[CE24] Maleficio
Posted: Tue Aug 06, 2024 12:18 pm
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Traccia n3 - La sorella scomparsa
Domenica di luglio, s’è appena fatto giorno e fa già un caldo porco. Non che altre estati si sudasse meno, ma questa è diversa, ha qualcosa di malato, di estremo e senza ritorno.
Eppure, a guardarla, è un’alba come tante. Oro rosato nei vicoli finalmente quieti, ombrelloni addormentati, qualcuno che corre sul bagnasciuga col cane dietro, e voli di gabbiani a ricamare il cielo.
«Moriremo tutti» biascica Apocalisse, che una volta era stato Aldo e lavorava al porto.
«Ci puoi scommettere le chiappe, bellezza.» Saggezza di netturbino, scopa e ramazza, nessuno immagina quello che resta per terra la mattina dopo. Dopo una notte che ti ha divorato l’anima. L’ha sbattuta contro uno scoglio e poi nella sabbia e con mani frenetiche l’ha tenuta inchiodata, gambe e braccia spalancate mentre ti ci tuffavi dentro senza fiato.
Notte d’estate. Sesso e mojito, che ti racconti la balla di quanto rinfresca, lo butti giù come acqua e poi gli dai la colpa d’averti trascinato all’inferno e fatto credere che invece fosse il paradiso.
Strade deserte. È ancora presto per qualsiasi cosa. E tardi nello stesso tempo.
All’improvviso un urlo rauco, poi un altro. Anche ai cani girano le palle il mattino dopo.
Ma non è un cane.
Faccia livida, occhi sgranati, barcolla seminuda dalla salitella dei Bagni Miramare. Ci fosse grigio e nebbia, sarebbe la prima puntata di Twin Peaks. Invece è Tor San Lorenzo, agghindata per la villeggiatura e la puttanella deve averci dato dentro tutta notte. Quindi chi se ne frega.
Gaetano Passalacqua si sporge dalla farmacia. H 24, d’estate ci vuole. C’è sempre qualcuno col mal di denti, di testa, di culo, non importa di che, sono comunque bei soldi. È dura, ma tra dieci minuti arriva il cambio. Di solito è puntuale.
La ragazza quasi gli cade addosso.
Fa appena in tempo ad afferrarla prima che sbatta la testa allo stipite.
Lo fissa con occhi vuoti, apre e chiude la bocca, ma non esce suono. Lui fa per prenderla in braccio, lei lo scansa con una gomitata, si appoggia al muro, entra e si accascia sul pavimento.
Il cellulare. Gaetano fruga nella tasca del camice, lo trova, chiama il 118.
Un grido alle sue spalle: «Elena!» È il commissario Nardelli. Corre dentro, si accuccia, cerca di sollevarle il mento. Lei si divincola, mugola, geme e fissa il vuoto.
Gaetano alza le mani: «Non gli ho dato niente. È arrivata così.»
«Arrivata da dove?»
«Non lo so, dalla spiaggia penso.»
«Hai chiamato l’ambulanza?»
«Sì, stanno arrivando.»
«Hai avvisato i suoi?»
L’altro si stringe nelle spalle: «E chi devo chiamare, scusa?»
«Non fare lo stronzo, lo sai benissimo chi è.»
«E allora chiamali tu. Il sindaco è amico tuo, no?»
Nardelli lo guarda con la faccia che dice: un’altra cazzata e di ambulanze ne serviranno due. Ma quello non ci fa caso, i farmacisti sono gente impavida.
E infatti: «Che le hanno fatto? Non si fa toccare.»
«Si vede che ne ha avuto abbastanza.»
«Vuoi dire che…»
«Che quando te lo ficcano dentro a forza non hai tanta voglia di farti mettere ancora le mani addosso, tu che dici?»
Non dice, guarda la ragazza, i lividi sparsi, l’occhio pesto e il labbro rotto. «L’hanno pure picchiata.»
«Sì, in genere non chiedono permesso.»
L’altro annuisce assorto, dà un’occhiata fuori dove tutto tace e poi si sente in dovere di fare conversazione. Roba tipo ma chi può essere stato, qui ci sono solo famiglie e gente per bene.
Certo, come no. Arriva quest’ambulanza?
H 6.30.
Giancarlo Casagrande e la moglie Marina, detta Mimma, seduti nella sala d’attesa del Pronto Soccorso, fissano la porta a vetri e quando si apre scattano in piedi.
Il dottore si ferma un momento sulla soglia in cerca del sorriso giusto e poi: «Tranquilli» dice rassicurante. «Non c’è stata alcuna violenza. La ragazza è ancora vergine.»
«Sia ringraziato il cielo» fa il padre. La questione ha notoriamente una sua priorità.
«Sì, ma…» balbetta Mimma.
«Ecco, è sul ma che dovete mantenervi tranquilli» continua il dottore.
