[CE24-2] Giudizi universali - Sofia
Posted: Thu Aug 29, 2024 11:40 pm
Mi faccio carina, una volta lo sono stata. Vestito a fiori, appena una spruzzata di colonia. E poi la tovaglia di Fiandra, piatti e bicchieri belli e candele, candele ovunque. È così che si fa per una cena romantica.
Già le nove e mezza. È tardi, ma non importa: questa è una serata speciale.
Sento le chiavi nella toppa, la porta che si apre, i tuoi passi nel corridoio.
Entri in cucina, respiri fondo: «L’hai fatto di nuovo.» Aggrotti la fronte e scuoti la testa: «Allora dillo che me lo fai apposta.»
Pollo coi peperoni, è ancora a sfrigolare nel forno, ma l’odore riempie la stanza.
L’ho cucinato con lo stesso amore che ci metteva mia madre quando la sera del sabato, dopo che tutti erano andati a dormire, cominciava a spadellare per il pranzo della domenica.
Ma tu, solo a sentirlo, hai già le paturnie. Non è colpa dei peperoni, è del pollo. Lo detesti. Cioè, non il pollo in sé, mangiarlo.
«Se non lo vuoi, c’è altra roba» dico io. «Ho fatto la spesa.»
Sbatti la ventiquattrore sulla sedia e spalanchi il frigo. «No, Sofia, questa non è la spesa. È un insulto alla salute del pianeta.» Chiudi lo sportello, un tonfo e i magnetini della Normandia crollano sul pavimento. Mi chino a raccoglierli, i ricordi non si lasciano per terra. Alzo la testa, ti vedo andare di là, ti sento brontolare: «Non c’è verso, proprio non capisci.» Come a dire: che ci faccio ancora con te?
Serata speciale. E io qui, col vestitino a fiori, i magnetini e il cuore tutti sbreccati, a chiedermi la stessa cosa. E a rispondermi che è perché sono stupida.
Stupido il mio pollo, stupidi i miei peperoni.
Però una volta ti piacevano, me lo ricordo benissimo.
Te li ho cucinati la prima notte che abbiano passato insieme, in quel monolocale del quartiere latino. All’alba, come avrebbe fatto mia madre prima del giorno di festa, io nuda col grembiule e tu che ancora dormivi, bello come un dio.
L’ho fatto anche oggi, che è il nostro anniversario e speravo… che speravo? Non sarà un peperone a risolvere le cose.
Stupida io a pensarlo.
Tu invece non sei stupido. Non lo è il tofu alle olive, né il seitan agli spinaci. E non lo sono nemmeno le variaziani Goldberg, che hai cercato di spiegarmi in tutti i modi. Architettura modulare, dicevi, schemi matematici e simmetrie, capolavoro delle sperimentazioni di Bach.
Facevo finta di ascoltarti, pure se non capivo una parola. Il massimo della musica che riesco a digerire è Samuele Bersani.
A te, fa orrore. A me invece commuove.
Troppo cerebrale per capire che si può star bene senza complicare il pane…
No, non te la ricordi.
Eppure dovresti, perché è la musica che sentivamo allora, quando eravamo i ragazzi che si baciano in piedi, contro le porte della notte.
«Quel coglione di Prevert.» Hai cominciato a dirlo appena hai scoperto Alda Merini e la cura con cui sceglieva le parole da non dire.
Invece a me non è mai piaciuta quella, ma dichiararlo, chissà perché, ti avrebbe offeso. Avresti smesso di parlare e cominciato a fissarmi come si fa con un ragno sul muro. Un ragno stupido.
E anche qui, devo ammetterlo, hai ragione, perché è un’altra delle cose che non ho mai capito.
Non potevo tenermi Prevert e Bersani e tu Bach e la Merini?
Punizioni. Sei capace di non parlarmi per giorni.
Come oggi, che è il terzo. Pure se è il nostro anniversario.
