[Lab 14] Il tempo non torna più
Posted: Mon Jun 10, 2024 2:42 pm
«E ridi un po’, che fai sempre il broncio!»
Un brivido mi corre lungo la schiena. Non ho bisogno di voltarmi per sapere chi mi sta parlando.
«Francesco! Come stai?» Lo stringo forte.
«Che vuoi che ti dica? Da vecchietto… A te non c’è bisogno di chiederlo. Diventi ogni anno più bella.»
Non posso controllare il rossore che mi sale.
Non riusciamo a dirci altro. Ci sediamo sulla battigia come facevamo da ragazzini, con la prima brezza dell’alba a scompigliarci i capelli e lo sguardo perso nelle sfumature rosate del giorno nascente.
Francesco stava sempre zitto ma, se chiudo gli occhi, riesco ancora a sentire il calore della sua mano che stringeva forte la mia. Non riuscivo a udire altro che il battito veloce del mio cuore. Quanto avrei voluto che mi baciasse. Ma c’era sempre qualcuno che poteva vederci e quello non doveva succedere mai.
Ci eravamo conosciuti sulla spiaggia, aspettando il rientro delle barche dei pescatori. I nostri genitori arrivavano sempre quando già faceva scuro; a quell’ora gli acquirenti migliori se n’erano già andati e così in cambio del pescato si dovevano accontentare di ciò che restava: a volte un mazzo di cipolle, qualche patata, un pugno di mais, un paio di uova nel migliore casi. La farina di grano era la più richiesta e riuscivano di rado a ottenerla. Così, per noi, mangiare del pane bianco o della pasta era quasi impossibile.
Una volta sentii bussare sulla spalla: Francesco stava dietro di me. Mi voltai di scatto e lui, facendomi segno di stare zitta con l’indice puntato sulla bocca, mi offrì un pezzetto della sua razione di pane raffermo. La notte non riuscii a chiudere occhio e neppure quelle dopo.
Il mare brilla sotto i primi raggi del sole. Dopo alcuni giorni di tempesta, la distesa d’acqua sembrerebbe immobile se non fosse per le carezze intermittenti della risacca sui nostri piedi.
Ci guardiamo intorno, la spiaggia è ancora deserta. Un piccolo cenno complice e, all’unisono, gridiamo: «Ritorna! Ritorna!»
Proprio come gridava la principessa della leggenda. Tutti i giorni lei si recava sullo scoglio più lontano di Ortona guardando il mare in attesa del ritorno del suo pricipe. I pescatori che passavano con le loro barche la sentivano piangere e invocare: “Ritorna, ritorna!”.
Un giorno il mare se la portò via e lei poté raggiungere il suo amato.
Così, una volta all’anno, io Francesco c’incontriamo per chiedere al mare di restituirci i nostri padri. O almeno qualcosa di loro.
Papà si preoccupava sempre che mangiassi poco, diceva che quando sarebbe stato il momento non avrei avuto figli sani se restavo così magra.
“Non dovete uscire in mare, domani, è San Giovanni. È giorno punta di stella.”
“Tutte dicerie! Da soli potremo pescare più pesce. Gioanìna gnà stà bielle grasse!”
In certi giorni era proibito pescare, ma troppi erano i pescatori a contendersi un fazzoletto di mare e mio padre a certe usanze preferiva non dare peso:“Meno barche in acqua, più pesce nelle reti”, diceva e poi Filuccio, il signorotto del paese, aveva la moglie incinta “con la voglia di mangiare solo pesce fresco” . Era una buona occasione per guadagnare bene e fare una bella scorta di farina.
Anche il padre di Francesco, quel giorno, decise di sfidare la sorte e il mare.
Li guardammo salpare dal porticciolo fino a quando le barchette sparirono dietro l’orizzonte. Poco dopo, il cielo si addensò di nuvole che proiettarono le loro ombre scure sul mare.
Mia madre corse a prendere il barattolo del sale. Lo gettava con ampie manciate verso il cielo recitando una preghiera antica come fosse una formula magica.
“Santa Barbara benedetta nun fa calà né furmene né saetta, se proprio a da calà, falla calà in una valle oscura dove non ci sta nisciuna creatura.”
Neppure un frammento delle due barche tornò mai a riva.
Mia madre, da quel momento, restò muta. Pensai che anche la sua anima fosse stata risucchiata dalla furia delle onde.
Francesco, per mantenere la madre e i fratelli più piccoli, dovette andare a lavorare al trabocco di Zi’ Masino e nessuno di noi due ebbe più tempo di pensare all’amore.
