[CC24] Tobia da Sant'Eustachio
Inviato: dom feb 18, 2024 11:33 am
Traccia 3. "Carnevale ogni scherzo vale"
Tobia è un burlone che si diverte a fare scherzi agli amici, ma quest'anno loro hanno pensato di vendicarsi a Carnevale...
A Sant’Eustachio Tobia intinge i suoi biscotti nel latte caldo, con un leggero risucchio assorbe il latte e le briciole mollicce mentre rilegge il foglietto stropicciato, attento a non macchiarlo. È la letterina di stamattina:
“Caro Tobia,
vediamoci al mulino abbandonato la notte di San Valentino. Ti prego vieni alle 8, brucio di passione per te e ti bacerò. A.”
Nessuna firma come tutti i messaggi precedenti sparsi sul tavolo lontani dalla colazione.
Dopo aver sparecchiato, ripone le lettere e le foto in una vecchia scatola da scarpe e si avvia pensieroso verso la sua officina.
Passa davanti alla perleria, al bar, senza salutare nessuno, pensando alla serata che lo aspetta.
Certo, lui non è nato ieri, è furbo, è il maestro degli scherzi. Per cui ha annusato le letterine, le ha guardate con la lente di ingrandimento, quella che ha rubato al sindaco la volta che gli ha riempito la scrivania di rane.
Al primo biglietto trovato sotto lo zerbino, aveva risposto con un bel “Chi sei?” scritto a caratteri cubitali sul margine strappato della Gazzetta dello Sport e lasciato nello stesso posto.
Nei giorni seguenti il lembo rosa aveva continuato a spuntare dallo zerbino. Spazientito lo voleva buttare via e poi un giorno aveva trovato una risposta:
“Il nostro è un amore clandestino, non cercarmi, non contattarmi, quando sarò pronta te lo farò sapere! A.”
Aveva già scritto di più del precedente che recitava semplicemente:
“Tobia, non mi conosci, ma mi piaci da morire. A.”
Quindi questa donna leggeva i suoi messaggi e poi deponeva il proprio, e lui se l’era fatta sfuggire così?
Mentre apre il portone dell’officina si rende conto che per non sfigurare era andato all’edicola del paese che faceva anche da cartoleria e si era procurato della carta da lettere.
Enzo, che non gli aveva ancora perdonato il fatto di aver trovato la saracinesca imbullonata al marciapiede una mattina di qualche anno fa, senza battere ciglio, assieme al resto gli allungò anche una penna a sfera come omaggio della casa.
Da quel giorno iniziò una fitta corrispondenza sotto lo zerbino, tanto che Tobia si ritrovò pure a pulire il gradino davanti alla porta di casa, soprattutto dopo che lei aveva anche allegato una foto polaroid.
E che foto!
Pensa a quella immagine mentre si cambia. Una spalla tagliata dalla fettuccina di un reggiseno. Da come affondava nella carne dava l’idea di reggere un enorme peso, uno di quei pesi di cui Tobia fantasticava nelle sue notti solitarie. Glielo diceva sempre sua mamma che doveva mettere la testa a posto, smettere di fare scherzi stupidi e curarsi un pochino di più, altrimenti non avrebbe mai trovato una donna per sé. Tobia già allora era dell’opinione prendere o lasciare, lui era fatto così. Non capiva per quale motivo dovesse far finta di essere diverso, che poi magari si innamorava di lui la donna sbagliata. Però da quando trovava i messaggi anonimi aveva tirato fuori dei vecchi jeans che mettevano in risalto il suo fisico e un maglioncino color salmone, e la tuta se la metteva in officina, proprio come adesso che sta iniziando ad aggiustare i freni dell’Apecar di Geremia. Gli scappa ancora da ridere, se pensa a quella volta che aveva sostituito l’acqua del bottiglione con il vino bianco e questo aveva iniziato a gocciolare sulla mola.
Estraendo i pezzi di ricambio dalla scatola, ammette con sé stesso che pur di sapere chi mettesse i bigliettini sotto allo zerbino, era stato disposto a tornare a capo chino da Piero alla ferramenta. Sul volantino aveva visto le telecamere che mandavano le immagini sul cellulare.