Il tuo sguardo ormai mi passa attraverso, non mi vedi più. Fossi sdraiata per terra mi cammineresti sopra
Troppo cerebrale per capire che si può star bene senza calpestare il cuore
Ci si passa sopra almeno due o tre volte I piedi come sulle aiuole
Credimi, Luigi: vista da fuori non sembra, ma ti assicuro che questa è davvero una serata speciale.
Non vuoi quello che ho cucinato, va bene. Preparo una tisana, la verso nella tua tazza preferita e vengo in salotto.
Sei in piedi davanti alla finestra.
«Hai la faccia stanca, non hai mangiato niente. Bevi almeno questa» dico e la poso sul tavolino, accanto a Infinite Jest di Foster Wallace. Milletrecento pagine e due segnalibri, uno per la trama, l’altro per le note. E io che ho cominciato a leggere Manzini solo perché m’era piaciuta la serie tv. Ti volti, non vuoi dirmi niente, solo farti guardare.
Volto contratto, gli angoli della bocca rivolti in giù e negli occhi un luccichio di lacrime, abbondanti ma non troppo. Giusto quelle che servono per apparire l’icona della delusione.
«È tutto inutile.» Lo dici sottovoce, con un sospiro di riluttanza. «Tu non mi hai mai capito. Pensi solo a quello che piace a te.»
È vero.
Mi piacevi tu. E ho continuato a cercarti fuori e dentro il mio cuore.
Non te o ricordi. Forse non lo hai mai saputo. O magari l’ho soltanto sognato.
Vuoti di memoria, non c'è posto per tenere insieme tutte le puntate di una storia
Piccolissimo particolare, ti ho perduto senza cattiveria
Mangiati le bolle di sapone intorno al mondo e quando dormo taglia bene l'aquilone
Togli la ragione e lasciami sognare, lasciami sognare in pace
Però ne ero certa: da qualche parte doveva essere rimasto quel noi. Se non tutto, almeno un po’.
E allora tiravo la maniglia della porta e uscivo.
Ti sei mai accorto di quante volte è successo?
Ogni volta speravo mi chiedessi: «Sofia, dove vai?»
Non lo hai mai fatto, troppo occupato a indossare facce desolate, esasperate e alla fine sconfitte.
Mi sono sempre domandata chi avesse perso chi.
Andavo fuori, al cinema, che è un fuori in capo al mondo pure se è a trecento metri da casa.
E mi rifugiavo al Gioiello per sognare. Dopotutto ci si va per quello. Anche se non fanno cinema tibetano in lingua originale.
Mi guardi, ma non mi vedi. È tanto che succede. Anche adesso, mentre ti lasci cadere sulla poltrona quasi ti ci avesse spinto tutto il peso del mondo. Ti giri verso il tavolino, prendi la tazza, l’annusi.
«È al biancospino» dico.
Dai una sorsata.
«Com’è?» chiedo.
Alzi le sopracciglia, sospiri: «Non hai scaldato la tazza» e continui a bere desolato.
Ti guardo, ti vedo. E vorrei dirti che detesto il cinema tibetano, pure quello coi sottotitoli, che non faccio mai in tempo a leggere.
Invece ho sempre adorato De Sica.
E potrei raccontarti di quella volta che al Gioiello c’era la rassegna Vittorio per sempre.
Davano Amanti, 1968. Il film non era bello. Mastroianni e la Dunaway sì. Un amore disperato.
Ho pianto come una ragazzina e ho continuato a tirare su col naso anche dopo i titoli di coda.
Avevo bisogno di un fazzoletto, non me li porto mai, specie quando servono.
Ne vedo uno davanti alla faccia, stretto in una mano pallida. Mi giro, dopo la mano c’è un braccio e alla fine del braccio il resto: Marco Pavani, con gli occhi rossi e ancora umidicci di lacrime, proprio come i miei.
«Bello, eh?» mi fa.
«Insomma.»
«Hai ragione, fa cagare. Però De sica…»
«Sì, è sempre De sica.»
«Posso offrirti un caffè?»
