[MI180] Una brava persona
Posted: Mon Mar 11, 2024 8:44 pm
Traccia 1 “Bene o male”
Una brava persona
Avevo otto anni quando misi il primo chiodo su una suola: mio padre mi fece risuolare le sue scarpe per insegnarmi il mestiere. Zoppicò per una settimana perché non lo avevo ribattuto bene, ma non mi punì.
Da allora ho aggiustato le scarpe a tanta gente e ho perso la vista a furia di stare col capo chino a bucare il cuoio. Ormai sono anziano, ma le mie mani sanno lavorare bene anche al buio, me lo diceva sempre la mia povera Roksana.
È per questa particolare abilità che i nazi mi lasciano in pace: un vecchio calzolaio cieco è più utile che pericoloso.
Tutto iniziò un giorno di primavera. Sedevo davanti alla porta di casa e stavo riparando le scarpe della piccola Marika, la mia nipotina, quando sentii il ritmico tambureggiare sul selciato di una persona che si avvicinava. Mi colpì percepire, tra un passo e l’altro, una nota stonata. Non era il solito scricchiolio della pelle delle calzature che si contorce sotto il peso di un corpo robusto, sembrava più simile a un piccolo schiocco, una battuta di mani. Non dovetti impegnarmi troppo per riconoscere il tipico ciabattare di una suola che si stava staccando dalla tomaia. L’uomo che indossava quelle calzature di sicuro rischiava di ferirsi i piedi a ogni passo o d'inciampare e cadere.
«Pavel Toman?» mi chiese lo sconosciuto, quando fu vicino, con un marcato accento tedesco.
Mia figlia Agniezska rispose per me. «Sì, perché lo cerca?»
«È lui il calzolaio?» chiese ancora lui.
Qualcuno doveva avergli parlato di me, del resto non c’erano altri calzolai da queste parti.
«Mio padre è cieco» gli rispose secca Agniezska.
L’uomo mi strappò di mano la scarpa che stavo riparando: «E questa, allora?»
Impietrito, io non riuscivo ad articolare parola.
Sentii il tremito nella voce di mia figlia: «Cosa vuole da lui?»
Deve averle mostrato la suola aperta degli stivali.
Lei sospirò: «Va bene. Mi aiuti ad accompagnarlo in casa.»
Mi sentii prendere sotto le ascelle e sollevare di peso dalla sedia. Lo sconosciuto doveva essere più grosso di quanto avessi immaginato. Non sono storpio, avrei potuto camminare benissimo da solo e invece sentivo le gambe penzolare giù dalla rotondità della pancia alcolica del militare.
L’uomo ansimava come un treno a vapore in salita, potevo sentire gli sbuffi del suo alito fetido scompigliarmi i capelli. Una volta dentro, mi depose come un sacco sullo sgabello e sedette di fronte a me. A giudicare dal lamentarsi della sedia, giudicai che doveva pesare almeno cento chili.
«Tieni, vecchio!»
Il soldato mi mise in mano uno stivale rotto e maleodorante e attese che terminassi il lavoro.
Mi ci volle una buona mezz’ora, ma il porco andò via soddisfatto. In breve tempo la mia fama crebbe a dismisura.
Non avrei mai immaginato di dover lavorare per i soldati del Reich, ma mi dissero che se li avessi serviti bene, loro avrebbero lasciato in pace la mia famiglia.
Bugiardi.
La nostra è una piccola casa, oltre a alla cucina c’è soltanto la camera da letto e un minuscolo ripostiglio; il bagno si trova all'esterno. Le stanze sono separate da un corridoio stretto, senza finestre, nel quale, da qualche tempo, ho allestito il mio laboratorio.
Conosco ogni centimetro di queste mura e riesco a muovermi agevolmente nonostante la mia invalidità.
Accendere la stufa non è così difficile, mia figlia è molto ordinata e tutto si trova al proprio posto facilitandomi il compito.
Cavolo e patate si trovano ancora al mercato, per fortuna. In breve, l’odore della bramboračka si diffonde nella stanza. Il lento sobbollire della zuppa fa da eco ai miei ricordi.
“Doddo, viedi a maggiare!”
Marika era un fiorellino. La sua vocetta buffa mi risuona ancora nella testa… Si turava sempre le narici quando mi veniva a chiamare per la cena. Aveva ragione: nel corridoio c’è proprio un gran fetore.
Un bussare insistente mi distoglie dai pensieri.
