[MI 184] Ti aspetto al solito posto
Posted: Tue Oct 15, 2024 11:55 am
Traccia n°3 Non è così che finirà e lo hai sempre saputo
Ottobre 2024
Bina è seduta con il plaid sulle ginocchia, guarda vecchie foto e sussurra: «Era davvero bella, mia madre.»
Novembre 1952
«Marì, fatemi due etti di mortadella. Ah,» sospira l’uomo, «entrare qui mi mette sempre di buon umore. Marì, ve l’ho già detto che il vostro sorriso per me è un raggio di sole?»
«Don Arturo, me lo dite tutti i santi giorni.» L’affettatrice intanto sibila, zing zing, e le fette di mortadella rosa e dal profumo intenso cascano dolcemente sulla carta oleata.
«Siete la mia croce e la mia delizia», riprende scherzosamente don Arturo.
«Don Artù, eccovi la mortadella. Sono cinquanta lire.»
«Fatemi un altro sorriso, così me ne vado più contento.»
«Don Artù, io il sorriso ve lo faccio, ma tutti questi complimenti è meglio che li andiate a fare a vostra moglie.»
«A mia moglie? A quella sono caduti altri tre denti, e chi la può guardare più? Mamma mia, c’è da prendersi uno spavento.» Ridono insieme della battuta.
«Don Artù, ecco la mortadella. Andate e che Dio vi benedica, voi e vostra moglie.»
«A domani, Marì.»
«Troppi salumi vi fanno male, don Artù. Badate a non esagerare.» E lo accompagna alla porta con il suo solito sorriso gentile.
La salumeria è un porto di mare, sulla piazza, dirimpetto alla chiesa, rende oro.
Maria è la migliore bottegaia che un cliente possa desiderare: pesa tutto onestamente, ha il camice bianco sempre pulito, la pazienza dei santi e prezzi buoni.
Entra Rosa: «Marì, il caciocavallo ti è arrivato?»
«No, Rosa, ma se ti fermi dieci minuti magari arriva. Lo aspetto per stamattina, di solito Nunzio lo porta verso quest’ora.»
«Allora aspetto.»
«Come sta tua sorella?»
«E come deve stare? A suo figlio Vincenzo è arrivata la cartolina militare.»
«Oh Gesù, e come faranno ora?»
«Eh, bella domanda. Chi glielo dice a quelli che Vincenzo è l’unico a portare il pane a casa?
«So che se un ragazzo è l’unico sostentamento della famiglia, lo esonerano dal servizio militare.»
«Vero, ma solo se è figlio unico di madre vedova. Carmela il marito ce l’ha, e se quello beve e non è in grado di guadagnarsi da vivere, allo Stato non gliene frega niente. È la legge, e la legge è uguale per tutti.»
«Già, uguale per tutti, peccato però che non tutti siamo uguali. Guarda, c’è Nunzio.»
«Buongiorno, belle signore.»
«Buongiorno, Nunzio, ti aspettavamo» dice Maria.
«E io non vedevo l’ora di arrivare, che qua dentro si trova il paradiso.» E, posata la cassetta con il formaggio sul bancone, allarga le braccia in un gesto di beatitudine.
Servita Rosa, Maria si mette a fare i conti della settimana con Nunzio. Nemmeno lui si risparmia, come don Arturo, in complimenti, ma Maria a quelli risponde con: «I bambini stanno bene?» Un modo per richiamarlo al suo dovere di padre, pur non risparmiando sorrisi clementi, perché lei non mortifica nessuno. Sa come tenere a bada i corteggiatori, senza bisogno di fare la scontrosa.
È bella, se ne compiace anche, ma Turi e sua figlia Bina sono la cosa che ha più cara al mondo.
Uscito Nunzio, Maria si trova in tasca un biglietto con su scritto Ti aspetto al vecchio mulino alle 13,30. So che in questo periodo non torni a casa perché Turi lavora all’oleificio e la bambina pranza dai nonni.
«Oh Gesù, cos’è sto biglietto?» E lo strappa senza nemmeno rileggerlo.
Spera che non presentarsi all’appuntamento sia già una risposta chiara e inequivocabile.
La giornata trascorre con il ritmo di sempre, quel biglietto, però, l’ha messa in ansia. Maria si rimprovera di non aver fatto in tempo a capire se la scrittura era quella di Nunzio oppure di don Arturo; gli unici uomini entrati nella mattinata. Sebbene non conosca la grafia di don Arturo, conosce bene quella di Nunzio.