Così mi ha detto, proprio all’uscita del cinema. Mi ha offerto un fazzoletto e ha indicato il bar dall’altra parte della strada.
Perché rifiutare? Dopotutto era solo un caffè.
Se te lo dicessi mi spiegheresti che niente è mai solo un caffè. E allora dovrei dirti che non c’è stato niente tra noi. Non perché tu sia geloso, figuriamoci, di me poi, ma per chiarezza.
Abbiamo solo parlato. Quella volta e molte altre. Perché poi c’è stata la rassegna su Mastroianni e non puoi nemmeno immaginare le cose che vengono fuori dopo un film e un caffè.
Marco Pavani, il nome dovrebbe dirti qualcosa. È il tuo caporeparto, nonché delegato sindacale. Quando si dice le coincidenze. Il mondo sembra così grande, invece è solo una rete di condutture dove scorrono le nostre esistenze. Pare che ognuna vada per i fatti suoi, ma prima o poi si incontrano, si mescolano. Acque chiare e acque scure che diventano acqua e basta, senza chiedersi cosa fossero prima. Dovrebbero invece.
Condutture, vasi comunicanti, come quelle delle vasche di decantazione o delle lagune di depurazione, dove si raccolgono i residui dei processi di concia prima di venire ridotti in pani dalle presse. Marco me l’ha spiegato e con parole così semplici che perfino io l’ho capito.
E all’improvviso è stato tutto chiaro.
Il tuo meraviglioso progetto, quello che ti ha tenuto impegnato per mesi, giorno e notte. Specialmente la notte.
Che ha dato un’impennata alla tua carriera e il premio Ingegnere dell’anno, consegnato dalle orgogliose mani dell’Amministratore delegato, dottoressa Valeria Oldoini. Scintillante, radiosa, col suo completo verde savana e lo sguardo da leonessa, ti metteva un braccio attorno alla vita e continuava a dire: «Il mio Luigi.»
Poche volte ti ho visto così felice. E poi che giornate! Radio, televisione, articoli. Tornavi a casa come un Crociato da Gerusalemme. E io ero orgogliosa, non sai quanto. Di te, di me, di noi.
Vorrei dirtele tutte queste cose, solo per rivedere quel sorriso.
E invece: «Vuoi dell’altra tisana?» Non rispondi, allunghi la tazza. Si la vuoi.
Vado in cucina, quando torno stai leggendo Foster Wollace.
Infinite Jest, scherzo infinito. Bel titolo.
Marco ha il cancro.
E no, non è un problema suo. L’ha preso per colpa della concia al cromo, si chiama così, ora lo so, e delle tossine chimiche sfuggite chissà come. Si è ammalato lui e molti altri, ma tanto sono solo operai, che ne capiscono di progetti internazionali?
Adesso stai leggendo e non è il caso di dirti cosa fanno le tossine chimiche, tanto lo sai. Certo che lo sai, perché da qualche parte, in ufficio, ci saranno sicuramente interi faldoni di esposti, denunce, perizie. O forse no. Forse la Oldoini ha voluto diversamente: «Facciamo pulizia. A che servono tutte queste cartacce?» E poi magari avrà riunito il consiglio di fabbrica per dire come stavano le cose. Pulizia e verità.
«Mi dispiace immensamente per le famiglie» avrà detto «Ma se qualcuno si ammala, non si può addossare questa responsabilità a un’azienda come la nostra, che ha sempre posto estrema attenzione alla salute e all’ambiente.» Carismatica, seducente. Copia anastatica della Sigourney Weaver di Una donna In carriera. Come resisterle?
Sì, adesso è tutto chiaro. Una volta ti piaceva la carne, pollo, vitello, manzo, divoravi una fiorentina in meno di dieci minuti. «Al sangue, mi raccomando» dicevi al cameriere. Poi basta. All’improvviso, germogli di soia, tofu e la faccia schifata contro per la mia cotoletta. Salute e ambiente. La Oldoini deve avertelo spiegato molto bene durante una di quelle notti laboriose. Questione di coerenza.