Raggiungo a tentoni la porta e l'apro. Li riconosco dalla puzza, i maiali della Waffen SS: sanno di acqua di colonia, un odore che mi dà il voltastomaco.
È lo stesso che ammorbava l'aria quel giorno maledetto. C’era troppo silenzio nella stanza.
Agniezska tremava tutta quando mi mise in mano la piccola scarpa.
“Dov’è la bambina?” le chiesi.
“L’hanno presa…l’hanno presa…” riuscì a dire con un filo di voce.
Non l’abbiamo più vista da allora. Aveva solo sei anni, la nostra Marika.
Tiro su col naso. Ho esaurito le lacrime.
«Heil Hitler!»
Il soldato entra da padrone. Non posso vedergli i piedi, ma sono sicuro che gli stivali siano sporchi come la sua anima. Si può imparare molto di un uomo dalle sue scarpe.
Gli faccio cenno di seguirmi nel corridoio.
Lo sento imprecare quando inciampa sullo sgabello, e solo allora premo l’interruttore della luce.
Il maiale dev’essere finito col culo per terra: se dessi retta al mio istinto gli darei subito una martellata in testa, oppure gli pianterei un chiodo in mezzo alla fronte, ma non è il momento.
L’uomo inizia a tossire. Non è per gli stomaci deboli la puzza che impregna l’aria qui dentro.
«Non ci sono finestre, mein Herr» mi schermisco.
Hauptsturmführer, il capitano Müller, per le riparazioni mi rifornisce di una colla in lattice di gomma di caucciù, un potente adesivo creato appositamente per le calzature dei militari, così mi ha detto.
Apro il barattolo e le esalazioni, subdole, saturano in fretta l’ambiente; in un primo momento ti rendono euforico come se ti fossi ubriacato e poi, in un attimo, ti stendono… Io ne so qualcosa, la notte che hanno preso Marika non mi sono accorto di nulla: avevo maneggiato tutto il giorno quella porcheria, ma ormai ci ho fatto l’abitudine.
«Cos’è questo odore?»
«Un prodotto speciale, mein Herr, me lo fornisce Hauptsturmführer Müller in persona.»
Gli porgo il vasetto. L’uomo ha le mani morbide come un neonato e le dita affusolate. Sono certo che abbia le unghie pulite e limate come una signora dell’alta società.
Dopo aver sniffato avidamente la colla, il militare si toglie gli stivali, allunga le gambe sullo sgabello liberandosi di una scoreggia micidiale e mi strilla: «Schnell!» con la voce già impastata, ma, per certe cose, non ci vuole fretta.
Lavoro con misurata lentezza, fino a quando sento il suo respiro rallentare il ritmo.
«Ho finito, mein Herr. Sono tornati come nuovi.»
Lui si alza, lo sento barcollare e sbattere da una parte all’altra della parete. È potente la colla del capitano Müller.
Semenze, forbici, spazzole, lesine, trincetto... tasto dappertutto ma non riesco a trovare il punteruolo. Mi chino per ispezionare palmo a palmo il pavimento. Sospiro di sollievo quando mi pungo le dita. Ecco dove ti eri nascosto…
«Tutto bene, mein Herr?» chiedo gentile.
Il maiale grugnisce una risposta senza senso e inizia a ridere come una gallina strozzata. Prima di stramazzare al suolo mi afferra una caviglia e gli rovino addosso. Ride ancora quando lo sorprendo conficcandogli il punteruolo nella gola. Più e più volte, senza fermarmi, fino all’ultimo sussulto. Mi pulisco le mani sul tessuto ruvido della sua divisa e mi accascio ansimante sul pavimento accanto a lui; attendo qualche istante per riprendere il fiato e terminare il lavoro.
Cerco le forbici, mi chino di nuovo sul cadavere e lo tasto dappertutto fino a quando sento sotto il tessuto umido la consistenza molliccia del suo sesso. Il porco deve essersi pisciato addosso. Gli sbottono i pantaloni quel tanto che serve per tirargli fuori il membro. È così flaccido che si taglia come il burro. Lo metto sul tavolino accanto agli attrezzi; poi, gli sfilo gli stivali e li indosso. Mi vanno un po’ grandi, ma conservano ancora il tepore del corpo del proprietario: con questi ai piedi posso prenderlo a calci e farlo rotolare fino in fondo al corridoio senza troppa fatica. Poi, una volta fatto il servizio, li tolgo e li butto nel mucchio insieme agli altri da riparare.