«In che senso?» fa Casagrande.
«Elena è stabile, ma in evidente stato di shock.»
«Shock! Ma perché, che è successo?» piagnucola Mimma. «Non è che ha preso…»
«Sì, ha preso. Il tossicologico ce lo ha confermato.»
Ed è allora che Giancarlo Casagrande, stimato avvocato, nonché sindaco di Tor San Lorenzo, molla un cazzotto al muro, così forte che il distributore di bibite traballa e il poster della campagna Avis crolla a terra. Rumore di vetri rotti. Mimma gli afferra la mano: «Ti sei ferito!»
Lui si libera con uno spintone: «Drogata! Mia figlia è una drogata!» urla paonazzo.
«Non saltiamo alle conclusioni» fa il dottore. «Potrebbe essere un episodio sporadico. I ragazzi lo fanno, magari solo per provare e non è detto che…»
«Non è detto un cazzo!» inveisce l’altro.
«Calmati, ti prego!» guaisce Mimma.
«Chi gliel’ha data, chi?»
Passi nel corridoio. Giancarlo si volta di scatto, vede Nardelli e gli punta un dito contro: «Tu! Tu me lo devi trovare! Me lo devi portare legato e imbavagliato così quando gli sfondo la testa a calci non fa rumore!»
«Certo. Ma adesso calmiamoci.» E quello si placa, che detto da Mimma non conta, ma da Nardelli, sì. «Adesso ce ne andiamo al bar» dice mettendogli una mano sulla spalla, «facciamo colazione e mi raccontate tutto.»
Ed è con cappuccini e cornetti che il commissario Ermete Nardelli viene informato di quello che già sa. Perché Giancarlo Casagrande non è una conoscenza recente.
Compagni di banco, compagni di naja, di pesca, testimoni alle nozze uno dell’altro. Amici, insomma. Di quelli che ti fideresti a mettergli in mano la vita. Di quelli che ti parano il culo se ti cacci nei guai e tu lo stesso. Amici.
«Erano in punizione» dice cupo Giancarlo.
«Tutte e due?» fa Nardelli.
«Sì, perché se un padre dice che alla festa non ci vai. Tu non ci vai.»
«Ma era il compleanno di Giada!» piagnucola Mimma.
«Troia la madre, troia la figlia» dice Giancarlo col tono di chi ha una certa esperienza dell’argomento.
«Le ha chiuse in camera, ma ti rendi conto?» fa Mimma a Nardelli. E poi al marito: «Non sono più bambine, non ti puoi lamentare se poi…»
«Si sono calate dalla finestra, capisci?» dice Giancarlo a Nardelli. «Questo è il rispetto che si merita un padre? No, dico, è questo?» tuona e sbatte il pugno sul tavolo. Silenzio di gelo. È un bar, ma pur sempre di un ospedale. Però quello è il sindaco, quindi.
«Tu parli di rispetto» fa Mimma con la voce rotta, «ma intanto Elena è in quel letto ridotta come…» e non finisce la frase perché il pianto la scuote.
«Tu portami quell’animale che le ha dato la roba» fa Giancarlo a Nardelli. «Al resto penso io.»
«Va bene, però prima voglio capire cosa è successo. Devo parlare con Linda.»
«E non lo puoi fare.»
«Perché?»
«Perché non è tornata a casa!» ulula Mimma tra i singhiozzi.
Di bene in meglio. Due casini al prezzo di uno. Buona domenica.
«Hai capito, sbirro?» Quando Giancarlo lo chiama così a Nardelli montano le paturnie, ma stavolta passa, che non è giornata. «Me li devi trovare tutti e due. Lo stronzo e Linda.»
«Prima Linda, però!» mugola Mimma.
«Tutti e due!» ruggisce Casagrande.
«Certo. Però una cosa devo dirtela: Elena e Linda si sono allontanate volontariamente. Sono maggiorenni e possono farlo.»
«Ma che cazzo dici?»
«Sì, Giancarlo, fattene una ragione. A diciotto anni sei maggiorenne. Se qualcuno ti chiude in una stanza è sequestro di persona e se vuoi uscire di casa, sia pure calandoti da una finestra, hai tutto il diritto di farlo.»
Mimma Casagrande guarda il marito preoccupata. Sempre paonazzo, una vena gli pulsa alla tempia e le coronarie, meglio sorvolare, grazie a Dio siamo già in ospedale.
«Sei avvocato» continua Nardelli, «queste cose dovresti saperle.»
«Io so solo che avevo… ho due figlie» fa l’altro e la voce si incrina. «Una è in stato catatonico e l’altra…» Prende fiato, cerca di frenare il tremito del mento. Un uomo non piange davanti a tutti, figurarsi un sindaco.
