[CC24] Uno di quelli che indossano la maschera
Posted: Sun Feb 18, 2024 10:40 pm
Traccia 6. "Chi c'è dietro la maschera?"
Uno di quelli che indossano la maschera
È un attimo diventare uno di quelli che. Prima sei un bambino che potrebbe essere qualsiasi cosa, l’istante dopo sei uno di quelli che sono stati. Uno di quelli che hanno studiato, uno di quelli che hanno avuto successo, uno di quelli che non ce l’hanno fatta. Uno di quelli che muoiono investiti da un tir, uno di quelli che si suicidano. Uno di quelli che hanno una felice vita di coppia, uno di quelli che si friggono il cervello con mix di droghe. Uno di quelli che costruiscono casa e famiglia, uno di quelli che manco ce l’hanno una casa. Uno di quelli razionali, uno di quelli religiosi, uno di quelli che credono al sovrannaturale, uno di quelli che sgozzano le capre per invocare divinità innominabili. Non importa chi sei, non puoi scappare dal diventare uno di quelli che, e smettere di essere una sfera di energia incontaminata. Guarda me.
Questa metropolitana mi sta soffocando, la folla mi sta soffocando. Io voglio andare a letto con la ragazza davanti a me, voglio piangere fino a non respirare mai più e poi dimenticarmi perché ho pianto ed essere felice, voglio leccare questa maniglia sporca, voglio sbattere sulla leva di emergenza il cranio di questo signore elegante fino a vedere solo una polpa rossa e insensata, e poi voglio dare fuoco alle vecchie. Se solo indossassi la maschera dell’assassino. Voglio vestirmi da donna e tingermi i capelli dei colori dell’arcobaleno e scopare uomini d’affari fino a togliere loro il fiato, e rubare i loro soldi, e rubare loro alle mogli, quelle mogli perfette che sono state tradite per un frocio. Volevo solo essere felice con lei.
Scoppio a ridere, la gente mi guarda, poi distoglie gli occhi quando vede che li sostengo. Cosa pensano di me? Cosa penserebbero se fossi vestito in un altro modo, se avessi un altro taglio di capelli, se avessi un altro sguardo, se fossi una bella ragazza? Ma no, è ovvio cosa pensano: che io sia uno di quelli che ride da solo in pubblico perché sente le voci. Non ne posso più. Indossare la maschera mi renderebbe diverso da loro e come loro allo stesso tempo, come una scatola con un gatto vivo e morto; perché non ne ho una con me? Dovevo portarne una al lavoro. Dovevo fermarmi a comprarne una. Se solo avessi una maschera, potrei mostrare chi sono davvero, potrei uccidere tutti quanti qui dentro. Vorrei strappare il loro volto, per far sì che anche a loro resti solo la maschera.
La scrittura è un po’ come una maschera, ed è per questo che scrivo. Ma chi c’è dietro? Non c’è una risposta semplice come “io”, perché a quel punto dovrei chiedermi chi sono, e si aprirebbero squarci nel fragile tessuto della realtà. Fragile. Anche l’assassino me l’aveva detto. Indossava una di quelle maschere della serie tv “Mr Robot”, con i baffi e il sorriso beffardo. Quella sera volevo uccidere, le voci in testa me l’avevano chiesto e io mi ero abbandonato ad ascoltarle, ma invece ho trovato lui. Sei fragile se pensi di non avere bisogno di nessuno, mi ha detto l’assassino. Sei un ipocrita se pensi di uccidere per il bene comune, gli ho detto io. Non so come ha reagito, la maschera è rimasta impassibile, ed è in quel momento che l’ho invidiata. Non ho mai saputo chi fosse dietro, ma aveva importanza? Lui era quello, e soprattutto non era uno di quelli che.
Ho sempre odiato questa città. Pensavo già da un po’ a uccidere i poliziotti e sporcare di rosso quel loro ridicolo vestito blu, una maschera di carnevale di cattivo gusto. A volte sogno che tutti siano morti e io sia l’unico rimasto a camminare tra le strade finalmente silenziose. Altre volte sogno che le strade siano inondate da una festa talmente grande da non poter udire neanche i propri pensieri. Il più delle volte, però, non dormo affatto, le voci in testa non me lo concedono. Solo lo scrosciare della pioggia è abbastanza forte da coprirle.