Cerco lo sgabello, ci salgo sopra e tasto la parete allungandomi fino a incontrare il bulbo pendente della lampadina. È calda da scottarmi le dita, ma devo svitarla: meglio essere prudenti, qualcuno potrebbe venire a cercare il porco e non deve vederlo.
Mia figlia esce dalla camera in cui si era rinchiusa e, senza dire una parola, mi pulisce il viso con un panno umido e mi porge una camicia pulita.
«Datti anche una bella pulita alle mani prima di indossarla, papà.»
Mi fa soffrire sapere che è lì. Non avrei mai pensato che un giorno potesse vedermi così. Non avrei mai creduto di diventare così.
«Non dovresti stare qui, Agnieszka.»
Il mio vecchio cuore piano piano ritrova il proprio battito regolare. Non so quanto tempo sia trascorso quando sento di nuovo bussare con insistenza. Con violenza. Il rumore è molto forte: sembra che stiano usando il calcio di un fucile.
«Apri subito la porta, schnell!»
Trattengo il respiro.
I ricordi sono compagni comodi, a volte.
“Ancora cavolo e patate, papà. Chissà quando potremo aggiungerci un po’ di carne…”
Per me la zuppa era saporita anche così, a me la carne non mancava affatto, ma alla piccola Marika avrebbe fatto bene mangiarne ogni tanto, aveva ragione Agniezska.
«Einen Moment, bitte.»
Solo il tempo di aggiungere un ingrediente alla zuppa.
Appena apro la porta, il capitano Müller entra come una furia e mi strattona:
«Dov’è?»
«Chi? Io sto per mettermi a tavola… Vuole favorire della bramboračka, mein Kapitän?»
«Vecchio stupido…» dice tra i denti.
Il capitano molla la presa, lo sento dirigersi verso il corridoio e premere nervosamente l’interruttore.
«Non c’è luce!»
Allargo le braccia: «A me non serve. Deve essersi bruciata la lampadina, mi dispiace mein Kapitän.»
«Ho mandato qui uno dei miei, stamani. Non è ancora tornato.»
«Non è venuto nessuno da me oggi, mein Kapitän.»
Müller resta in silenzio, sembra quasi convinto, quando, all’improvviso, si avventa su di me stringendomi il collo fino a togliermi il respiro. Boccheggio come un pesce appeso all’amo.
Mi lascia cadere a terra, mi sferra un calcio poderoso e mi mette in mano qualcosa di rigido: riconosco la tesa di un cappello della Waffen SS. Il militare deve averlo appoggiato sul tavolo di cucina quando è entrato. Non potevo saperlo.
«Dove. Si. Trova. Il. Mio. Uomo?» mi urla in faccia Müller.
Sento gli spilli salire dallo stomaco fino al cervello. «Ecco, mein Kapitän, - ehm - il suo uomo si è trattenuto un po’ con mia figlia Agniezska. Forse ha dimenticato il cappello per la fretta quando è uscito.»
«Idiot!»
«Davvero non vuole assaggiare un po’ di zuppa?» dico la frase a voce alta.
Agniezska mi capisce al volo, sento il suo passo lieve incedere in cucina. Profuma di cipria: dev'essersi truccata.
«La prego, Kapitän, signore, si sieda a tavola con noi» la sua voce d’angelo è un invito al piacere.
Quando era piccola, mia figlia aveva i capelli d’oro e uno sguardo profondo e vivo. Posso immaginare che, nonostante le prove della vita, sia ancora una donna molto attraente.
Müller cede. Si siede a tavola.
Quanto pagherei per vedere la piccola salsiccia galleggiare nel piatto del nostro ospite. Dai mugolii sembra apprezzare molto il cibo.
«Digli al vecchio di togliersi dai piedi» lo sento biascicare lascivo.
Sento le guance prendermi fuoco. Quello di Agniezska è un gioco pericoloso.
Qualcuno bussa di nuovo alla nostra porta.
«Heil Hitler!» Il militare batte i tacchi «Kapitän Müller, c’è stato un attacco alla stazione radio…»
«Scheiße!» Lo sento uscire imprecando.
Forse non tornerà più a cercare il suo soldato.
Chiudo a chiave la porta.
In fondo al corridoio c’è un cadavere che sta marcendo, Agniezska gli toglierà la divisa e lo vestirà con degli abiti che appartenevano al suo povero Milan.
Chi può distinguere un morto tedesco da uno cecoslovacco?