E anche don Paolo, pardòn, ormai Monsignor Guarini, deve averci messo del suo. Messo e preso immagino, se non altro per motivare quel messale in pelle tempestato di rubini. Ho riconosciuto il logo dell’azienda. Che pensiero gentile.
Don Paolo, oratorio, catechismo, Adesso puoi baciare la sposa, quello che conta è l’amore. E i pacchetti azionari, che una guida spirituale si manifesta in tanti modi. Come la gratitudine.
Come il pacco di Natale per i dipendenti, che siamo tutti una grande famiglia. Spumante, panettone e cancro.
Cancro, Luigi, come quello di Marco, che non ha mai mangiato il mio pollo con i peperoni perché è vegetariano. Proprio come te. Perché lui ci tiene alla salute del pianeta, proprio come te.
Potrei ma non voglio fidarmi di te
Io non ti conosco e in fondo non c'è
In quello che dici qualcosa che pensi
Sei solo la copia di mille riassunti
Ti guardo. Sei un bell’uomo anche con gli occhi sgranati e il colorito cianotico. Anche con gli spasmi dell’agonia.
È colpa della tisana. Cioè, di quello che ci ho messo dentro.
Non è stato facile procurarmi qualcosa di inodore e insapore, ma alla fine l’ho trovata.
È roba per i topi, povere bestie, nessuno li ama e tutti vogliono liberarsene.
Apri a chiudi la bocca, allunghi le braccia, cerchi di afferrarmi. Adesso mi vedi.
Cerchi di parlare, ma esce solo un rantolo.
So cosa vuoi chiedermi. Sembra una domanda facile, ma i perché non lo sono mai.
Come l’amicizia, che sembra così spontanea, naturale. Si prende e si dà affetto in un flusso continuo, tale e quale a quello che scorre nelle condutture.
Marco è mio amico e gli resta poco da vivere.
Ormai non posso fare molto per lui.
Forse solo una cosa. Per lui, ma anche per me e pure per qualcun altro. Una sola.
Fermarti, per esempio.
Poi, magari faccio pure una visitina alla Oldoini.
Leggera, leggera si bagna la fiamma
Rimane la cera e non ci sei più.
Già le nove e mezza. È tardi, ma non importa: questa è una serata speciale.
Sento le chiavi nella toppa, la porta che si apre, i tuoi passi nel corridoio.
Entri in cucina, respiri fondo: «L’hai fatto di nuovo.» Aggrotti la fronte e scuoti la testa: «Allora dillo che me lo fai apposta.»
Pollo coi peperoni, è ancora a sfrigolare nel forno, ma l’odore riempie la stanza.
L’ho cucinato con lo stesso amore che ci metteva mia madre quando la sera del sabato, dopo che tutti erano andati a dormire, cominciava a spadellare per il pranzo della domenica.
Ma tu, solo a sentirlo, hai già le paturnie. Non è colpa dei peperoni, è del pollo. Lo detesti. Cioè, non il pollo in sé, mangiarlo.
«Se non lo vuoi, c’è altra roba» dico io. «Ho fatto la spesa.»
Sbatti la ventiquattrore sulla sedia e spalanchi il frigo. «No, Sofia, questa non è la spesa. È un insulto alla salute del pianeta.» Chiudi lo sportello, un tonfo e i magnetini della Normandia crollano sul pavimento. Mi chino a raccoglierli, i ricordi non si lasciano per terra. Alzo la testa, ti vedo andare di là, ti sento brontolare: «Non c’è verso, proprio non capisci.» Come a dire: che ci faccio ancora con te?
Serata speciale. E io qui, col vestitino a fiori, i magnetini e il cuore tutti sbreccati, a chiedermi la stessa cosa. E a rispondermi che è perché sono stupida.
Stupido il mio pollo, stupidi i miei peperoni.
Però una volta ti piacevano, me lo ricordo benissimo.