Ma la notte in cui ho incontrato l’assassino, nonostante piovesse, non avevo preso sonno. Chiudo gli occhi mentre ascolto musica in metro, passato e futuro si mischiano nelle mie visioni. Avevo la coperta tirata fin sopra al naso. Poi una vampata di caldo e l’ho tirata giù fino ai piedi; poco dopo ho avuto di nuovo freddo, mi sono riavvolto e alzato. Mi sono avvicinato alla finestra, trascinandomi la coperta dietro. Le voci mi dicevano di uccidere, volevo uccidere. La pioggia ticchettava sul vetro e le goccioline si inseguivano e si fondevano come orribili corpi innamorati. Ho sentito il bisogno di prendere una boccata d’aria.
Ho messo il giubbotto sopra al pigiama e sono uscito di casa. Le gocce picchiavano con insistenza sul cappuccio, ero sudato. Una canna tra le labbra, mi sono incamminato senza una meta precisa. Chissà, forse avrei trovato ancora qualche prostituta, ormai mi conoscevano. Volevo scopare, e forse volevo qualcosa di più, volevo essere amato. Volevo essere desiderata e scopata come una modella, ma non va così, e allora tanto vale che io faccio loro del male, immaginando che sia qualcun altro a farlo a me. Avevo visto un’auto della polizia, accostata a bordo strada.
Mi sentivo in colpa perché mancava poco alla sveglia che il giorno dopo mi avrebbe ricordato di andare al lavoro, e avrei dovuto dormire da bravo e vivere la mia vita normale da bravo, invece di buttare la notte a drogarmi e scopare. No? In fondo la notte è fatta per dormire e dimenticare cosa si è sognato, sia mai che l’irrazionalità dell’altro mondo metta in dubbio le regole di questo. Volevo scappare. Anche adesso voglio scappare, uscire da questo metro. Vorrei solo un po’ di pace e tranquillità, ed è in momenti come questi che le voci mi chiedono di uccidere. Ma come potrei? Io non sono uno di quelli che uccidono.
Mi sentivo lo sguardo dei poliziotti addosso. Volevo solo tirarli giù e farli a pezzi. Mi avrebbero supplicato, ma io non li avrei ascoltati. Erano scesi in due, chissà, forse volevano interrogarmi perché sembro sospetto, forse volevano scoparmi perché con questi capelli sembro una ragazza, forse volevano accertarsi che stessi bene. Io volevo solo ammazzarli, ma non avevo un’arma; sarei riuscito ad ammazzarne a mani nude almeno uno, prima di essere freddato dall’altro? Non importava, avevo trovato me stesso e dovevo subito seguire l’istinto.
Loro però non guardavano me, stava succedendo dell’altro. Non hanno fatto in tempo ad aprire la bocca: la lama dell’assassino mascherato li ha uccisi in modo rapido, silenzioso. È rimasto a lungo a guardarmi, immobile, l’arma in mano. Me l’ero fatta nei pantaloni, non avevo mai visto tanto sangue. Mi ha detto di non raccontare nulla, e io ho giurato, ma come potrei? Sono uno scrittore, dopotutto. Se dovesse uccidermi farebbe solo un favore al mondo. Non so perché mi abbia risparmiato, forse perché ha visto la luce nei miei occhi e ha capito che ero come lui, che anche io primo poi sarei stato uno di quelli che uccide, uno di quelli che si toglie le maschere per indossare la maschera. Ma non credo che lui sentisse voci.
Non era la prima volta che uccideva, e non sarebbe stata l’ultima. Lo faceva per il bene altrui, diceva. Palle. Stava solo negando la verità profonda che connette ogni cosa. Siamo tutti uno, connessi, e quando uccidi, stai solo cambiando forma alla realtà e rimodellando te stesso: è come masturbarsi. Stai dando un calcio a un’onda che comunque, prima o poi, si infrangerebbe per tornare al mare. Ci siamo passati tutti, non c’è niente di male, è il destino che lo impone e la tua mano non fa altro che seguirlo. L’empatia e i cicli di rinascite ci dicono che siamo tutti uno, quindi tu sei anche questo, lo sei stato o prima o poi lo sarai, non vergognartene. Ogni infimo pensiero di qualsiasi essere umano è fibra fondamentale della tua stessa essenza, non rinnegarlo.