Sospiro. Il tempo non torna più, dice una canzone che mi piace da morire.
Francesco si alza, mi abbraccia forte e resta così per qualche istante prima di decidersi a salutarmi. Vorrei chiedergli di rimanere, ma non ho il coraggio.
Resto ancora un po’ a camminare sulla riva. Assorta nei ricordi con lo sguardo rivolto al mare, non mi accorgo dell’ostacolo davanti ai piedi. Impossibile mantenere l’equilibrio… riesco solo a evitare di finire col volto sulla sabbia. Mi guardo intorno. Nessuno deve avermi vista, per fortuna. Mi chino per raccogliere l’oggetto in cui sono inciampata: un pezzo di legno fradicio. Impreco in silenzio, ma mentre sto per lanciarlo di nuovo in acqua mi accorgo che in un lato ci sono ancora dei rimasugli di colore e qualche lettera sbiadita.
Mi siedo per osservarlo meglio. Leggo “…SA”. Una scossa mi attraversa il corpo dalla punta dell’alluce fino alla testa. Dipinta di turchese, il colore dei miei occhi, la barca di mio padre si chiamava “ROSA”, come mia madre. Respiro a fondo e deglutisco a vuoto.
Non è il sale dell’acqua di mare che mi fa bruciare gli occhi e annebbiare la vista. Con la mano sulla fronte per coprire il riverbero del sole che si è già alzato, allungo lo sguardo in cercando d’individuare in lontananza la sagoma di Francesco. Mi rendo conto che ormai è inutile chiamarlo e poi si è fatto tardi. È ora di rientrare anche per me.
Una volta chiusa la porta, mi lascio scivolare sul pavimento. Seduta, con in testa una ridda di voci e di ricordi, non riesco a credere a quanto è accaduto.
Un lamento proveniente dalla camera al piano superiore mi scuote. Tiro su col naso, mi asciugo gli occhi coi palmi e salgo gli scalini a due a due.
Apro gli scuri e scosto le tendine per far entrare un po’ di luce nella stanza.
«Mamma, sono qui. Stai tranquilla» le dico sottovoce accarezzandole la fronte.
Lei mi rivolge uno sguardo assente e si rimette a mugolare.
Mi siedo accanto a lei nel letto, sollevo un lembo della coperta, cerco il suo braccio e le prendo la mano. È fragile e leggera come un uccellino. Mi piace parlare con lei, confidarle i miei pensieri.
«Stamani ho incontrato Francesco, te lo ricordi?»
Lei continua a fissare il soffitto.
«Si è fatto vecchio pure lui, ma è sempre bello. E forte. Ha dovuto smettere di fare il pescatore, sai? Il trabocco di zi’ Masino se l’è comprato uno che vuol farci un ristorante.»
Il ritmo del suo respiro, si regolarizza. Succede sempre quando le racconto del mondo là fuori. Chissà se davvero capisce quello che le dico, non mi importa. Rispondo alle domande che immagino vorrebbe farmi.
«No, mamma, non si è sposato. Per campare adesso racconta le storie di pesca ai turisti. Lo hanno persino intervistato alla televisione!»
Sbatte le palpebre. Un raggio di luce la colpisce taglio. Mi alzo per riaccostare lo scuretto.
«Lo sai, mamma, che giorno è oggi? È San Giovanni.»
Lei sembra scuotersi. Gira piano la testa verso di me. Frugo dentro la borsa e le mostro il legno che ho raccolto.
«Guarda che ho trovato stamani sulla riva! Lo riconosci?»
Una lacrima le riga il viso.
«Patrete affucò…»
Mi chino per abbracciarla e lei mi sfiora la guancia con un’accenno di carezza.
Mamma Rosa c’è ancora. Ne sono certa.
La stringo forte prima di vederla ripiombare nel solito torpore.
Sulla spiaggia, giù al trabocco, c’è un capannello di persone. Affretto il passo, attraverso la lunga passerella di legno raggiungo la tavolata dove c’è il casottino che un tempo fungeva da rimessa degli attrezzi per la pesca. Da quel punto si allargano a ventaglio sul mare quattro lunghi pali ai quali è appesa una rete; mi è sempre sembrata una gigantesca ragnatela.
Francesco, coi calzoni a mezza gamba, la camicia con le maniche arrotolate fino al gomito e il cappello, sembra un personaggio uscito da un album di fotografie degli anni cinquanta.
Parla in dialetto, ma la gente annuisce ascoltandolo a bocca aperta.