«Andrà tutto bene» dice Nardelli. «Dovete solo aspettare. Elena si riprenderà in fretta perché sarà pure stronza, ma è giovane e forte. E Linda, beh Linda si farà viva prima che abbiate smaltito la rabbia.» Mente, lo sanno tutti e due, ma sono le cose da dire.
H 8.30.
In commissariato, l’ispettore Carsoli bussa e mette dentro la testa: «Posso?»
«Ah, sei già qui? Bravo» fa Nardelli. «Sei riuscito a sentire i ragazzini?»
«Sì. Li ho beccati tutti al solito baretto sulla statale, non le dico in che condizioni. C’era uno che continuava a bere e vomitare, ma dico io…»
«Arriva al dunque.»
«Il dunque è che ad un certo punto le ragazze si sono allontanate per fare pipì dietro le dune.»
«Tutto qui?»
Carsoli si stringe nelle spalle: «Eh sì. Non hanno saputo dirmi altro. Talmente sfondati che non si sono nemmeno accorti che non erano più tornate.»
«È un po’ poco.»
«Però…»
«Ah, c’è un però.»
«Per quello che vale. Una di loro, tal Caterina Pettinelli, aveva finito prima delle altre e aveva fretta di tornare alla festa. Ma mentre si allontanava, ha sentito dei rumori, come di qualcosa o qualcuno nascosto a spiare tra gli arbusti.»
«Ha visto chi era?»
«Troppo buio.» Tira fuori un taccuino, scartabella, trova. «Però l’odore non me lo scordo. Era un tanfo da vomitare, come di carogna. Lo so perché una volta abbiamo trovato un gatto morto nel cassonetto e puzzava allo stesso modo. Così ha detto.»
«Beh, è già qualcosa.»
«Se si accontenta. Le ricordo comunque che era ubriaca fradicia, non so quanto sia affidabile.»
Carsoli rimette il taccuino in tasca e resta impalato a fissare il commissario.
«C’è altro?» gli fa quello.
«Il caso Petrella.»
«Che c’entra adesso?» C’entra eccome e Nardelli lo sa benissimo.
«Ci somiglia.»
Quindici anni prima, la figlia dell’ingegner Petrella sparì durante una festa sulla spiaggia. Si disse fuggita in sud America con un uomo sposato. C’è sempre un Sud America quando vuoi far perdere le tracce.
Se ne parlò per qualche tempo, a mezza bocca, poi sempre meno. Anche perché i Petrella si trasferirono al Nord. Forse Milano, forse Trieste, non se ne seppe più nulla.
Il notaio Gambino li cercò invano, se non altro per capire cosa fare della villetta bianca, aggrappata al terrapieno bordo mare, con una parete tutta di maiolica e la rosa dei venti dipinta. Niente. La casa restò così, con le persiane mangiate dalla salsedine, ogni anno sempre più sbilenche. E il Sud America restò dov’era.
«No, non ci somiglia per niente.»
«Se lo dice lei…»
Rimasto solo, Nardelli guarda l’orologio a muro. Troppo presto per cominciare a bere altro che non sia caffè. Ma quello non tiene al riparo dai pensieri. Al contrario.
Il caso Petrella. Carsoli non è scemo. Avrà sicuramente recuperato il fascicolo e se lo sarà letto con l’acquolina in bocca.
Ingegner Francesco Petrella. Ciccio. Quinta B, banco dietro a quello suo e di Giancarlo. Nei paesi ci si conosce tutti. Si diventa amici di tutti. Si cresce insieme e insieme si fanno cazzate che poi si cerca di dimenticare. A volte ci si riesce. Altre no.
Stavolta no. Perché Titti era bellissima e le piaceva bere. Soprattutto alle feste. Soprattutto quel luglio maledetto.
"Ma è la figlia di Ciccio!"
"E allora? Che vuoi che siano vent’anni di differenza?"
Quando si scopa da ubriachi si è tutti ragazzi. E a quello che succede dopo, ci si pensa dopo.
Nardelli guarda ancora l’orologio e decide di affogare i pensieri nelle scartoffie. Che non mancano mai, né gli uni, né le altre.
Scartoffie, meglio del Roipnol. Quando riapre gli occhi è quasi buio, che d’estate significa almeno le nove e mezza. Perfetto.
Perfetto un cazzo. Lo sente, è nell’aria, tanfo di morte, da la resa dei conti. Quelli che prima o poi tornano a battere cassa.
E allora, se l’Inferno sta per inghiottirti, che almeno sia per un buon motivo.
Il whisky di Nina lo è.
«Dammene un altro.»
«È il quarto.»
«È pure una giornata di merda.»