Io mi sbagliavo: non so dove sarei, ora, senza di lui. So che non ce l’avrei fatta, da solo. So che, forse, mi serve davvero aiuto. Quella sera, l’assassino mi aveva salvato prima che fossi io a fare qualcosa di stupido. E adesso, allora, dov’è? Mi sento male, in mezzo a tutta questa gente, ma non ho una maschera. Lo sanno tutti che ci sono io, dietro, ma non posso farlo senza indossarla. O forse sì? Forse potrei uccidere tutti, comunque? Forse ho il coraggio? Gli occhi arrossati e le lacrime che affiorano mi dicono che no, io non sono la maschera. Fosse un racconto avrei imparato la lezione, ma nella vita vera gli archi di evoluzione crollano a volte, e io cerco ancora forza nella solitudine, e sono ancora fragile.
Nonostante tutto, ho ancora fiducia nel fatto che, prima o poi, vi verrò a cercare e vi farò a pezzi tutti, uno ad uno. Domani compro una maschera e ammazzo una persona, sì. Pianto un coltello nel petto di un passante e scappo, e torno alla mia normale vita d’ufficio fatta di piccole scadenze e banalità. Perché no? “Perché no”, sul serio? No. Forse posso ancora andarmene prima che sia troppo tardi e faccia qualcosa di irrimediabile, posso andare là dove chi sente voci e vede cose è accolto, non a farmi curare, no, ma a giocare con i demoni e gli animali allo stesso modo, lontano, dove non ci sono responsabilità e nulla scorre e nulla si esaurisce e tutto è come dovrebbe essere senza il minimo sforzo, al confine tra qui e là. Ma ho idea che sia uno stato mio, e il movimento non è di alcun muscolo. E poi è bello che tutto scorra, no? Questa è solo paranoia e sì, sono qui, ma non sono questo. Potrei esserlo, e la mia vita avrebbe comunque lo stesso valore della tua: l’assassino, la maschera, uno sciamano, un umano, te, uno di quelli che: non importa: non lo sono. Ma allora perché scrivo? Posso restare una sfera di energia senza forma?
Uno di quelli che indossano la maschera
È un attimo diventare uno di quelli che. Prima sei un bambino che potrebbe essere qualsiasi cosa, l’istante dopo sei uno di quelli che sono stati. Uno di quelli che hanno studiato, uno di quelli che hanno avuto successo, uno di quelli che non ce l’hanno fatta. Uno di quelli che muoiono investiti da un tir, uno di quelli che si suicidano. Uno di quelli che hanno una felice vita di coppia, uno di quelli che si friggono il cervello con mix di droghe. Uno di quelli che costruiscono casa e famiglia, uno di quelli che manco ce l’hanno una casa. Uno di quelli razionali, uno di quelli religiosi, uno di quelli che credono al sovrannaturale, uno di quelli che sgozzano le capre per invocare divinità innominabili. Non importa chi sei, non puoi scappare dal diventare uno di quelli che, e smettere di essere una sfera di energia incontaminata. Guarda me.
Questa metropolitana mi sta soffocando, la folla mi sta soffocando. Io voglio andare a letto con la ragazza davanti a me, voglio piangere fino a non respirare mai più e poi dimenticarmi perché ho pianto ed essere felice, voglio leccare questa maniglia sporca, voglio sbattere sulla leva di emergenza il cranio di questo signore elegante fino a vedere solo una polpa rossa e insensata, e poi voglio dare fuoco alle vecchie. Se solo indossassi la maschera dell’assassino. Voglio vestirmi da donna e tingermi i capelli dei colori dell’arcobaleno e scopare uomini d’affari fino a togliere loro il fiato, e rubare i loro soldi, e rubare loro alle mogli, quelle mogli perfette che sono state tradite per un frocio. Volevo solo essere felice con lei.