«Questo è stato nu trabocco che ha campato tante famiglie. Prima si lavorava pe’ campà, pe’ se sfamà. Venevano i contadini da l’entroterra e facevano a cagna merce co’ lu pesce. I pescatori glie devano lu pesce e loro glie devano la farina, lu vine, robbe da mangià…»
I suoi occhi chiari, esaltati dall’abbronzatura selvaggia, scintillano al ritmo delle onde.
Mi lascio cullare dalla sua voce profonda e dall’incanto del luogo. Deve avermi notata tra la folla, s’interrompe per un attimo, non mi ero spinta fino a quassù prima di oggi.
Gli faccio un piccolo cenno con la mano. Ricambia e accelera il racconto.
Appena il gruppo di turisti si allontana, mi raggiunge.
«Gioani’, che succede?»
Apro la borsa e tiro fuori il pezzo di legno.
Francesco l’osserva con attenzione, lo sguardo rimbalza veloce dal legno a me.
«L’ho raccolto sulla riva dopo che sei andato via… Francesco, il mare ci ha risposto davvero!»
Mi sorride sornione.
È in quel momento che noto uno schizzo di vernice turchese sulla sua camicia. Lo guardo storto.
Lui, invece, mi scosta una ciocca di capelli dall’orecchio e mi sussurra:
«Non ti sembra che sia l’ora di lasciarli andare in pace e pensare un po’ a noi?»
Mi abbraccia forte.
Sento mancarmi il respiro, chiudo gli occhi e dischiudo le labbra. Non importa se non abbiamo più quindici anni, ci baciamo a lungo e le lancette girano all’indietro rincorrendo il tempo perduto.
«Ti amo, Gioani’. Ti ho sempre amata, perché non mi sposi?»
Mi stacco da lui. Il pensiero di mia madre in quello stato è come una nuvola carica di pioggia che oscura l’orizzonte.
Francesco mi legge nello sguardo. Cerca la mia la mano: «Ti aiuterò a occuparti di Rosa, tanto di figli non ne possiamo più avere, quindi che problema c’è?»
Sorrido. Ho sempre amato la sua ironia.
Il trabocco è come la nostra storia: fragile in apparenza, ma così forte da resistere alla furia del mare e del tempo.
«Sì…» È l’unica parola che riesco a dirgli prima di coprirlo di baci.
Chi l’ha detto che il tempo non torna più?
Un brivido mi corre lungo la schiena. Non ho bisogno di voltarmi per sapere chi mi sta parlando.
«Francesco! Come stai?» Lo stringo forte.
«Che vuoi che ti dica? Da vecchietto… A te non c’è bisogno di chiederlo. Diventi ogni anno più bella.»
Non posso controllare il rossore che mi sale.
Non riusciamo a dirci altro. Ci sediamo sulla battigia come facevamo da ragazzini, con la prima brezza dell’alba a scompigliarci i capelli e lo sguardo perso nelle sfumature rosate del giorno nascente.
Francesco stava sempre zitto ma, se chiudo gli occhi, riesco ancora a sentire il calore della sua mano che stringeva forte la mia. Non riuscivo a udire altro che il battito veloce del mio cuore. Quanto avrei voluto che mi baciasse. Ma c’era sempre qualcuno che poteva vederci e quello non doveva succedere mai.
Ci eravamo conosciuti sulla spiaggia, aspettando il rientro delle barche dei pescatori. I nostri genitori arrivavano sempre quando già faceva scuro; a quell’ora gli acquirenti migliori se n’erano già andati e così in cambio del pescato si dovevano accontentare di ciò che restava: a volte un mazzo di cipolle, qualche patata, un pugno di mais, un paio di uova nel migliore casi. La farina di grano era la più richiesta e riuscivano di rado a ottenerla. Così, per noi, mangiare del pane bianco o della pasta era quasi impossibile.
Una volta sentii bussare sulla spalla: Francesco stava dietro di me. Mi voltai di scatto e lui, facendomi segno di stare zitta con l’indice puntato sulla bocca, mi offrì un pezzetto della sua razione di pane raffermo. La notte non riuscii a chiudere occhio e neppure quelle dopo.
Il mare brilla sotto i primi raggi del sole. Dopo alcuni giorni di tempesta, la distesa d’acqua sembrerebbe immobile se non fosse per le carezze intermittenti della risacca sui nostri piedi.
Ci guardiamo intorno, la spiaggia è ancora deserta. Un piccolo cenno complice e, all’unisono, gridiamo: «Ritorna! Ritorna!»