Nina, che s’era fatta otto anni per una sforbiciata alla gola del marito violento e adesso riga dritto al bancone del MaxyBar. Proprio vero: tocchi il fondo, dai una spinta e risali. Ma bisogna avere le palle. Rinunciare a tenerti a galla e lasciarti risucchiare dalla merda. Là, dove i debiti si pagano. Funziona così. Qui come in tutti posti del mondo, pure se la gente non vuole pensarci. Almeno per quei dieci, quindici giorni di ombrelloni, gelato e passeggiate lungomare. La sera, passi lenti e golfino, chiacchiere inutili, però tanto carine, finché non ti accorgi che stai passando proprio davanti a quella villetta abbandonata, coi resti di una scritta appena sotto al campanello: Petrella. La storia brutta che tutti si raccontano sottovoce, orripilati e golosi. Di quelle coi fantasmi che baluginano per un attimo da una persiana sconnessa, ma solo nelle notti di plenilunio.
Ci sono sempre storie di fantasmi nei posti d’estate.
«Che faccio, ti lascio la bottiglia?» dice Nina.
Lui dà un’occhiata e annuisce, tanto è praticamente vuota.
Nardelli beve. Un commissario non dovrebbe, non siamo mica in un film americano. Ma chi se ne frega. Beve finché le facce di Giancarlo e Mimma, cominciano ad appannarsi e poi a dissolversi nella nebbia. La stessa dove galleggia il letto di Elena, che non si sveglierà più. La stessa che copre la duna dov’è nascosta Linda col suo bel vestito, rosso per sempre.
Vuota il bicchiere e cerca di smontare dal trespolo.
«Già te ne vai?» gli fa Nina.
«Eh sì. Ho molto da fare» biascica lui. Barcolla, urta un tavolo ed esce.
Pochi passi e si accorge che deve pisciare. Ora, subito. Si guarda intorno. Nessuno. Tira giù la lampo, si appoggia al muro. Sospira di sollievo.
«Avresti dovuto fermarti.» Una voce alle spalle, un brivido, una stretta al petto.
Tanfo da vomitare, come di carogna. Nardelli si gira e la vede.
Vecchissima e ossuta, occhi di ghiaccio e il corpo avvolto in un tabarro di canapa color disperazione. «I debiti si pagano» sussurra e allunga una mano che pare un artiglio.
Lui la spintona via e comincia a correre, si impiglia a qualcosa, strappa, corre, cade. Urla.
Da terra, vede le fronde di una quercia incombere. All’improvviso un fremito, come di un cuore gigantesco e subito uno stormo di uccelli che abbandonano tutti insieme i rami, mentre l’albero resta lì, senza foglie, con le sue braccia rinsecchite che implorano perdono al cielo.
H 8.30.
La testa in fiamme e nessuna idea di come sia finito nel suo letto. Doccia veloce, vestiti puliti e caffè. Avercelo. Pazienza, lo prenderà in commissariato.
Carsoli lo accoglie con un sorriso radioso e lo scorta fino al suo ufficio.
«Hanno ritrovato un corpo tra le dune» dice come avesse vinto alla lotteria.
Ancora quel brivido, ancora quella stretta al petto. «Quando?»
«Stamattina all’alba.»
«E perché lo so soltanto adesso?»
«Perché l’ho chiamata, ma non mi ha mai risposto.»
Nardelli guarda il cellulare: otto chiamate perse. Il whisky di Nina.
«Così siamo andati io e Guareschi» dice l’altro. «Se vuole ce l’accompagno. Sul luogo, intendo. Dovrebbe esserci ancora la Scientifica. Il corpo invece è già dal medico legale. Che preferisce, lì o là?»
Che preferisce? Due cose soltanto: che si dia una calmata e mezzo litro di caffè ristretto.
Appena lo sente entrare, il medico alza la testa: «Mi dispiace.»
«Anche a me.» Il corpo di Linda su quel tavolo è l’ultima cosa che avrebbe voluto vedere. E allora gli esce la domanda più cretina, raschiata dal fondo delle speranze inutili: «Sei sicuro?»
Si aspetta un vaffanculo. I medici legali lo fanno quando li metti in dubbio.
Invece quello caccia fuori un sospiro, raggiunge la scrivania e smanetta al pc. «Questo è il referto del DNA.»
«Sono stati veloci» fa Nardelli e intanto fissa il monitor dove lampeggia Compatibile al 99%.
«Quindi è lei» dice con un filo di voce.
«No.»
«Come sarebbe a dire?»
«Non può essere lei. Anche senza il referto, è evidente che il corpo risale a minimo a 15 anni fa. Linda è scomparsa da due giorni.»
«Aspetta un momento…»
«E c’è di più. Guarda.» Le gira delicatamente la testa e indica una lesione all’osso parietale.
Come il colpo di un sasso grosso. Di quelli che afferri pure se non volevi, quando le urla possono far arrivare qualcuno e rovinarti la vita per sempre e allora devi farla tacere. Subito.
In un modo o nell’altro.
Un colpo solo.