Anche Piero era stato la vittima di un suo scherzo ben riuscito. Durante le sue vacanze Tobia gli aveva svuotato del tutto il suo monolocale da scapolo e lo aveva messo in vendita online. Il povero Piero non era riuscito a perdonarlo, nemmeno dopo che l’appartamento era stato ripristinato nei minimi dettagli e addobbato con fiori freschi sul tavolino della cucina. Nonostante ciò, non solo il Piero gli vendette la telecamera, ma gli installò pure la app di controllo sul cellulare.
Per giorni e giorni Tobia rimase attaccato al cellulare fissando l’immagine della propria porta di casa: il postino, dei gatti, due cani ma niente donna misteriosa, finché all’improvviso, mentre stava aggiustando una Cinquecento di quelle storiche, l’immagine scomparve dal telefono.
Quel giorno si scaraventò a casa nella speranza di vederla almeno andare via. Invece per strada incontrò Gianni e Carlo e sotto lo zerbino circondato dai pezzi della telecamera distrutta il solito bigliettino
“Tobia, sono molto arrabbiata: non ti fidi del nostro amore! Addio! A.”
Che brutto colpo!
Rabbrividisce ancora a pensare a quella terribile settimana di attesa frustrante.
Era convinto di avere perso A. per sempre.
Da quel giorno ogni sera Tobia lasciava una letterina sporca di morchia in cui spiegava il suo amore per lei, la curiosità e il bisogno di vederla per concretizzare questo amore. Le spiegava con parole semplici che lei era la persona più importante della sua vita dopo sua mamma, che però era morta e quindi rimaneva solo lei. Addirittura, si azzardò ad esprimere il desiderio di baciarla, lui che mai aveva toccato, figurati baciato una donna.
Passò tutta una settimana d’inferno, tanto che i suoi clienti in officina si preoccupavano per lui, che ingobbito con lo sguardo spento incassava in nero un cambio d’olio o la sostituzione della frizione.
Solo Margherita, che per colpa della sua vecchia Panda era in officina tutte le settimane, se non più spesso, era riuscita a fargli confessare che stava soffrendo le pene d’amore.
“Tobia, guarda che l’unica cosa che puoi fare è chiederle scusa e promettere di rispettare i suoi tempi. Devi avere pazienza, l’hai fatta davvero grossa.”
Disperato aveva scritto proprio questo nell’ultima letterina, e, miracolo, lei aveva risposto.
“Ti perdono, perché senza di te niente ha più senso. A.”, allegando un’altra foto.
Il suo sguardo era stato catturato dalla catenina argentata che pendeva da una caviglia sottile. Non si vedeva il piede, in cambio però il principio della curva del polpaccio che veniva troncato dal bordo della foto. Quante ore aveva passato a fantasticare su come doveva essere quel piede invisibile, magari con lo smalto rosso sulle unghie; se avesse spazio nella sua mano, se le dita fossero di quelle cicciotte che spesso spuntavano dai sandali delle signore. Si era pentito di non aver dato retta a sua mamma, gli era venuto il dubbio che se avesse seguito le sue raccomandazioni non sarebbe arrivato a quarant’anni vergine e forse sarebbe riuscito a non fare brutta figura davanti ad A.
Finita l’Apecar si dedica alla vecchia Ritmo del parroco. Quest’anno a carnevale non gli aveva fatto nemmeno uno scherzo vero, talmente era preso da tutta questa storia. Si era solo limitato a mettere un secchio pieno d’acqua attaccato alla corda delle campane, così alla prima scampanata il parroco si era fatto una bella doccia.
Si rende conto che proprio non ne aveva avuto tempo. Da quasi un mese A. occupa tutti i suoi pensieri, tanto da aver lasciato a metà tutti i suoi scherzi e dispetti. Addirittura, nella speranza di incontrare A., si era preoccupato di prendersi un altro paio di jeans e qualche camicia nel negozio di Adalgisa, che aveva il dente avvelenato per quella volta che lui le aveva spedito il pacco con dentro il teschio a molla. Si era talmente spaventata che aveva dovuto chiudere il negozio per un mancamento e non gli aveva rivolto la parola per tre mesi.