Scoppio a ridere, la gente mi guarda, poi distoglie gli occhi quando vede che li sostengo. Cosa pensano di me? Cosa penserebbero se fossi vestito in un altro modo, se avessi un altro taglio di capelli, se avessi un altro sguardo, se fossi una bella ragazza? Ma no, è ovvio cosa pensano: che io sia uno di quelli che ride da solo in pubblico perché sente le voci. Non ne posso più. Indossare la maschera mi renderebbe diverso da loro e come loro allo stesso tempo, come una scatola con un gatto vivo e morto; perché non ne ho una con me? Dovevo portarne una al lavoro. Dovevo fermarmi a comprarne una. Se solo avessi una maschera, potrei mostrare chi sono davvero, potrei uccidere tutti quanti qui dentro. Vorrei strappare il loro volto, per far sì che anche a loro resti solo la maschera.
La scrittura è un po’ come una maschera, ed è per questo che scrivo. Ma chi c’è dietro? Non c’è una risposta semplice come “io”, perché a quel punto dovrei chiedermi chi sono, e si aprirebbero squarci nel fragile tessuto della realtà. Fragile. Anche l’assassino me l’aveva detto. Indossava una di quelle maschere della serie tv “Mr Robot”, con i baffi e il sorriso beffardo. Quella sera volevo uccidere, le voci in testa me l’avevano chiesto e io mi ero abbandonato ad ascoltarle, ma invece ho trovato lui. Sei fragile se pensi di non avere bisogno di nessuno, mi ha detto l’assassino. Sei un ipocrita se pensi di uccidere per il bene comune, gli ho detto io. Non so come ha reagito, la maschera è rimasta impassibile, ed è in quel momento che l’ho invidiata. Non ho mai saputo chi fosse dietro, ma aveva importanza? Lui era quello, e soprattutto non era uno di quelli che.
Ho sempre odiato questa città. Pensavo già da un po’ a uccidere i poliziotti e sporcare di rosso quel loro ridicolo vestito blu, una maschera di carnevale di cattivo gusto. A volte sogno che tutti siano morti e io sia l’unico rimasto a camminare tra le strade finalmente silenziose. Altre volte sogno che le strade siano inondate da una festa talmente grande da non poter udire neanche i propri pensieri. Il più delle volte, però, non dormo affatto, le voci in testa non me lo concedono. Solo lo scrosciare della pioggia è abbastanza forte da coprirle.
Ma la notte in cui ho incontrato l’assassino, nonostante piovesse, non avevo preso sonno. Chiudo gli occhi mentre ascolto musica in metro, passato e futuro si mischiano nelle mie visioni. Avevo la coperta tirata fin sopra al naso. Poi una vampata di caldo e l’ho tirata giù fino ai piedi; poco dopo ho avuto di nuovo freddo, mi sono riavvolto e alzato. Mi sono avvicinato alla finestra, trascinandomi la coperta dietro. Le voci mi dicevano di uccidere, volevo uccidere. La pioggia ticchettava sul vetro e le goccioline si inseguivano e si fondevano come orribili corpi innamorati. Ho sentito il bisogno di prendere una boccata d’aria.
Ho messo il giubbotto sopra al pigiama e sono uscito di casa. Le gocce picchiavano con insistenza sul cappuccio, ero sudato. Una canna tra le labbra, mi sono incamminato senza una meta precisa. Chissà, forse avrei trovato ancora qualche prostituta, ormai mi conoscevano. Volevo scopare, e forse volevo qualcosa di più, volevo essere amato. Volevo essere desiderata e scopata come una modella, ma non va così, e allora tanto vale che io faccio loro del male, immaginando che sia qualcun altro a farlo a me. Avevo visto un’auto della polizia, accostata a bordo strada.
Mi sentivo in colpa perché mancava poco alla sveglia che il giorno dopo mi avrebbe ricordato di andare al lavoro, e avrei dovuto dormire da bravo e vivere la mia vita normale da bravo, invece di buttare la notte a drogarmi e scopare. No? In fondo la notte è fatta per dormire e dimenticare cosa si è sognato, sia mai che l’irrazionalità dell’altro mondo metta in dubbio le regole di questo. Volevo scappare. Anche adesso voglio scappare, uscire da questo metro. Vorrei solo un po’ di pace e tranquillità, ed è in momenti come questi che le voci mi chiedono di uccidere. Ma come potrei? Io non sono uno di quelli che uccidono.