Te li ho cucinati la prima notte che abbiano passato insieme, in quel monolocale del quartiere latino. All’alba, come avrebbe fatto mia madre prima del giorno di festa, io nuda col grembiule e tu che ancora dormivi, bello come un dio.
L’ho fatto anche oggi, che è il nostro anniversario e speravo… che speravo? Non sarà un peperone a risolvere le cose.
Stupida io a pensarlo.
Tu invece non sei stupido. Non lo è il tofu alle olive, né il seitan agli spinaci. E non lo sono nemmeno le variaziani Goldberg, che hai cercato di spiegarmi in tutti i modi. Architettura modulare, dicevi, schemi matematici e simmetrie, capolavoro delle sperimentazioni di Bach.
Facevo finta di ascoltarti, pure se non capivo una parola. Il massimo della musica che riesco a digerire è Samuele Bersani.
A te, fa orrore. A me invece commuove.
Troppo cerebrale per capire che si può star bene senza complicare il pane…
No, non te la ricordi.
Eppure dovresti, perché è la musica che sentivamo allora, quando eravamo i ragazzi che si baciano in piedi, contro le porte della notte.
«Quel coglione di Prevert.» Hai cominciato a dirlo appena hai scoperto Alda Merini e la cura con cui sceglieva le parole da non dire.
Invece a me non è mai piaciuta quella, ma dichiararlo, chissà perché, ti avrebbe offeso. Avresti smesso di parlare e cominciato a fissarmi come si fa con un ragno sul muro. Un ragno stupido.
E anche qui, devo ammetterlo, hai ragione, perché è un’altra delle cose che non ho mai capito.
Non potevo tenermi Prevert e Bersani e tu Bach e la Merini?
Punizioni. Sei capace di non parlarmi per giorni.
Come oggi, che è il terzo. Pure se è il nostro anniversario.
Il tuo sguardo ormai mi passa attraverso, non mi vedi più. Fossi sdraiata per terra mi cammineresti sopra
Troppo cerebrale per capire che si può star bene senza calpestare il cuore
Ci si passa sopra almeno due o tre volte I piedi come sulle aiuole
Credimi, Luigi: vista da fuori non sembra, ma ti assicuro che questa è davvero una serata speciale.
Non vuoi quello che ho cucinato, va bene. Preparo una tisana, la verso nella tua tazza preferita e vengo in salotto.
Sei in piedi davanti alla finestra.
«Hai la faccia stanca, non hai mangiato niente. Bevi almeno questa» dico e la poso sul tavolino, accanto a Infinite Jest di Foster Wallace. Milletrecento pagine e due segnalibri, uno per la trama, l’altro per le note. E io che ho cominciato a leggere Manzini solo perché m’era piaciuta la serie tv. Ti volti, non vuoi dirmi niente, solo farti guardare.
Volto contratto, gli angoli della bocca rivolti in giù e negli occhi un luccichio di lacrime, abbondanti ma non troppo. Giusto quelle che servono per apparire l’icona della delusione.
«È tutto inutile.» Lo dici sottovoce, con un sospiro di riluttanza. «Tu non mi hai mai capito. Pensi solo a quello che piace a te.»
È vero.
Mi piacevi tu. E ho continuato a cercarti fuori e dentro il mio cuore.
Non te o ricordi. Forse non lo hai mai saputo. O magari l’ho soltanto sognato.
Vuoti di memoria, non c'è posto per tenere insieme tutte le puntate di una storia
Piccolissimo particolare, ti ho perduto senza cattiveria
Mangiati le bolle di sapone intorno al mondo e quando dormo taglia bene l'aquilone
Togli la ragione e lasciami sognare, lasciami sognare in pace
Però ne ero certa: da qualche parte doveva essere rimasto quel noi. Se non tutto, almeno un po’.
E allora tiravo la maniglia della porta e uscivo.
Ti sei mai accorto di quante volte è successo?
Ogni volta speravo mi chiedessi: «Sofia, dove vai?»
Non lo hai mai fatto, troppo occupato a indossare facce desolate, esasperate e alla fine sconfitte.