Di ciò che è accaduto non ne parla con Turi, non vuole dargli pensieri per una cosa da niente. Se la cosa dovesse ripetersi, non si lascerà sfuggire l’occasione per individuare il colpevole di un’avance tanto sfacciata, senza mettere di mezzo gli uomini di famiglia.
La storia del biglietto si ripete per tre giorni di fila con la stessa dicitura. Deve escludere Nunzio, che nei due giorni a seguire non ha consegnato formaggi, ma deve escludere anche don Arturo, perché il terzo giorno, nemmeno lui è entrato in negozio.
Il quarto giorno il biglietto dice qualcosa di diverso Ti aspetto al solito posto come ogni giorno. Non è così che finirà e lo hai sempre saputo.
Maria ha deciso di parlarne la sera stessa con Turi. Qualcuno la sta importunando ed è ora che la smetta. È in ansia, non è facile spiegare certe cose agli uomini, specie al proprio marito. Deve trovare le parole giuste, soprattutto deve fidarsi dell’amore che provano reciprocamente. Gli ostacoli li hanno sempre avuti; Maria si è trovata contro anche la suocera, Troppo bella per essere anche una buona moglie, ha sempre detto al figlio.
È l’ora di chiusura. Maria ha in tasca l’ultimo biglietto, che mostrerà a Turi. Fuori piove a dirotto e in negozio entra il suocero, don Antonio.
Un uomo burbero con il viso sempre avvampato dalla couperose; comanda ancora a bacchetta i suoi tre figli maschi, nonostante siano diventati uomini sotto le bombe. Proprio Turi, finita la guerra, è stato capace di tornare a piedi da Roma a Palermo.
«Marì, visto il tempaccio, Turi mi ha mandato a prenderti.»
Maria ha già sistemato tutto per la chiusura e ha appeso il camice al gancio: «Vado a lavarmi le mani e usciamo.» Pensa al biglietto che ha lasciato nella tasca e che deve recuperare prendendo le chiavi per chiudere il negozio: anche quelle le tiene sempre nella tasca del camice come gli ha insegnato proprio il suocero: “Non le posare mai, tienile sempre addosso.”
Quando si gira per uscire dal bagno, si spaventa. Trova don Antonio a sbarrarle la strada, ha le braccia aperte e le mani appoggiate agli stipiti della porta; gli occhi ridotti a una fessura, le narici allargate, sembra stia per metterle mani addosso.
Le mani, Maria le nota, in una vede le chiavi del negozio, nell’altra il biglietto anonimo.
«Ho preso le chiavi per chiudere e guarda cosa ho trovato!» dice l’uomo. Poi, con malo garbo, l’afferra per un braccio e la trascina via.
Sarà difficile spiegare che lei non c’entra nulla, che non ha fatto niente. Il temporale infuria, e la difesa di Maria è solo un pianto irrefrenabile.
Quando la cacciano da casa, non le fanno nemmeno abbracciare la sua amata bambina, e suo marito non l’accompagna neppure con uno sguardo.
Bina, oggi.
Accarezza la foto: «Avevo vent’anni e un giorno un’amica mi ha chiesto: “Qual è stato il dolore più grande della tua vita?” Non ci avevo mai riflettuto prima, ma mi venne spontaneo rispondere: “La separazione dei miei.”
Era uno di quei periodi in cui una forma subdola di depressione mi afferrava la testa fingendosi emicrania. Episodi cominciati poco dopo lo strappo da mia madre e che negli anni sono diventati ricorrenti. In forma acuta durano giorni, altre volte solo poche ore.
I miei nonni paterni, con i quali sono rimasta a vivere la mia vita da “orfana”, hanno cercato di riparare con le prediche ciò che loro stessi hanno guastato.
Nel tentativo di offrirmi aiuto dall’esterno, trovavano sempre qualcuno che con “i giusti consigli” avrebbe dovuto guarirmi; in realtà faceva le stesse prediche dei nonni senza farmi progredire di un passo.
Oggi che ho ottant'anni e la vita non mi ha risparmiato difficoltà, pur concedendomi qualche gioia, nulla è cambiato.
Da sempre sogno di incontrare mio padre e mia madre oltre quel tunnel che alcuni hanno intravisto prima di risvegliarsi dal coma; immagino di trovarli ad aspettarmi con il sorriso sulle labbra, prendermi per mano e incamminarci insieme per le vie del paradiso. Finalmente liberi dalle maldicenze che hanno perseguitato mia madre, liberi dal potere che mio nonno ha esercitato su mio padre, liberi dalla mentalità ottusa che negli anni ’50 ci ha obbligati a non essere più famiglia.»