Mi sentivo lo sguardo dei poliziotti addosso. Volevo solo tirarli giù e farli a pezzi. Mi avrebbero supplicato, ma io non li avrei ascoltati. Erano scesi in due, chissà, forse volevano interrogarmi perché sembro sospetto, forse volevano scoparmi perché con questi capelli sembro una ragazza, forse volevano accertarsi che stessi bene. Io volevo solo ammazzarli, ma non avevo un’arma; sarei riuscito ad ammazzarne a mani nude almeno uno, prima di essere freddato dall’altro? Non importava, avevo trovato me stesso e dovevo subito seguire l’istinto.
Loro però non guardavano me, stava succedendo dell’altro. Non hanno fatto in tempo ad aprire la bocca: la lama dell’assassino mascherato li ha uccisi in modo rapido, silenzioso. È rimasto a lungo a guardarmi, immobile, l’arma in mano. Me l’ero fatta nei pantaloni, non avevo mai visto tanto sangue. Mi ha detto di non raccontare nulla, e io ho giurato, ma come potrei? Sono uno scrittore, dopotutto. Se dovesse uccidermi farebbe solo un favore al mondo. Non so perché mi abbia risparmiato, forse perché ha visto la luce nei miei occhi e ha capito che ero come lui, che anche io primo poi sarei stato uno di quelli che uccide, uno di quelli che si toglie le maschere per indossare la maschera. Ma non credo che lui sentisse voci.
Non era la prima volta che uccideva, e non sarebbe stata l’ultima. Lo faceva per il bene altrui, diceva. Palle. Stava solo negando la verità profonda che connette ogni cosa. Siamo tutti uno, connessi, e quando uccidi, stai solo cambiando forma alla realtà e rimodellando te stesso: è come masturbarsi. Stai dando un calcio a un’onda che comunque, prima o poi, si infrangerebbe per tornare al mare. Ci siamo passati tutti, non c’è niente di male, è il destino che lo impone e la tua mano non fa altro che seguirlo. L’empatia e i cicli di rinascite ci dicono che siamo tutti uno, quindi tu sei anche questo, lo sei stato o prima o poi lo sarai, non vergognartene. Ogni infimo pensiero di qualsiasi essere umano è fibra fondamentale della tua stessa essenza, non rinnegarlo.
Io mi sbagliavo: non so dove sarei, ora, senza di lui. So che non ce l’avrei fatta, da solo. So che, forse, mi serve davvero aiuto. Quella sera, l’assassino mi aveva salvato prima che fossi io a fare qualcosa di stupido. E adesso, allora, dov’è? Mi sento male, in mezzo a tutta questa gente, ma non ho una maschera. Lo sanno tutti che ci sono io, dietro, ma non posso farlo senza indossarla. O forse sì? Forse potrei uccidere tutti, comunque? Forse ho il coraggio? Gli occhi arrossati e le lacrime che affiorano mi dicono che no, io non sono la maschera. Fosse un racconto avrei imparato la lezione, ma nella vita vera gli archi di evoluzione crollano a volte, e io cerco ancora forza nella solitudine, e sono ancora fragile.
Nonostante tutto, ho ancora fiducia nel fatto che, prima o poi, vi verrò a cercare e vi farò a pezzi tutti, uno ad uno. Domani compro una maschera e ammazzo una persona, sì. Pianto un coltello nel petto di un passante e scappo, e torno alla mia normale vita d’ufficio fatta di piccole scadenze e banalità. Perché no? “Perché no”, sul serio? No. Forse posso ancora andarmene prima che sia troppo tardi e faccia qualcosa di irrimediabile, posso andare là dove chi sente voci e vede cose è accolto, non a farmi curare, no, ma a giocare con i demoni e gli animali allo stesso modo, lontano, dove non ci sono responsabilità e nulla scorre e nulla si esaurisce e tutto è come dovrebbe essere senza il minimo sforzo, al confine tra qui e là. Ma ho idea che sia uno stato mio, e il movimento non è di alcun muscolo. E poi è bello che tutto scorra, no? Questa è solo paranoia e sì, sono qui, ma non sono questo. Potrei esserlo, e la mia vita avrebbe comunque lo stesso valore della tua: l’assassino, la maschera, uno sciamano, un umano, te, uno di quelli che: non importa: non lo sono. Ma allora perché scrivo? Posso restare una sfera di energia senza forma?