Ma stasera avrebbe incontrato A. al vecchio mulino.
Certo che A. doveva essere una donna molto coraggiosa. Il mulino si trova fuori dal paese, è romantico, ma anche isolato. Quindi lei davvero si fida di lui.
Per non sfigurare si era fatto anche consigliare un dopobarba da Marilú, sperando che lei non si vendicasse per quella volta che aveva lasciato aperto il tombino, così che tutta la sua profumeria puzzasse come una discarica a cielo aperto. Ma dopo averlo annusato un paio di volte, gli sembrava un profumo da maschio deciso, di quelli che non devono chiedere mai, proprio come nella pubblicità e se ne andò via soddisfatto.
Fra un pensiero e l’altro la giornata è finita. Prima di arrivare a casa si ferma a comprare dei fiori. Mentre sceglie un piccolo bouquet di fiori colorati, nemmeno si ricorda che Giuliano per colpa sua aveva passato un pomeriggio intero a caccia delle lumache che gli aveva liberato in negozio. Meno male che aveva colorato tutti i gusci di verde fosforescente per rendere la caccia più spettacolare.
Persino Sant’Eustachio e tutti i suoi abitanti gli sembrano più belli e più gentili stasera, tanto lui è emozionato per questo suo primo appuntamento.
Appena dentro casa mette i fiori in fresco, si butta sotto la doccia, poi barba, mezza boccetta di dopobarba, infine jeans e camicia nuova. Si guarda allo specchio e decide di aprire il primo bottone della camicia. Alla cravatta proprio non ha pensato e l’unica che ha, quella della cresima, non gli sembra adatta.
Fuori è buio. Le strade sono deserte. Quest’anno San Valentino coincide con il Mercoledì delle Ceneri, una vera fortuna. Dopo la messa tutti sono rientrati a casa e nessuno lo vedrà uscire a piedi dal paese per andare al vecchio mulino.
È un po’ dispiaciuto di non aver pensato ad un giaccone nuovo, ma pazienza, si avvia così a passo svelto, quasi saltellando, rasente ai muri finché non è fuori dal paese.
Sono le otto meno dieci e alla luce della luna vede la sagoma del mulino. Sembra proprio che non ci sia nessuno. Anche A. sarà venuta a piedi per non dare nell’occhio, pensa con il cuore che batte che batte forte, forse è già dentro che lo aspetta.
Si maledice per non aver pensato di portare una pila. “Come faccio a trovarla al buio? Va a finire che nemmeno riesco a vederla, ma la mano, quella almeno, gliela devo prendere e stringere per farle sentire tutto il mio amore e la mia passione.” mormora sottovoce.
Come se non respirasse da un po’, riprende fiato davanti alla vecchia porta di legno marcio, nessun rumore disturba la notte tranne il ruscello poco distante.
Raccoglie tutto il suo coraggio, pensa alla spalla e alla caviglia che lo aspettano all’interno e deciso spinge la porta che si apre con un cigolio sinistro.
Odore di foglie marce misto a muffa lo accoglie mentre sussurra: “A.? Ci sei? Sono Tobia.”
Si ferma trepidante in ascolto.
In quel preciso istante una miriade di luci abbaglianti lo acceca, seguite da una cacofonia stordente di voci: “Tobia scemo!”, “Te l’abbiamo fatta, pirla!”, “Ma chi ti vuole!”, “Ma come hai fatto a crederci?” inframezzato da risate, urla sguaiate e voci che gli fanno il verso. Figure inizialmente indistinte gli vanno incontro paralizzandolo. C’è quasi tutto il paese, riconosce subito: Adalgisa, il parroco, Piero, Gianni, Carlo, Giuliano e la Marilú.
Appena i suoi occhi si abituano, li vede tutti con moglie, mariti e figli, tutti che ridono, puntano il dito e si godono la loro vendetta.