È soltanto un’altra vittima della guerra e io non sono che un vecchio, innocuo, calzolaio non vedente. Una brava persona.
Una brava persona
Avevo otto anni quando misi il primo chiodo su una suola: mio padre mi fece risuolare le sue scarpe per insegnarmi il mestiere. Zoppicò per una settimana perché non lo avevo ribattuto bene, ma non mi punì.
Da allora ho aggiustato le scarpe a tanta gente e ho perso la vista a furia di stare col capo chino a bucare il cuoio. Ormai sono anziano, ma le mie mani sanno lavorare bene anche al buio, me lo diceva sempre la mia povera Roksana.
È per questa particolare abilità che i nazi mi lasciano in pace: un vecchio calzolaio cieco è più utile che pericoloso.
Tutto iniziò un giorno di primavera. Sedevo davanti alla porta di casa e stavo riparando le scarpe della piccola Marika, la mia nipotina, quando sentii il ritmico tambureggiare sul selciato di una persona che si avvicinava. Mi colpì percepire, tra un passo e l’altro, una nota stonata. Non era il solito scricchiolio della pelle delle calzature che si contorce sotto il peso di un corpo robusto, sembrava più simile a un piccolo schiocco, una battuta di mani. Non dovetti impegnarmi troppo per riconoscere il tipico ciabattare di una suola che si stava staccando dalla tomaia. L’uomo che indossava quelle calzature di sicuro rischiava di ferirsi i piedi a ogni passo o d'inciampare e cadere.
«Pavel Toman?» mi chiese lo sconosciuto, quando fu vicino, con un marcato accento tedesco.
Mia figlia Agniezska rispose per me. «Sì, perché lo cerca?»
«È lui il calzolaio?» chiese ancora lui.
Qualcuno doveva avergli parlato di me, del resto non c’erano altri calzolai da queste parti.
«Mio padre è cieco» gli rispose secca Agniezska.
L’uomo mi strappò di mano la scarpa che stavo riparando: «E questa, allora?»
Impietrito, io non riuscivo ad articolare parola.
Sentii il tremito nella voce di mia figlia: «Cosa vuole da lui?»
Deve averle mostrato la suola aperta degli stivali.
Lei sospirò: «Va bene. Mi aiuti ad accompagnarlo in casa.»
Mi sentii prendere sotto le ascelle e sollevare di peso dalla sedia. Lo sconosciuto doveva essere più grosso di quanto avessi immaginato. Non sono storpio, avrei potuto camminare benissimo da solo e invece sentivo le gambe penzolare giù dalla rotondità della pancia alcolica del militare.
L’uomo ansimava come un treno a vapore in salita, potevo sentire gli sbuffi del suo alito fetido scompigliarmi i capelli. Una volta dentro, mi depose come un sacco sullo sgabello e sedette di fronte a me. A giudicare dal lamentarsi della sedia, giudicai che doveva pesare almeno cento chili.
«Tieni, vecchio!»
Il soldato mi mise in mano uno stivale rotto e maleodorante e attese che terminassi il lavoro.
Mi ci volle una buona mezz’ora, ma il porco andò via soddisfatto. In breve tempo la mia fama crebbe a dismisura.
Non avrei mai immaginato di dover lavorare per i soldati del Reich, ma mi dissero che se li avessi serviti bene, loro avrebbero lasciato in pace la mia famiglia.
Bugiardi.
La nostra è una piccola casa, oltre a alla cucina c’è soltanto la camera da letto e un minuscolo ripostiglio; il bagno si trova all'esterno. Le stanze sono separate da un corridoio stretto, senza finestre, nel quale, da qualche tempo, ho allestito il mio laboratorio.
Conosco ogni centimetro di queste mura e riesco a muovermi agevolmente nonostante la mia invalidità.
Accendere la stufa non è così difficile, mia figlia è molto ordinata e tutto si trova al proprio posto facilitandomi il compito.
Cavolo e patate si trovano ancora al mercato, per fortuna. In breve, l’odore della bramboračka si diffonde nella stanza. Il lento sobbollire della zuppa fa da eco ai miei ricordi.
“Doddo, viedi a maggiare!”
Marika era un fiorellino. La sua vocetta buffa mi risuona ancora nella testa… Si turava sempre le narici quando mi veniva a chiamare per la cena. Aveva ragione: nel corridoio c’è proprio un gran fetore.
Un bussare insistente mi distoglie dai pensieri.
Raggiungo a tentoni la porta e l'apro. Li riconosco dalla puzza, i maiali della Waffen SS: sanno di acqua di colonia, un odore che mi dà il voltastomaco.