Alza gli occhi, guarda la badante; quella sfaccenda e canticchia distratta.
Ottobre 2024
Bina è seduta con il plaid sulle ginocchia, guarda vecchie foto e sussurra: «Era davvero bella, mia madre.»
Novembre 1952
«Marì, fatemi due etti di mortadella. Ah,» sospira l’uomo, «entrare qui mi mette sempre di buon umore. Marì, ve l’ho già detto che il vostro sorriso per me è un raggio di sole?»
«Don Arturo, me lo dite tutti i santi giorni.» L’affettatrice intanto sibila, zing zing, e le fette di mortadella rosa e dal profumo intenso cascano dolcemente sulla carta oleata.
«Siete la mia croce e la mia delizia», riprende scherzosamente don Arturo.
«Don Artù, eccovi la mortadella. Sono cinquanta lire.»
«Fatemi un altro sorriso, così me ne vado più contento.»
«Don Artù, io il sorriso ve lo faccio, ma tutti questi complimenti è meglio che li andiate a fare a vostra moglie.»
«A mia moglie? A quella sono caduti altri tre denti, e chi la può guardare più? Mamma mia, c’è da prendersi uno spavento.» Ridono insieme della battuta.
«Don Artù, ecco la mortadella. Andate e che Dio vi benedica, voi e vostra moglie.»
«A domani, Marì.»
«Troppi salumi vi fanno male, don Artù. Badate a non esagerare.» E lo accompagna alla porta con il suo solito sorriso gentile.
La salumeria è un porto di mare, sulla piazza, dirimpetto alla chiesa, rende oro.
Maria è la migliore bottegaia che un cliente possa desiderare: pesa tutto onestamente, ha il camice bianco sempre pulito, la pazienza dei santi e prezzi buoni.
Entra Rosa: «Marì, il caciocavallo ti è arrivato?»
«No, Rosa, ma se ti fermi dieci minuti magari arriva. Lo aspetto per stamattina, di solito Nunzio lo porta verso quest’ora.»
«Allora aspetto.»
«Come sta tua sorella?»
«E come deve stare? A suo figlio Vincenzo è arrivata la cartolina militare.»
«Oh Gesù, e come faranno ora?»
«Eh, bella domanda. Chi glielo dice a quelli che Vincenzo è l’unico a portare il pane a casa?
«So che se un ragazzo è l’unico sostentamento della famiglia, lo esonerano dal servizio militare.»
«Vero, ma solo se è figlio unico di madre vedova. Carmela il marito ce l’ha, e se quello beve e non è in grado di guadagnarsi da vivere, allo Stato non gliene frega niente. È la legge, e la legge è uguale per tutti.»
«Già, uguale per tutti, peccato però che non tutti siamo uguali. Guarda, c’è Nunzio.»
«Buongiorno, belle signore.»
«Buongiorno, Nunzio, ti aspettavamo» dice Maria.
«E io non vedevo l’ora di arrivare, che qua dentro si trova il paradiso.» E, posata la cassetta con il formaggio sul bancone, allarga le braccia in un gesto di beatitudine.
Servita Rosa, Maria si mette a fare i conti della settimana con Nunzio. Nemmeno lui si risparmia, come don Arturo, in complimenti, ma Maria a quelli risponde con: «I bambini stanno bene?» Un modo per richiamarlo al suo dovere di padre, pur non risparmiando sorrisi clementi, perché lei non mortifica nessuno. Sa come tenere a bada i corteggiatori, senza bisogno di fare la scontrosa.
È bella, se ne compiace anche, ma Turi e sua figlia Bina sono la cosa che ha più cara al mondo.
Uscito Nunzio, Maria si trova in tasca un biglietto con su scritto Ti aspetto al vecchio mulino alle 13,30. So che in questo periodo non torni a casa perché Turi lavora all’oleificio e la bambina pranza dai nonni.
«Oh Gesù, cos’è sto biglietto?» E lo strappa senza nemmeno rileggerlo.
Spera che non presentarsi all’appuntamento sia già una risposta chiara e inequivocabile.
La giornata trascorre con il ritmo di sempre, quel biglietto, però, l’ha messa in ansia. Maria si rimprovera di non aver fatto in tempo a capire se la scrittura era quella di Nunzio oppure di don Arturo; gli unici uomini entrati nella mattinata. Sebbene non conosca la grafia di don Arturo, conosce bene quella di Nunzio.
Di ciò che è accaduto non ne parla con Turi, non vuole dargli pensieri per una cosa da niente. Se la cosa dovesse ripetersi, non si lascerà sfuggire l’occasione per individuare il colpevole di un’avance tanto sfacciata, senza mettere di mezzo gli uomini di famiglia.