Come quello di cui s’erano giurati che non avrebbero mai più parlato.
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Traccia n3 - La sorella scomparsa
Domenica di luglio, s’è appena fatto giorno e fa già un caldo porco. Non che altre estati si sudasse meno, ma questa è diversa, ha qualcosa di malato, di estremo e senza ritorno.
Eppure, a guardarla, è un’alba come tante. Oro rosato nei vicoli finalmente quieti, ombrelloni addormentati, qualcuno che corre sul bagnasciuga col cane dietro, e voli di gabbiani a ricamare il cielo.
«Moriremo tutti» biascica Apocalisse, che una volta era stato Aldo e lavorava al porto.
«Ci puoi scommettere le chiappe, bellezza.» Saggezza di netturbino, scopa e ramazza, nessuno immagina quello che resta per terra la mattina dopo. Dopo una notte che ti ha divorato l’anima. L’ha sbattuta contro uno scoglio e poi nella sabbia e con mani frenetiche l’ha tenuta inchiodata, gambe e braccia spalancate mentre ti ci tuffavi dentro senza fiato.
Notte d’estate. Sesso e mojito, che ti racconti la balla di quanto rinfresca, lo butti giù come acqua e poi gli dai la colpa d’averti trascinato all’inferno e fatto credere che invece fosse il paradiso.
Strade deserte. È ancora presto per qualsiasi cosa. E tardi nello stesso tempo.
All’improvviso un urlo rauco, poi un altro. Anche ai cani girano le palle il mattino dopo.
Ma non è un cane.
Faccia livida, occhi sgranati, barcolla seminuda dalla salitella dei Bagni Miramare. Ci fosse grigio e nebbia, sarebbe la prima puntata di Twin Peaks. Invece è Tor San Lorenzo, agghindata per la villeggiatura e la puttanella deve averci dato dentro tutta notte. Quindi chi se ne frega.
Gaetano Passalacqua si sporge dalla farmacia. H 24, d’estate ci vuole. C’è sempre qualcuno col mal di denti, di testa, di culo, non importa di che, sono comunque bei soldi. È dura, ma tra dieci minuti arriva il cambio. Di solito è puntuale.
La ragazza quasi gli cade addosso.
Fa appena in tempo ad afferrarla prima che sbatta la testa allo stipite.
Lo fissa con occhi vuoti, apre e chiude la bocca, ma non esce suono. Lui fa per prenderla in braccio, lei lo scansa con una gomitata, si appoggia al muro, entra e si accascia sul pavimento.
Il cellulare. Gaetano fruga nella tasca del camice, lo trova, chiama il 118.
Un grido alle sue spalle: «Elena!» È il commissario Nardelli. Corre dentro, si accuccia, cerca di sollevarle il mento. Lei si divincola, mugola, geme e fissa il vuoto.
Gaetano alza le mani: «Non gli ho dato niente. È arrivata così.»
«Arrivata da dove?»
«Non lo so, dalla spiaggia penso.»
«Hai chiamato l’ambulanza?»
«Sì, stanno arrivando.»
«Hai avvisato i suoi?»
L’altro si stringe nelle spalle: «E chi devo chiamare, scusa?»
«Non fare lo stronzo, lo sai benissimo chi è.»
«E allora chiamali tu. Il sindaco è amico tuo, no?»
Nardelli lo guarda con la faccia che dice: un’altra cazzata e di ambulanze ne serviranno due. Ma quello non ci fa caso, i farmacisti sono gente impavida.
E infatti: «Che le hanno fatto? Non si fa toccare.»
«Si vede che ne ha avuto abbastanza.»
«Vuoi dire che…»
«Che quando te lo ficcano dentro a forza non hai tanta voglia di farti mettere ancora le mani addosso, tu che dici?»
Non dice, guarda la ragazza, i lividi sparsi, l’occhio pesto e il labbro rotto. «L’hanno pure picchiata.»
«Sì, in genere non chiedono permesso.»
L’altro annuisce assorto, dà un’occhiata fuori dove tutto tace e poi si sente in dovere di fare conversazione. Roba tipo ma chi può essere stato, qui ci sono solo famiglie e gente per bene.
Certo, come no. Arriva quest’ambulanza?
H 6.30.
Giancarlo Casagrande e la moglie Marina, detta Mimma, seduti nella sala d’attesa del Pronto Soccorso, fissano la porta a vetri e quando si apre scattano in piedi.
Il dottore si ferma un momento sulla soglia in cerca del sorriso giusto e poi: «Tranquilli» dice rassicurante. «Non c’è stata alcuna violenza. La ragazza è ancora vergine.»
«Sia ringraziato il cielo» fa il padre. La questione ha notoriamente una sua priorità.
«Sì, ma…» balbetta Mimma.
«Ecco, è sul ma che dovete mantenervi tranquilli» continua il dottore.