È lo stesso che ammorbava l'aria quel giorno maledetto. C’era troppo silenzio nella stanza.
Agniezska tremava tutta quando mi mise in mano la piccola scarpa.
“Dov’è la bambina?” le chiesi.
“L’hanno presa…l’hanno presa…” riuscì a dire con un filo di voce.
Non l’abbiamo più vista da allora. Aveva solo sei anni, la nostra Marika.
Tiro su col naso. Ho esaurito le lacrime.
«Heil Hitler!»
Il soldato entra da padrone. Non posso vedergli i piedi, ma sono sicuro che gli stivali siano sporchi come la sua anima. Si può imparare molto di un uomo dalle sue scarpe.
Gli faccio cenno di seguirmi nel corridoio.
Lo sento imprecare quando inciampa sullo sgabello, e solo allora premo l’interruttore della luce.
Il maiale dev’essere finito col culo per terra: se dessi retta al mio istinto gli darei subito una martellata in testa, oppure gli pianterei un chiodo in mezzo alla fronte, ma non è il momento.
L’uomo inizia a tossire. Non è per gli stomaci deboli la puzza che impregna l’aria qui dentro.
«Non ci sono finestre, mein Herr» mi schermisco.
Hauptsturmführer, il capitano Müller, per le riparazioni mi rifornisce di una colla in lattice di gomma di caucciù, un potente adesivo creato appositamente per le calzature dei militari, così mi ha detto.
Apro il barattolo e le esalazioni, subdole, saturano in fretta l’ambiente; in un primo momento ti rendono euforico come se ti fossi ubriacato e poi, in un attimo, ti stendono… Io ne so qualcosa, la notte che hanno preso Marika non mi sono accorto di nulla: avevo maneggiato tutto il giorno quella porcheria, ma ormai ci ho fatto l’abitudine.
«Cos’è questo odore?»
«Un prodotto speciale, mein Herr, me lo fornisce Hauptsturmführer Müller in persona.»
Gli porgo il vasetto. L’uomo ha le mani morbide come un neonato e le dita affusolate. Sono certo che abbia le unghie pulite e limate come una signora dell’alta società.
Dopo aver sniffato avidamente la colla, il militare si toglie gli stivali, allunga le gambe sullo sgabello liberandosi di una scoreggia micidiale e mi strilla: «Schnell!» con la voce già impastata, ma, per certe cose, non ci vuole fretta.
Lavoro con misurata lentezza, fino a quando sento il suo respiro rallentare il ritmo.
«Ho finito, mein Herr. Sono tornati come nuovi.»
Lui si alza, lo sento barcollare e sbattere da una parte all’altra della parete. È potente la colla del capitano Müller.
Semenze, forbici, spazzole, lesine, trincetto... tasto dappertutto ma non riesco a trovare il punteruolo. Mi chino per ispezionare palmo a palmo il pavimento. Sospiro di sollievo quando mi pungo le dita. Ecco dove ti eri nascosto…
«Tutto bene, mein Herr?» chiedo gentile.
Il maiale grugnisce una risposta senza senso e inizia a ridere come una gallina strozzata. Prima di stramazzare al suolo mi afferra una caviglia e gli rovino addosso. Ride ancora quando lo sorprendo conficcandogli il punteruolo nella gola. Più e più volte, senza fermarmi, fino all’ultimo sussulto. Mi pulisco le mani sul tessuto ruvido della sua divisa e mi accascio ansimante sul pavimento accanto a lui; attendo qualche istante per riprendere il fiato e terminare il lavoro.
Cerco le forbici, mi chino di nuovo sul cadavere e lo tasto dappertutto fino a quando sento sotto il tessuto umido la consistenza molliccia del suo sesso. Il porco deve essersi pisciato addosso. Gli sbottono i pantaloni quel tanto che serve per tirargli fuori il membro. È così flaccido che si taglia come il burro. Lo metto sul tavolino accanto agli attrezzi; poi, gli sfilo gli stivali e li indosso. Mi vanno un po’ grandi, ma conservano ancora il tepore del corpo del proprietario: con questi ai piedi posso prenderlo a calci e farlo rotolare fino in fondo al corridoio senza troppa fatica. Poi, una volta fatto il servizio, li tolgo e li butto nel mucchio insieme agli altri da riparare.