Dalla mano di Tobia, le braccia a ciondoloni, pende il bouquet di fiori misti come fossero già appassiti. Sente una lacrima diluire il dopobarba sulla sua guancia. Eppure, nonostante tutto, dalla voragine di delusione in cui sta sprofondando cerca con lo sguardo smarrito un volto sconosciuto, gentile: il volto di A.
Lancia un “Vaffanculo, bastardi!” poco convinto.
La seconda lacrima assieme alla terza riduce tutti al silenzio. Pare impossibile che Tobia sempre solo, unto, malvestito e dispettoso come una scimmia, abbia un cuore.
Solo in mezzo a loro, vestito di tutto punto, pulito e sbarbato, gli occhi lucidi che saettano come quelli di un animale braccato consapevole di non avere più scampo, è di una bellezza drammatica.
Qualcuno la potrebbe definire eroica, come uno di quei personaggi dei poemi epici cavallereschi davanti alla morte.
Lo scherzo non diverte più nessuno, tutti sono agghiacciati a occhi bassi davanti a un Tobia più nudo di un verme.
Ognuno ripensa ai dispetti che ha subito e fra i compaesani serpeggia la consapevolezza di aver esagerato, la certezza che questa sera segnerà un nuovo capitolo nella storia di Sant’ Eustachio. Ciò che prevale è la coscienza sporca, di chi si è sentito migliore, di chi ha voluto strafare.
Avanza Margherita in questa crudele arena. Gli prende il bouquet dalle mani e sulle punte dei piedi lo bacia leggera come una farfalla con le labbra socchiuse.
È uno spettacolo di una tale tenerezza, che nemmeno il tramestio dei piedi della gente che se ne va a capo chino riesce a disturbare il dialogo silenzioso fra i due.
“I biglietti li ho scritti tutti io, e penso tutto quello che ho scritto. Ma tu non mi hai mai visto.” bisbiglia Margherita.
“Credo che sia lo scherzo più bello della mia vita.” aggiunge Tobia.
Solo il parroco, prima di chiudersi la porta dal cigolio sinistro alle spalle, dà ancora un’occhiata; e li vede prendersi per mano sorridendo come due idioti.
Tobia è un burlone che si diverte a fare scherzi agli amici, ma quest'anno loro hanno pensato di vendicarsi a Carnevale...
A Sant’Eustachio Tobia intinge i suoi biscotti nel latte caldo, con un leggero risucchio assorbe il latte e le briciole mollicce mentre rilegge il foglietto stropicciato, attento a non macchiarlo. È la letterina di stamattina:
“Caro Tobia,
vediamoci al mulino abbandonato la notte di San Valentino. Ti prego vieni alle 8, brucio di passione per te e ti bacerò. A.”
Nessuna firma come tutti i messaggi precedenti sparsi sul tavolo lontani dalla colazione.
Dopo aver sparecchiato, ripone le lettere e le foto in una vecchia scatola da scarpe e si avvia pensieroso verso la sua officina.
Passa davanti alla perleria, al bar, senza salutare nessuno, pensando alla serata che lo aspetta.
Certo, lui non è nato ieri, è furbo, è il maestro degli scherzi. Per cui ha annusato le letterine, le ha guardate con la lente di ingrandimento, quella che ha rubato al sindaco la volta che gli ha riempito la scrivania di rane.
Al primo biglietto trovato sotto lo zerbino, aveva risposto con un bel “Chi sei?” scritto a caratteri cubitali sul margine strappato della Gazzetta dello Sport e lasciato nello stesso posto.
Nei giorni seguenti il lembo rosa aveva continuato a spuntare dallo zerbino. Spazientito lo voleva buttare via e poi un giorno aveva trovato una risposta:
“Il nostro è un amore clandestino, non cercarmi, non contattarmi, quando sarò pronta te lo farò sapere! A.”
Aveva già scritto di più del precedente che recitava semplicemente:
“Tobia, non mi conosci, ma mi piaci da morire. A.”
Quindi questa donna leggeva i suoi messaggi e poi deponeva il proprio, e lui se l’era fatta sfuggire così?