«In che senso?» fa Casagrande.
«Elena è stabile, ma in evidente stato di shock.»
«Shock! Ma perché, che è successo?» piagnucola Mimma. «Non è che ha preso…»
«Sì, ha preso. Il tossicologico ce lo ha confermato.»
Ed è allora che Giancarlo Casagrande, stimato avvocato, nonché sindaco di Tor San Lorenzo, molla un cazzotto al muro, così forte che il distributore di bibite traballa e il poster della campagna Avis crolla a terra. Rumore di vetri rotti. Mimma gli afferra la mano: «Ti sei ferito!»
Lui si libera con uno spintone: «Drogata! Mia figlia è una drogata!» urla paonazzo.
«Non saltiamo alle conclusioni» fa il dottore. «Potrebbe essere un episodio sporadico. I ragazzi lo fanno, magari solo per provare e non è detto che…»
«Non è detto un cazzo!» inveisce l’altro.
«Calmati, ti prego!» guaisce Mimma.
«Chi gliel’ha data, chi?»
Passi nel corridoio. Giancarlo si volta di scatto, vede Nardelli e gli punta un dito contro: «Tu! Tu me lo devi trovare! Me lo devi portare legato e imbavagliato così quando gli sfondo la testa a calci non fa rumore!»
«Certo. Ma adesso calmiamoci.» E quello si placa, che detto da Mimma non conta, ma da Nardelli, sì. «Adesso ce ne andiamo al bar» dice mettendogli una mano sulla spalla, «facciamo colazione e mi raccontate tutto.»
Ed è con cappuccini e cornetti che il commissario Ermete Nardelli viene informato di quello che già sa. Perché Giancarlo Casagrande non è una conoscenza recente.
Compagni di banco, compagni di naja, di pesca, testimoni alle nozze uno dell’altro. Amici, insomma. Di quelli che ti fideresti a mettergli in mano la vita. Di quelli che ti parano il culo se ti cacci nei guai e tu lo stesso. Amici.
«Erano in punizione» dice cupo Giancarlo.
«Tutte e due?» fa Nardelli.
«Sì, perché se un padre dice che alla festa non ci vai. Tu non ci vai.»
«Ma era il compleanno di Giada!» piagnucola Mimma.
«Troia la madre, troia la figlia» dice Giancarlo col tono di chi ha una certa esperienza dell’argomento.
«Le ha chiuse in camera, ma ti rendi conto?» fa Mimma a Nardelli. E poi al marito: «Non sono più bambine, non ti puoi lamentare se poi…»
«Si sono calate dalla finestra, capisci?» dice Giancarlo a Nardelli. «Questo è il rispetto che si merita un padre? No, dico, è questo?» tuona e sbatte il pugno sul tavolo. Silenzio di gelo. È un bar, ma pur sempre di un ospedale. Però quello è il sindaco, quindi.
«Tu parli di rispetto» fa Mimma con la voce rotta, «ma intanto Elena è in quel letto ridotta come…» e non finisce la frase perché il pianto la scuote.
«Tu portami quell’animale che le ha dato la roba» fa Giancarlo a Nardelli. «Al resto penso io.»
«Va bene, però prima voglio capire cosa è successo. Devo parlare con Linda.»
«E non lo puoi fare.»
«Perché?»
«Perché non è tornata a casa!» ulula Mimma tra i singhiozzi.
Di bene in meglio. Due casini al prezzo di uno. Buona domenica.
«Hai capito, sbirro?» Quando Giancarlo lo chiama così a Nardelli montano le paturnie, ma stavolta passa, che non è giornata. «Me li devi trovare tutti e due. Lo stronzo e Linda.»
«Prima Linda, però!» mugola Mimma.
«Tutti e due!» ruggisce Casagrande.
«Certo. Però una cosa devo dirtela: Elena e Linda si sono allontanate volontariamente. Sono maggiorenni e possono farlo.»
«Ma che cazzo dici?»
«Sì, Giancarlo, fattene una ragione. A diciotto anni sei maggiorenne. Se qualcuno ti chiude in una stanza è sequestro di persona e se vuoi uscire di casa, sia pure calandoti da una finestra, hai tutto il diritto di farlo.»
Mimma Casagrande guarda il marito preoccupata. Sempre paonazzo, una vena gli pulsa alla tempia e le coronarie, meglio sorvolare, grazie a Dio siamo già in ospedale.
«Sei avvocato» continua Nardelli, «queste cose dovresti saperle.»
«Io so solo che avevo… ho due figlie» fa l’altro e la voce si incrina. «Una è in stato catatonico e l’altra…» Prende fiato, cerca di frenare il tremito del mento. Un uomo non piange davanti a tutti, figurarsi un sindaco.
