità, trovano la forza dedicandosi ad altri e seminano nuova consapevolezza.”
Lory è rabbiosa, si stacca dalla sconosciuta e le risponde a denti stretti “mia figlia non aveva fatto nulla, mia figlia era solo gioia, mia figlia… non esiste… non si può, i bambini non dovrebbero soffrire… io dovevo pensare a lei.”
La donna piange con lei, le si avvicina nuovamente
“scusami, ti prego. Non c’è consolazione, non ci sono parole, ma veramente questa società ci uccide. Tu hai salvato la mia famiglia. Mi sono trasferita dopo poco la tua tragedia. Due giorni prima della terribile notizia, stavo andando al lavoro. Ho inchiodato a meno di un chilometro da scuola di mia figlia, ho dovuto guardare il seggiolino. Non avevo memoria di averla lasciata alla materna, vuoto assoluto. Ero sconvolta, sono tornata indietro a verificare, con il terrore di averla lasciata sola a casa. Ho capito perfettamente le parole della tua avvocatessa, parlava anche per me, anche io mi sentivo indifendibile.”
Con fatica la donna intercetta lo sguardo di Lory, che sembra persa in pensieri lontani. La donna non aveva mai avuto il coraggio di parlarle. Ma ora sente che deve continuare, a costo di farsi odiare.
“Ho mollato il lavoro, sono venuta qui, non ti nego che ho delle difficoltà perché l’improvvisata struttura ricettiva va poco, ma mi sento salva. Ho capito che poteva essere successo a me, che può capitare ad ognuna di noi. Mi dispiace tantissimo.”
Due micetti decisero che era un buon momento per farsi coccolare. Lory affonda le dita nel loro soffice pelo, il rumore delle fusa la conforta. Le lacrime le stanno solcando il viso, togliendo un po’ di peso dal cuore.