Mi sono sempre domandata chi avesse perso chi.
Andavo fuori, al cinema, che è un fuori in capo al mondo pure se è a trecento metri da casa.
E mi rifugiavo al Gioiello per sognare. Dopotutto ci si va per quello. Anche se non fanno cinema tibetano in lingua originale.
Mi guardi, ma non mi vedi. È tanto che succede. Anche adesso, mentre ti lasci cadere sulla poltrona quasi ti ci avesse spinto tutto il peso del mondo. Ti giri verso il tavolino, prendi la tazza, l’annusi.
«È al biancospino» dico.
Dai una sorsata.
«Com’è?» chiedo.
Alzi le sopracciglia, sospiri: «Non hai scaldato la tazza» e continui a bere desolato.
Ti guardo, ti vedo. E vorrei dirti che detesto il cinema tibetano, pure quello coi sottotitoli, che non faccio mai in tempo a leggere.
Invece ho sempre adorato De Sica.
E potrei raccontarti di quella volta che al Gioiello c’era la rassegna Vittorio per sempre.
Davano Amanti, 1968. Il film non era bello. Mastroianni e la Dunaway sì. Un amore disperato.
Ho pianto come una ragazzina e ho continuato a tirare su col naso anche dopo i titoli di coda.
Avevo bisogno di un fazzoletto, non me li porto mai, specie quando servono.
Ne vedo uno davanti alla faccia, stretto in una mano pallida. Mi giro, dopo la mano c’è un braccio e alla fine del braccio il resto: Marco Pavani, con gli occhi rossi e ancora umidicci di lacrime, proprio come i miei.
«Bello, eh?» mi fa.
«Insomma.»
«Hai ragione, fa cagare. Però De sica…»
«Sì, è sempre De sica.»
«Posso offrirti un caffè?»
Così mi ha detto, proprio all’uscita del cinema. Mi ha offerto un fazzoletto e ha indicato il bar dall’altra parte della strada.
Perché rifiutare? Dopotutto era solo un caffè.
Se te lo dicessi mi spiegheresti che niente è mai solo un caffè. E allora dovrei dirti che non c’è stato niente tra noi. Non perché tu sia geloso, figuriamoci, di me poi, ma per chiarezza.
Abbiamo solo parlato. Quella volta e molte altre. Perché poi c’è stata la rassegna su Mastroianni e non puoi nemmeno immaginare le cose che vengono fuori dopo un film e un caffè.
Marco Pavani, il nome dovrebbe dirti qualcosa. È il tuo caporeparto, nonché delegato sindacale. Quando si dice le coincidenze. Il mondo sembra così grande, invece è solo una rete di condutture dove scorrono le nostre esistenze. Pare che ognuna vada per i fatti suoi, ma prima o poi si incontrano, si mescolano. Acque chiare e acque scure che diventano acqua e basta, senza chiedersi cosa fossero prima. Dovrebbero invece.
Condutture, vasi comunicanti, come quelle delle vasche di decantazione o delle lagune di depurazione, dove si raccolgono i residui dei processi di concia prima di venire ridotti in pani dalle presse. Marco me l’ha spiegato e con parole così semplici che perfino io l’ho capito.
E all’improvviso è stato tutto chiaro.
Il tuo meraviglioso progetto, quello che ti ha tenuto impegnato per mesi, giorno e notte. Specialmente la notte.
Che ha dato un’impennata alla tua carriera e il premio Ingegnere dell’anno, consegnato dalle orgogliose mani dell’Amministratore delegato, dottoressa Valeria Oldoini. Scintillante, radiosa, col suo completo verde savana e lo sguardo da leonessa, ti metteva un braccio attorno alla vita e continuava a dire: «Il mio Luigi.»
Poche volte ti ho visto così felice. E poi che giornate! Radio, televisione, articoli. Tornavi a casa come un Crociato da Gerusalemme. E io ero orgogliosa, non sai quanto. Di te, di me, di noi.
Vorrei dirtele tutte queste cose, solo per rivedere quel sorriso.