«Andrà tutto bene» dice Nardelli. «Dovete solo aspettare. Elena si riprenderà in fretta perché sarà pure stronza, ma è giovane e forte. E Linda, beh Linda si farà viva prima che abbiate smaltito la rabbia.» Mente, lo sanno tutti e due, ma sono le cose da dire.
H 8.30.
In commissariato, l’ispettore Carsoli bussa e mette dentro la testa: «Posso?»
«Ah, sei già qui? Bravo» fa Nardelli. «Sei riuscito a sentire i ragazzini?»
«Sì. Li ho beccati tutti al solito baretto sulla statale, non le dico in che condizioni. C’era uno che continuava a bere e vomitare, ma dico io…»
«Arriva al dunque.»
«Il dunque è che ad un certo punto le ragazze si sono allontanate per fare pipì dietro le dune.»
«Tutto qui?»
Carsoli si stringe nelle spalle: «Eh sì. Non hanno saputo dirmi altro. Talmente sfondati che non si sono nemmeno accorti che non erano più tornate.»
«È un po’ poco.»
«Però…»
«Ah, c’è un però.»
«Per quello che vale. Una di loro, tal Caterina Pettinelli, aveva finito prima delle altre e aveva fretta di tornare alla festa. Ma mentre si allontanava, ha sentito dei rumori, come di qualcosa o qualcuno nascosto a spiare tra gli arbusti.»
«Ha visto chi era?»
«Troppo buio.» Tira fuori un taccuino, scartabella, trova. «Però l’odore non me lo scordo. Era un tanfo da vomitare, come di carogna. Lo so perché una volta abbiamo trovato un gatto morto nel cassonetto e puzzava allo stesso modo. Così ha detto.»
«Beh, è già qualcosa.»
«Se si accontenta. Le ricordo comunque che era ubriaca fradicia, non so quanto sia affidabile.»
Carsoli rimette il taccuino in tasca e resta impalato a fissare il commissario.
«C’è altro?» gli fa quello.
«Il caso Petrella.»
«Che c’entra adesso?» C’entra eccome e Nardelli lo sa benissimo.
«Ci somiglia.»
Quindici anni prima, la figlia dell’ingegner Petrella sparì durante una festa sulla spiaggia. Si disse fuggita in sud America con un uomo sposato. C’è sempre un Sud America quando vuoi far perdere le tracce.
Se ne parlò per qualche tempo, a mezza bocca, poi sempre meno. Anche perché i Petrella si trasferirono al Nord. Forse Milano, forse Trieste, non se ne seppe più nulla.
Il notaio Gambino li cercò invano, se non altro per capire cosa fare della villetta bianca, aggrappata al terrapieno bordo mare, con una parete tutta di maiolica e la rosa dei venti dipinta. Niente. La casa restò così, con le persiane mangiate dalla salsedine, ogni anno sempre più sbilenche. E il Sud America restò dov’era.
«No, non ci somiglia per niente.»
«Se lo dice lei…»
Rimasto solo, Nardelli guarda l’orologio a muro. Troppo presto per cominciare a bere altro che non sia caffè. Ma quello non tiene al riparo dai pensieri. Al contrario.
Il caso Petrella. Carsoli non è scemo. Avrà sicuramente recuperato il fascicolo e se lo sarà letto con l’acquolina in bocca.
Ingegner Francesco Petrella. Ciccio. Quinta B, banco dietro a quello suo e di Giancarlo. Nei paesi ci si conosce tutti. Si diventa amici di tutti. Si cresce insieme e insieme si fanno cazzate che poi si cerca di dimenticare. A volte ci si riesce. Altre no.
Stavolta no. Perché Titti era bellissima e le piaceva bere. Soprattutto alle feste. Soprattutto quel luglio maledetto.
"Ma è la figlia di Ciccio!"
"E allora? Che vuoi che siano vent’anni di differenza?"
Quando si scopa da ubriachi si è tutti ragazzi. E a quello che succede dopo, ci si pensa dopo.
Nardelli guarda ancora l’orologio e decide di affogare i pensieri nelle scartoffie. Che non mancano mai, né gli uni, né le altre.
Scartoffie, meglio del Roipnol. Quando riapre gli occhi è quasi buio, che d’estate significa almeno le nove e mezza. Perfetto.
Perfetto un cazzo. Lo sente, è nell’aria, tanfo di morte, da la resa dei conti. Quelli che prima o poi tornano a battere cassa.
E allora, se l’Inferno sta per inghiottirti, che almeno sia per un buon motivo.
Il whisky di Nina lo è.
«Dammene un altro.»
«È il quarto.»
«È pure una giornata di merda.»