Mentre apre il portone dell’officina si rende conto che per non sfigurare era andato all’edicola del paese che faceva anche da cartoleria e si era procurato della carta da lettere.
Enzo, che non gli aveva ancora perdonato il fatto di aver trovato la saracinesca imbullonata al marciapiede una mattina di qualche anno fa, senza battere ciglio, assieme al resto gli allungò anche una penna a sfera come omaggio della casa.
Da quel giorno iniziò una fitta corrispondenza sotto lo zerbino, tanto che Tobia si ritrovò pure a pulire il gradino davanti alla porta di casa, soprattutto dopo che lei aveva anche allegato una foto polaroid.
E che foto!
Pensa a quella immagine mentre si cambia. Una spalla tagliata dalla fettuccina di un reggiseno. Da come affondava nella carne dava l’idea di reggere un enorme peso, uno di quei pesi di cui Tobia fantasticava nelle sue notti solitarie. Glielo diceva sempre sua mamma che doveva mettere la testa a posto, smettere di fare scherzi stupidi e curarsi un pochino di più, altrimenti non avrebbe mai trovato una donna per sé. Tobia già allora era dell’opinione prendere o lasciare, lui era fatto così. Non capiva per quale motivo dovesse far finta di essere diverso, che poi magari si innamorava di lui la donna sbagliata. Però da quando trovava i messaggi anonimi aveva tirato fuori dei vecchi jeans che mettevano in risalto il suo fisico e un maglioncino color salmone, e la tuta se la metteva in officina, proprio come adesso che sta iniziando ad aggiustare i freni dell’Apecar di Geremia. Gli scappa ancora da ridere, se pensa a quella volta che aveva sostituito l’acqua del bottiglione con il vino bianco e questo aveva iniziato a gocciolare sulla mola.
Estraendo i pezzi di ricambio dalla scatola, ammette con sé stesso che pur di sapere chi mettesse i bigliettini sotto allo zerbino, era stato disposto a tornare a capo chino da Piero alla ferramenta. Sul volantino aveva visto le telecamere che mandavano le immagini sul cellulare.
Anche Piero era stato la vittima di un suo scherzo ben riuscito. Durante le sue vacanze Tobia gli aveva svuotato del tutto il suo monolocale da scapolo e lo aveva messo in vendita online. Il povero Piero non era riuscito a perdonarlo, nemmeno dopo che l’appartamento era stato ripristinato nei minimi dettagli e addobbato con fiori freschi sul tavolino della cucina. Nonostante ciò, non solo il Piero gli vendette la telecamera, ma gli installò pure la app di controllo sul cellulare.
Per giorni e giorni Tobia rimase attaccato al cellulare fissando l’immagine della propria porta di casa: il postino, dei gatti, due cani ma niente donna misteriosa, finché all’improvviso, mentre stava aggiustando una Cinquecento di quelle storiche, l’immagine scomparve dal telefono.
Quel giorno si scaraventò a casa nella speranza di vederla almeno andare via. Invece per strada incontrò Gianni e Carlo e sotto lo zerbino circondato dai pezzi della telecamera distrutta il solito bigliettino
“Tobia, sono molto arrabbiata: non ti fidi del nostro amore! Addio! A.”
Che brutto colpo!
Rabbrividisce ancora a pensare a quella terribile settimana di attesa frustrante.
Era convinto di avere perso A. per sempre.
Da quel giorno ogni sera Tobia lasciava una letterina sporca di morchia in cui spiegava il suo amore per lei, la curiosità e il bisogno di vederla per concretizzare questo amore. Le spiegava con parole semplici che lei era la persona più importante della sua vita dopo sua mamma, che però era morta e quindi rimaneva solo lei. Addirittura, si azzardò ad esprimere il desiderio di baciarla, lui che mai aveva toccato, figurati baciato una donna.
Passò tutta una settimana d’inferno, tanto che i suoi clienti in officina si preoccupavano per lui, che ingobbito con lo sguardo spento incassava in nero un cambio d’olio o la sostituzione della frizione.