Cerco lo sgabello, ci salgo sopra e tasto la parete allungandomi fino a incontrare il bulbo pendente della lampadina. È calda da scottarmi le dita, ma devo svitarla: meglio essere prudenti, qualcuno potrebbe venire a cercare il porco e non deve vederlo.
Mia figlia esce dalla camera in cui si era rinchiusa e, senza dire una parola, mi pulisce il viso con un panno umido e mi porge una camicia pulita.
«Datti anche una bella pulita alle mani prima di indossarla, papà.»
Mi fa soffrire sapere che è lì. Non avrei mai pensato che un giorno potesse vedermi così. Non avrei mai creduto di diventare così.
«Non dovresti stare qui, Agnieszka.»
Il mio vecchio cuore piano piano ritrova il proprio battito regolare. Non so quanto tempo sia trascorso quando sento di nuovo bussare con insistenza. Con violenza. Il rumore è molto forte: sembra che stiano usando il calcio di un fucile.
«Apri subito la porta, schnell!»
Trattengo il respiro.
I ricordi sono compagni comodi, a volte.
“Ancora cavolo e patate, papà. Chissà quando potremo aggiungerci un po’ di carne…”
Per me la zuppa era saporita anche così, a me la carne non mancava affatto, ma alla piccola Marika avrebbe fatto bene mangiarne ogni tanto, aveva ragione Agniezska.
«Einen Moment, bitte.»
Solo il tempo di aggiungere un ingrediente alla zuppa.
Appena apro la porta, il capitano Müller entra come una furia e mi strattona:
«Dov’è?»
«Chi? Io sto per mettermi a tavola… Vuole favorire della bramboračka, mein Kapitän?»
«Vecchio stupido…» dice tra i denti.
Il capitano molla la presa, lo sento dirigersi verso il corridoio e premere nervosamente l’interruttore.
«Non c’è luce!»
Allargo le braccia: «A me non serve. Deve essersi bruciata la lampadina, mi dispiace mein Kapitän.»
«Ho mandato qui uno dei miei, stamani. Non è ancora tornato.»
«Non è venuto nessuno da me oggi, mein Kapitän.»
Müller resta in silenzio, sembra quasi convinto, quando, all’improvviso, si avventa su di me stringendomi il collo fino a togliermi il respiro. Boccheggio come un pesce appeso all’amo.
Mi lascia cadere a terra, mi sferra un calcio poderoso e mi mette in mano qualcosa di rigido: riconosco la tesa di un cappello della Waffen SS. Il militare deve averlo appoggiato sul tavolo di cucina quando è entrato. Non potevo saperlo.
«Dove. Si. Trova. Il. Mio. Uomo?» mi urla in faccia Müller.
Sento gli spilli salire dallo stomaco fino al cervello. «Ecco, mein Kapitän, - ehm - il suo uomo si è trattenuto un po’ con mia figlia Agniezska. Forse ha dimenticato il cappello per la fretta quando è uscito.»
«Idiot!»
«Davvero non vuole assaggiare un po’ di zuppa?» dico la frase a voce alta.
Agniezska mi capisce al volo, sento il suo passo lieve incedere in cucina. Profuma di cipria: dev'essersi truccata.
«La prego, Kapitän, signore, si sieda a tavola con noi» la sua voce d’angelo è un invito al piacere.
Quando era piccola, mia figlia aveva i capelli d’oro e uno sguardo profondo e vivo. Posso immaginare che, nonostante le prove della vita, sia ancora una donna molto attraente.
Müller cede. Si siede a tavola.
Quanto pagherei per vedere la piccola salsiccia galleggiare nel piatto del nostro ospite. Dai mugolii sembra apprezzare molto il cibo.
«Digli al vecchio di togliersi dai piedi» lo sento biascicare lascivo.
Sento le guance prendermi fuoco. Quello di Agniezska è un gioco pericoloso.
Qualcuno bussa di nuovo alla nostra porta.
«Heil Hitler!» Il militare batte i tacchi «Kapitän Müller, c’è stato un attacco alla stazione radio…»
«Scheiße!» Lo sento uscire imprecando.
Forse non tornerà più a cercare il suo soldato.
Chiudo a chiave la porta.
In fondo al corridoio c’è un cadavere che sta marcendo, Agniezska gli toglierà la divisa e lo vestirà con degli abiti che appartenevano al suo povero Milan.
Chi può distinguere un morto tedesco da uno cecoslovacco?
È soltanto un’altra vittima della guerra e io non sono che un vecchio, innocuo, calzolaio non vedente. Una brava persona.