E invece: «Vuoi dell’altra tisana?» Non rispondi, allunghi la tazza. Si la vuoi.
Vado in cucina, quando torno stai leggendo Foster Wollace.
Infinite Jest, scherzo infinito. Bel titolo.
Marco ha il cancro.
E no, non è un problema suo. L’ha preso per colpa della concia al cromo, si chiama così, ora lo so, e delle tossine chimiche sfuggite chissà come. Si è ammalato lui e molti altri, ma tanto sono solo operai, che ne capiscono di progetti internazionali?
Adesso stai leggendo e non è il caso di dirti cosa fanno le tossine chimiche, tanto lo sai. Certo che lo sai, perché da qualche parte, in ufficio, ci saranno sicuramente interi faldoni di esposti, denunce, perizie. O forse no. Forse la Oldoini ha voluto diversamente: «Facciamo pulizia. A che servono tutte queste cartacce?» E poi magari avrà riunito il consiglio di fabbrica per dire come stavano le cose. Pulizia e verità.
«Mi dispiace immensamente per le famiglie» avrà detto «Ma se qualcuno si ammala, non si può addossare questa responsabilità a un’azienda come la nostra, che ha sempre posto estrema attenzione alla salute e all’ambiente.» Carismatica, seducente. Copia anastatica della Sigourney Weaver di Una donna In carriera. Come resisterle?
Sì, adesso è tutto chiaro. Una volta ti piaceva la carne, pollo, vitello, manzo, divoravi una fiorentina in meno di dieci minuti. «Al sangue, mi raccomando» dicevi al cameriere. Poi basta. All’improvviso, germogli di soia, tofu e la faccia schifata contro per la mia cotoletta. Salute e ambiente. La Oldoini deve avertelo spiegato molto bene durante una di quelle notti laboriose. Questione di coerenza.
E anche don Paolo, pardòn, ormai Monsignor Guarini, deve averci messo del suo. Messo e preso immagino, se non altro per motivare quel messale in pelle tempestato di rubini. Ho riconosciuto il logo dell’azienda. Che pensiero gentile.
Don Paolo, oratorio, catechismo, Adesso puoi baciare la sposa, quello che conta è l’amore. E i pacchetti azionari, che una guida spirituale si manifesta in tanti modi. Come la gratitudine.
Come il pacco di Natale per i dipendenti, che siamo tutti una grande famiglia. Spumante, panettone e cancro.
Cancro, Luigi, come quello di Marco, che non ha mai mangiato il mio pollo con i peperoni perché è vegetariano. Proprio come te. Perché lui ci tiene alla salute del pianeta, proprio come te.
Potrei ma non voglio fidarmi di te
Io non ti conosco e in fondo non c'è
In quello che dici qualcosa che pensi
Sei solo la copia di mille riassunti
Ti guardo. Sei un bell’uomo anche con gli occhi sgranati e il colorito cianotico. Anche con gli spasmi dell’agonia.
È colpa della tisana. Cioè, di quello che ci ho messo dentro.
Non è stato facile procurarmi qualcosa di inodore e insapore, ma alla fine l’ho trovata.
È roba per i topi, povere bestie, nessuno li ama e tutti vogliono liberarsene.
Apri a chiudi la bocca, allunghi le braccia, cerchi di afferrarmi. Adesso mi vedi.
Cerchi di parlare, ma esce solo un rantolo.
So cosa vuoi chiedermi. Sembra una domanda facile, ma i perché non lo sono mai.
Come l’amicizia, che sembra così spontanea, naturale. Si prende e si dà affetto in un flusso continuo, tale e quale a quello che scorre nelle condutture.
Marco è mio amico e gli resta poco da vivere.
Ormai non posso fare molto per lui.
Forse solo una cosa. Per lui, ma anche per me e pure per qualcun altro. Una sola.
Fermarti, per esempio.
Poi, magari faccio pure una visitina alla Oldoini.
Leggera, leggera si bagna la fiamma
Rimane la cera e non ci sei più.