Solo Margherita, che per colpa della sua vecchia Panda era in officina tutte le settimane, se non più spesso, era riuscita a fargli confessare che stava soffrendo le pene d’amore.
“Tobia, guarda che l’unica cosa che puoi fare è chiederle scusa e promettere di rispettare i suoi tempi. Devi avere pazienza, l’hai fatta davvero grossa.”
Disperato aveva scritto proprio questo nell’ultima letterina, e, miracolo, lei aveva risposto.
“Ti perdono, perché senza di te niente ha più senso. A.”, allegando un’altra foto.
Il suo sguardo era stato catturato dalla catenina argentata che pendeva da una caviglia sottile. Non si vedeva il piede, in cambio però il principio della curva del polpaccio che veniva troncato dal bordo della foto. Quante ore aveva passato a fantasticare su come doveva essere quel piede invisibile, magari con lo smalto rosso sulle unghie; se avesse spazio nella sua mano, se le dita fossero di quelle cicciotte che spesso spuntavano dai sandali delle signore. Si era pentito di non aver dato retta a sua mamma, gli era venuto il dubbio che se avesse seguito le sue raccomandazioni non sarebbe arrivato a quarant’anni vergine e forse sarebbe riuscito a non fare brutta figura davanti ad A.
Finita l’Apecar si dedica alla vecchia Ritmo del parroco. Quest’anno a carnevale non gli aveva fatto nemmeno uno scherzo vero, talmente era preso da tutta questa storia. Si era solo limitato a mettere un secchio pieno d’acqua attaccato alla corda delle campane, così alla prima scampanata il parroco si era fatto una bella doccia.
Si rende conto che proprio non ne aveva avuto tempo. Da quasi un mese A. occupa tutti i suoi pensieri, tanto da aver lasciato a metà tutti i suoi scherzi e dispetti. Addirittura, nella speranza di incontrare A., si era preoccupato di prendersi un altro paio di jeans e qualche camicia nel negozio di Adalgisa, che aveva il dente avvelenato per quella volta che lui le aveva spedito il pacco con dentro il teschio a molla. Si era talmente spaventata che aveva dovuto chiudere il negozio per un mancamento e non gli aveva rivolto la parola per tre mesi.
Ma stasera avrebbe incontrato A. al vecchio mulino.
Certo che A. doveva essere una donna molto coraggiosa. Il mulino si trova fuori dal paese, è romantico, ma anche isolato. Quindi lei davvero si fida di lui.
Per non sfigurare si era fatto anche consigliare un dopobarba da Marilú, sperando che lei non si vendicasse per quella volta che aveva lasciato aperto il tombino, così che tutta la sua profumeria puzzasse come una discarica a cielo aperto. Ma dopo averlo annusato un paio di volte, gli sembrava un profumo da maschio deciso, di quelli che non devono chiedere mai, proprio come nella pubblicità e se ne andò via soddisfatto.
Fra un pensiero e l’altro la giornata è finita. Prima di arrivare a casa si ferma a comprare dei fiori. Mentre sceglie un piccolo bouquet di fiori colorati, nemmeno si ricorda che Giuliano per colpa sua aveva passato un pomeriggio intero a caccia delle lumache che gli aveva liberato in negozio. Meno male che aveva colorato tutti i gusci di verde fosforescente per rendere la caccia più spettacolare.
Persino Sant’Eustachio e tutti i suoi abitanti gli sembrano più belli e più gentili stasera, tanto lui è emozionato per questo suo primo appuntamento.
Appena dentro casa mette i fiori in fresco, si butta sotto la doccia, poi barba, mezza boccetta di dopobarba, infine jeans e camicia nuova. Si guarda allo specchio e decide di aprire il primo bottone della camicia. Alla cravatta proprio non ha pensato e l’unica che ha, quella della cresima, non gli sembra adatta.
Fuori è buio. Le strade sono deserte. Quest’anno San Valentino coincide con il Mercoledì delle Ceneri, una vera fortuna. Dopo la messa tutti sono rientrati a casa e nessuno lo vedrà uscire a piedi dal paese per andare al vecchio mulino.