Proprio come gridava la principessa della leggenda. Tutti i giorni lei si recava sullo scoglio più lontano di Ortona guardando il mare in attesa del ritorno del suo pricipe. I pescatori che passavano con le loro barche la sentivano piangere e invocare: “Ritorna, ritorna!”.
Un giorno il mare se la portò via e lei poté raggiungere il suo amato.
Così, una volta all’anno, io Francesco c’incontriamo per chiedere al mare di restituirci i nostri padri. O almeno qualcosa di loro.
Papà si preoccupava sempre che mangiassi poco, diceva che quando sarebbe stato il momento non avrei avuto figli sani se restavo così magra.
“Non dovete uscire in mare, domani, è San Giovanni. È giorno punta di stella.”
“Tutte dicerie! Da soli potremo pescare più pesce. Gioanìna gnà stà bielle grasse!”
In certi giorni era proibito pescare, ma troppi erano i pescatori a contendersi un fazzoletto di mare e mio padre a certe usanze preferiva non dare peso:“Meno barche in acqua, più pesce nelle reti”, diceva e poi Filuccio, il signorotto del paese, aveva la moglie incinta “con la voglia di mangiare solo pesce fresco” . Era una buona occasione per guadagnare bene e fare una bella scorta di farina.
Anche il padre di Francesco, quel giorno, decise di sfidare la sorte e il mare.
Li guardammo salpare dal porticciolo fino a quando le barchette sparirono dietro l’orizzonte. Poco dopo, il cielo si addensò di nuvole che proiettarono le loro ombre scure sul mare.
Mia madre corse a prendere il barattolo del sale. Lo gettava con ampie manciate verso il cielo recitando una preghiera antica come fosse una formula magica.
“Santa Barbara benedetta nun fa calà né furmene né saetta, se proprio a da calà, falla calà in una valle oscura dove non ci sta nisciuna creatura.”
Neppure un frammento delle due barche tornò mai a riva.
Mia madre, da quel momento, restò muta. Pensai che anche la sua anima fosse stata risucchiata dalla furia delle onde.
Francesco, per mantenere la madre e i fratelli più piccoli, dovette andare a lavorare al trabocco di Zi’ Masino e nessuno di noi due ebbe più tempo di pensare all’amore.
Sospiro. Il tempo non torna più, dice una canzone che mi piace da morire.
Francesco si alza, mi abbraccia forte e resta così per qualche istante prima di decidersi a salutarmi. Vorrei chiedergli di rimanere, ma non ho il coraggio.
Resto ancora un po’ a camminare sulla riva. Assorta nei ricordi con lo sguardo rivolto al mare, non mi accorgo dell’ostacolo davanti ai piedi. Impossibile mantenere l’equilibrio… riesco solo a evitare di finire col volto sulla sabbia. Mi guardo intorno. Nessuno deve avermi vista, per fortuna. Mi chino per raccogliere l’oggetto in cui sono inciampata: un pezzo di legno fradicio. Impreco in silenzio, ma mentre sto per lanciarlo di nuovo in acqua mi accorgo che in un lato ci sono ancora dei rimasugli di colore e qualche lettera sbiadita.
Mi siedo per osservarlo meglio. Leggo “…SA”. Una scossa mi attraversa il corpo dalla punta dell’alluce fino alla testa. Dipinta di turchese, il colore dei miei occhi, la barca di mio padre si chiamava “ROSA”, come mia madre. Respiro a fondo e deglutisco a vuoto.
Non è il sale dell’acqua di mare che mi fa bruciare gli occhi e annebbiare la vista. Con la mano sulla fronte per coprire il riverbero del sole che si è già alzato, allungo lo sguardo in cercando d’individuare in lontananza la sagoma di Francesco. Mi rendo conto che ormai è inutile chiamarlo e poi si è fatto tardi. È ora di rientrare anche per me.
Una volta chiusa la porta, mi lascio scivolare sul pavimento. Seduta, con in testa una ridda di voci e di ricordi, non riesco a credere a quanto è accaduto.
Un lamento proveniente dalla camera al piano superiore mi scuote. Tiro su col naso, mi asciugo gli occhi coi palmi e salgo gli scalini a due a due.
Apro gli scuri e scosto le tendine per far entrare un po’ di luce nella stanza.
«Mamma, sono qui. Stai tranquilla» le dico sottovoce accarezzandole la fronte.
Lei mi rivolge uno sguardo assente e si rimette a mugolare.
Mi siedo accanto a lei nel letto, sollevo un lembo della coperta, cerco il suo braccio e le prendo la mano. È fragile e leggera come un uccellino. Mi piace parlare con lei, confidarle i miei pensieri.