La storia del biglietto si ripete per tre giorni di fila con la stessa dicitura. Deve escludere Nunzio, che nei due giorni a seguire non ha consegnato formaggi, ma deve escludere anche don Arturo, perché il terzo giorno, nemmeno lui è entrato in negozio.
Il quarto giorno il biglietto dice qualcosa di diverso Ti aspetto al solito posto come ogni giorno. Non è così che finirà e lo hai sempre saputo.
Maria ha deciso di parlarne la sera stessa con Turi. Qualcuno la sta importunando ed è ora che la smetta. È in ansia, non è facile spiegare certe cose agli uomini, specie al proprio marito. Deve trovare le parole giuste, soprattutto deve fidarsi dell’amore che provano reciprocamente. Gli ostacoli li hanno sempre avuti; Maria si è trovata contro anche la suocera, Troppo bella per essere anche una buona moglie, ha sempre detto al figlio.
È l’ora di chiusura. Maria ha in tasca l’ultimo biglietto, che mostrerà a Turi. Fuori piove a dirotto e in negozio entra il suocero, don Antonio.
Un uomo burbero con il viso sempre avvampato dalla couperose; comanda ancora a bacchetta i suoi tre figli maschi, nonostante siano diventati uomini sotto le bombe. Proprio Turi, finita la guerra, è stato capace di tornare a piedi da Roma a Palermo.
«Marì, visto il tempaccio, Turi mi ha mandato a prenderti.»
Maria ha già sistemato tutto per la chiusura e ha appeso il camice al gancio: «Vado a lavarmi le mani e usciamo.» Pensa al biglietto che ha lasciato nella tasca e che deve recuperare prendendo le chiavi per chiudere il negozio: anche quelle le tiene sempre nella tasca del camice come gli ha insegnato proprio il suocero: “Non le posare mai, tienile sempre addosso.”
Quando si gira per uscire dal bagno, si spaventa. Trova don Antonio a sbarrarle la strada, ha le braccia aperte e le mani appoggiate agli stipiti della porta; gli occhi ridotti a una fessura, le narici allargate, sembra stia per metterle mani addosso.
Le mani, Maria le nota, in una vede le chiavi del negozio, nell’altra il biglietto anonimo.
«Ho preso le chiavi per chiudere e guarda cosa ho trovato!» dice l’uomo. Poi, con malo garbo, l’afferra per un braccio e la trascina via.
Sarà difficile spiegare che lei non c’entra nulla, che non ha fatto niente. Il temporale infuria, e la difesa di Maria è solo un pianto irrefrenabile.
Quando la cacciano da casa, non le fanno nemmeno abbracciare la sua amata bambina, e suo marito non l’accompagna neppure con uno sguardo.
Bina, oggi.
Accarezza la foto: «Avevo vent’anni e un giorno un’amica mi ha chiesto: “Qual è stato il dolore più grande della tua vita?” Non ci avevo mai riflettuto prima, ma mi venne spontaneo rispondere: “La separazione dei miei.”
Era uno di quei periodi in cui una forma subdola di depressione mi afferrava la testa fingendosi emicrania. Episodi cominciati poco dopo lo strappo da mia madre e che negli anni sono diventati ricorrenti. In forma acuta durano giorni, altre volte solo poche ore.
I miei nonni paterni, con i quali sono rimasta a vivere la mia vita da “orfana”, hanno cercato di riparare con le prediche ciò che loro stessi hanno guastato.
Nel tentativo di offrirmi aiuto dall’esterno, trovavano sempre qualcuno che con “i giusti consigli” avrebbe dovuto guarirmi; in realtà faceva le stesse prediche dei nonni senza farmi progredire di un passo.
Oggi che ho ottant'anni e la vita non mi ha risparmiato difficoltà, pur concedendomi qualche gioia, nulla è cambiato.
Da sempre sogno di incontrare mio padre e mia madre oltre quel tunnel che alcuni hanno intravisto prima di risvegliarsi dal coma; immagino di trovarli ad aspettarmi con il sorriso sulle labbra, prendermi per mano e incamminarci insieme per le vie del paradiso. Finalmente liberi dalle maldicenze che hanno perseguitato mia madre, liberi dal potere che mio nonno ha esercitato su mio padre, liberi dalla mentalità ottusa che negli anni ’50 ci ha obbligati a non essere più famiglia.»
Alza gli occhi, guarda la badante; quella sfaccenda e canticchia distratta.