È un po’ dispiaciuto di non aver pensato ad un giaccone nuovo, ma pazienza, si avvia così a passo svelto, quasi saltellando, rasente ai muri finché non è fuori dal paese.
Sono le otto meno dieci e alla luce della luna vede la sagoma del mulino. Sembra proprio che non ci sia nessuno. Anche A. sarà venuta a piedi per non dare nell’occhio, pensa con il cuore che batte che batte forte, forse è già dentro che lo aspetta.
Si maledice per non aver pensato di portare una pila. “Come faccio a trovarla al buio? Va a finire che nemmeno riesco a vederla, ma la mano, quella almeno, gliela devo prendere e stringere per farle sentire tutto il mio amore e la mia passione.” mormora sottovoce.
Come se non respirasse da un po’, riprende fiato davanti alla vecchia porta di legno marcio, nessun rumore disturba la notte tranne il ruscello poco distante.
Raccoglie tutto il suo coraggio, pensa alla spalla e alla caviglia che lo aspettano all’interno e deciso spinge la porta che si apre con un cigolio sinistro.
Odore di foglie marce misto a muffa lo accoglie mentre sussurra: “A.? Ci sei? Sono Tobia.”
Si ferma trepidante in ascolto.
In quel preciso istante una miriade di luci abbaglianti lo acceca, seguite da una cacofonia stordente di voci: “Tobia scemo!”, “Te l’abbiamo fatta, pirla!”, “Ma chi ti vuole!”, “Ma come hai fatto a crederci?” inframezzato da risate, urla sguaiate e voci che gli fanno il verso. Figure inizialmente indistinte gli vanno incontro paralizzandolo. C’è quasi tutto il paese, riconosce subito: Adalgisa, il parroco, Piero, Gianni, Carlo, Giuliano e la Marilú.
Appena i suoi occhi si abituano, li vede tutti con moglie, mariti e figli, tutti che ridono, puntano il dito e si godono la loro vendetta.
Dalla mano di Tobia, le braccia a ciondoloni, pende il bouquet di fiori misti come fossero già appassiti. Sente una lacrima diluire il dopobarba sulla sua guancia. Eppure, nonostante tutto, dalla voragine di delusione in cui sta sprofondando cerca con lo sguardo smarrito un volto sconosciuto, gentile: il volto di A.
Lancia un “Vaffanculo, bastardi!” poco convinto.
La seconda lacrima assieme alla terza riduce tutti al silenzio. Pare impossibile che Tobia sempre solo, unto, malvestito e dispettoso come una scimmia, abbia un cuore.
Solo in mezzo a loro, vestito di tutto punto, pulito e sbarbato, gli occhi lucidi che saettano come quelli di un animale braccato consapevole di non avere più scampo, è di una bellezza drammatica.
Qualcuno la potrebbe definire eroica, come uno di quei personaggi dei poemi epici cavallereschi davanti alla morte.
Lo scherzo non diverte più nessuno, tutti sono agghiacciati a occhi bassi davanti a un Tobia più nudo di un verme.
Ognuno ripensa ai dispetti che ha subito e fra i compaesani serpeggia la consapevolezza di aver esagerato, la certezza che questa sera segnerà un nuovo capitolo nella storia di Sant’ Eustachio. Ciò che prevale è la coscienza sporca, di chi si è sentito migliore, di chi ha voluto strafare.
Avanza Margherita in questa crudele arena. Gli prende il bouquet dalle mani e sulle punte dei piedi lo bacia leggera come una farfalla con le labbra socchiuse.
È uno spettacolo di una tale tenerezza, che nemmeno il tramestio dei piedi della gente che se ne va a capo chino riesce a disturbare il dialogo silenzioso fra i due.
“I biglietti li ho scritti tutti io, e penso tutto quello che ho scritto. Ma tu non mi hai mai visto.” bisbiglia Margherita.
“Credo che sia lo scherzo più bello della mia vita.” aggiunge Tobia.
Solo il parroco, prima di chiudersi la porta dal cigolio sinistro alle spalle, dà ancora un’occhiata; e li vede prendersi per mano sorridendo come due idioti.