Nina, che s’era fatta otto anni per una sforbiciata alla gola del marito violento e adesso riga dritto al bancone del MaxyBar. Proprio vero: tocchi il fondo, dai una spinta e risali. Ma bisogna avere le palle. Rinunciare a tenerti a galla e lasciarti risucchiare dalla merda. Là, dove i debiti si pagano. Funziona così. Qui come in tutti posti del mondo, pure se la gente non vuole pensarci. Almeno per quei dieci, quindici giorni di ombrelloni, gelato e passeggiate lungomare. La sera, passi lenti e golfino, chiacchiere inutili, però tanto carine, finché non ti accorgi che stai passando proprio davanti a quella villetta abbandonata, coi resti di una scritta appena sotto al campanello: Petrella. La storia brutta che tutti si raccontano sottovoce, orripilati e golosi. Di quelle coi fantasmi che baluginano per un attimo da una persiana sconnessa, ma solo nelle notti di plenilunio.
Ci sono sempre storie di fantasmi nei posti d’estate.
«Che faccio, ti lascio la bottiglia?» dice Nina.
Lui dà un’occhiata e annuisce, tanto è praticamente vuota.
Nardelli beve. Un commissario non dovrebbe, non siamo mica in un film americano. Ma chi se ne frega. Beve finché le facce di Giancarlo e Mimma, cominciano ad appannarsi e poi a dissolversi nella nebbia. La stessa dove galleggia il letto di Elena, che non si sveglierà più. La stessa che copre la duna dov’è nascosta Linda col suo bel vestito, rosso per sempre.
Vuota il bicchiere e cerca di smontare dal trespolo.
«Già te ne vai?» gli fa Nina.
«Eh sì. Ho molto da fare» biascica lui. Barcolla, urta un tavolo ed esce.
Pochi passi e si accorge che deve pisciare. Ora, subito. Si guarda intorno. Nessuno. Tira giù la lampo, si appoggia al muro. Sospira di sollievo.
«Avresti dovuto fermarti.» Una voce alle spalle, un brivido, una stretta al petto.
Tanfo da vomitare, come di carogna. Nardelli si gira e la vede.
Vecchissima e ossuta, occhi di ghiaccio e il corpo avvolto in un tabarro di canapa color disperazione. «I debiti si pagano» sussurra e allunga una mano che pare un artiglio.
Lui la spintona via e comincia a correre, si impiglia a qualcosa, strappa, corre, cade. Urla.
Da terra, vede le fronde di una quercia incombere. All’improvviso un fremito, come di un cuore gigantesco e subito uno stormo di uccelli che abbandonano tutti insieme i rami, mentre l’albero resta lì, senza foglie, con le sue braccia rinsecchite che implorano perdono al cielo.
H 8.30.
La testa in fiamme e nessuna idea di come sia finito nel suo letto. Doccia veloce, vestiti puliti e caffè. Avercelo. Pazienza, lo prenderà in commissariato.
Carsoli lo accoglie con un sorriso radioso e lo scorta fino al suo ufficio.
«Hanno ritrovato un corpo tra le dune» dice come avesse vinto alla lotteria.
Ancora quel brivido, ancora quella stretta al petto. «Quando?»
«Stamattina all’alba.»
«E perché lo so soltanto adesso?»
«Perché l’ho chiamata, ma non mi ha mai risposto.»
Nardelli guarda il cellulare: otto chiamate perse. Il whisky di Nina.
«Così siamo andati io e Guareschi» dice l’altro. «Se vuole ce l’accompagno. Sul luogo, intendo. Dovrebbe esserci ancora la Scientifica. Il corpo invece è già dal medico legale. Che preferisce, lì o là?»
Che preferisce? Due cose soltanto: che si dia una calmata e mezzo litro di caffè ristretto.
Appena lo sente entrare, il medico alza la testa: «Mi dispiace.»
«Anche a me.» Il corpo di Linda su quel tavolo è l’ultima cosa che avrebbe voluto vedere. E allora gli esce la domanda più cretina, raschiata dal fondo delle speranze inutili: «Sei sicuro?»
Si aspetta un vaffanculo. I medici legali lo fanno quando li metti in dubbio.
Invece quello caccia fuori un sospiro, raggiunge la scrivania e smanetta al pc. «Questo è il referto del DNA.»
«Sono stati veloci» fa Nardelli e intanto fissa il monitor dove lampeggia Compatibile al 99%.
«Quindi è lei» dice con un filo di voce.
«No.»
«Come sarebbe a dire?»
«Non può essere lei. Anche senza il referto, è evidente che il corpo risale a minimo a 15 anni fa. Linda è scomparsa da due giorni.»
«Aspetta un momento…»
«E c’è di più. Guarda.» Le gira delicatamente la testa e indica una lesione all’osso parietale.
Come il colpo di un sasso grosso. Di quelli che afferri pure se non volevi, quando le urla possono far arrivare qualcuno e rovinarti la vita per sempre e allora devi farla tacere. Subito.
In un modo o nell’altro.
Un colpo solo.
Come quello di cui s’erano giurati che non avrebbero mai più parlato.
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