«Stamani ho incontrato Francesco, te lo ricordi?»
Lei continua a fissare il soffitto.
«Si è fatto vecchio pure lui, ma è sempre bello. E forte. Ha dovuto smettere di fare il pescatore, sai? Il trabocco di zi’ Masino se l’è comprato uno che vuol farci un ristorante.»
Il ritmo del suo respiro, si regolarizza. Succede sempre quando le racconto del mondo là fuori. Chissà se davvero capisce quello che le dico, non mi importa. Rispondo alle domande che immagino vorrebbe farmi.
«No, mamma, non si è sposato. Per campare adesso racconta le storie di pesca ai turisti. Lo hanno persino intervistato alla televisione!»
Sbatte le palpebre. Un raggio di luce la colpisce taglio. Mi alzo per riaccostare lo scuretto.
«Lo sai, mamma, che giorno è oggi? È San Giovanni.»
Lei sembra scuotersi. Gira piano la testa verso di me. Frugo dentro la borsa e le mostro il legno che ho raccolto.
«Guarda che ho trovato stamani sulla riva! Lo riconosci?»
Una lacrima le riga il viso.
«Patrete affucò…»
Mi chino per abbracciarla e lei mi sfiora la guancia con un’accenno di carezza.
Mamma Rosa c’è ancora. Ne sono certa.
La stringo forte prima di vederla ripiombare nel solito torpore.
Sulla spiaggia, giù al trabocco, c’è un capannello di persone. Affretto il passo, attraverso la lunga passerella di legno raggiungo la tavolata dove c’è il casottino che un tempo fungeva da rimessa degli attrezzi per la pesca. Da quel punto si allargano a ventaglio sul mare quattro lunghi pali ai quali è appesa una rete; mi è sempre sembrata una gigantesca ragnatela.
Francesco, coi calzoni a mezza gamba, la camicia con le maniche arrotolate fino al gomito e il cappello, sembra un personaggio uscito da un album di fotografie degli anni cinquanta.
Parla in dialetto, ma la gente annuisce ascoltandolo a bocca aperta.
«Questo è stato nu trabocco che ha campato tante famiglie. Prima si lavorava pe’ campà, pe’ se sfamà. Venevano i contadini da l’entroterra e facevano a cagna merce co’ lu pesce. I pescatori glie devano lu pesce e loro glie devano la farina, lu vine, robbe da mangià…»
I suoi occhi chiari, esaltati dall’abbronzatura selvaggia, scintillano al ritmo delle onde.
Mi lascio cullare dalla sua voce profonda e dall’incanto del luogo. Deve avermi notata tra la folla, s’interrompe per un attimo, non mi ero spinta fino a quassù prima di oggi.
Gli faccio un piccolo cenno con la mano. Ricambia e accelera il racconto.
Appena il gruppo di turisti si allontana, mi raggiunge.
«Gioani’, che succede?»
Apro la borsa e tiro fuori il pezzo di legno.
Francesco l’osserva con attenzione, lo sguardo rimbalza veloce dal legno a me.
«L’ho raccolto sulla riva dopo che sei andato via… Francesco, il mare ci ha risposto davvero!»
Mi sorride sornione.
È in quel momento che noto uno schizzo di vernice turchese sulla sua camicia. Lo guardo storto.
Lui, invece, mi scosta una ciocca di capelli dall’orecchio e mi sussurra:
«Non ti sembra che sia l’ora di lasciarli andare in pace e pensare un po’ a noi?»
Mi abbraccia forte.
Sento mancarmi il respiro, chiudo gli occhi e dischiudo le labbra. Non importa se non abbiamo più quindici anni, ci baciamo a lungo e le lancette girano all’indietro rincorrendo il tempo perduto.
«Ti amo, Gioani’. Ti ho sempre amata, perché non mi sposi?»
Mi stacco da lui. Il pensiero di mia madre in quello stato è come una nuvola carica di pioggia che oscura l’orizzonte.
Francesco mi legge nello sguardo. Cerca la mia la mano: «Ti aiuterò a occuparti di Rosa, tanto di figli non ne possiamo più avere, quindi che problema c’è?»
Sorrido. Ho sempre amato la sua ironia.
Il trabocco è come la nostra storia: fragile in apparenza, ma così forte da resistere alla furia del mare e del tempo.
«Sì…» È l’unica parola che riesco a dirgli prima di coprirlo di baci.
Chi l’ha detto che il tempo non torna più?