[CN23-2] La fuga di Carla, o il fico strangolatore: sul lasciare andare – seguito de "La cena di Natale"
Posted: Sun Jan 07, 2024 4:44 pm
La fuga di Carla, o il fico strangolatore: sul lasciare andare
Seguito de La cena di Natale di @Kasimiro
Genere sentimentale
“È finita, Marco. Lascia andare.” La mia voce è strozzata mentre mi avvicino all’uomo. Ha appena lanciato la campanella nei rovi di sotto e ora stringe il davanzale fino ad avere le nocche bianche, lo sguardo perso nella notte. Un ultimo dlin attutito quando la campanella atterra.
“Carla” mi chiama con apprensione Gloria, la responsabile del centro. Il suo tono è chiaro: stai lontana, sei l’ultima assunta qui dentro e non sai come gestire Marco. Guardo le braccia dell’uomo nascoste dal maglioncino natalizio e penso che forse Gloria ha ragione.
Restiamo tutti a fissarlo in un silenzio irreale. Marco ha gli occhi sbarrati in cerca dell'ignoto, come immerso in un sogno. Poi chiude la finestra e si siede alla tavolata. L’atmosfera torna a rilassarsi, Antonio riprende a cantare e gli altri ragazzi a fare caos.
“Cosa ne dite se passiamo al pandoro col mascarpone?” chiede Gloria. “Dallo sguardo direi che l'idea vi possa piacere. Andate a chiamare Linda.”
Mi dirigo in cucina e passo accanto a Marco, che sta piluccando qualche patata. Gli sfioro un braccio con la mano e sussurro: “Hai fatto la cosa giusta”. Poi, prima che possa rispondere, vado.
A parte quell’episodio, Marco è senza dubbio l’ospite più tranquillo, qui. La sua camera è sempre in ordine e, quando c’è da pulire, basta solo una spolveratina. Qualche giorno dopo, a gennaio, lo sorprendo in camera mentre è a terra a fare piegamenti.
“Cosa stai facendo?” Chiedo, sorpresa.
“Mi alleno” ribatte lui. Si alza, mi guarda un attimo negli occhi. Non posso non notare i segni delle cinghiate del padre sul suo busto. Lui si rimette la maglietta.
Ha un bel fisico e io mi sento arrossire ma non so come nasconderlo, né come reagire. Ci sono un’infinità di situazioni, qui, a cui per forza di cose non si può essere preparati. Ma Marco non sta facendo del male a nessuno, quindi semplicemente abbozzo un sorriso e chiedo: “Perché ti alleni?” Intanto, prendo l’annaffiatoio e bagno il vaso col fico.
“Per sconfiggere i draghi” dice come fosse ovvio.
Spolvero le mensole e osservo le pile di fogli con i suoi disegni. Sono meravigliosi. Ha rappresentato più volte la pianta che ha in camera, ma non solo: ci sono draghi, creature bizzarre, paesaggi incantati che non appartengono a questo mondo, e che non so dove possa aver visto. Non c’è disegnata alcuna persona, mai; è questa l’impressione che lui mi ha dato, in effetti: il suo sguardo è rivolto oltre, a qualcosa di più grande.
In bella vista in mezzo ai fogli, la custodia di pelle vuota in cui una volta stava la campanella. Mi sono fatta raccontare la storia da Luciana, a Natale: suo padre, quando Marco era piccolo, aveva la sadica abitudine di avvisarlo con lo scampanellio prima di infliggergli una punizione corporale. Marco è ospite del centro da allora, ed è diventato adulto qui. La storia mi provoca una fitta al cuore, non solo per empatia verso l’uomo, ma anche per i miei stessi dolorosi ricordi. Per allontanare i pensieri cupi, gli dico: “Raccontami di questi draghi”.
Marco mi guarda, mi guarda davvero, e vedo interesse nei suoi occhi. Decide di aprirsi, di iniziare a raccontare, ed è come un fiume in piena. Penso che, forse, la pulizia delle altre camere può aspettare, e mi siedo sul letto accanto a lui.
Quando sono arrivata in città per la prima volta ero triste, persa, sola. Mi sentivo una persona importante perché avevo studiato per fare un buon lavoro, ma un tarlo in testa mi teneva sveglia la notte, e lo fa tuttora: a cosa serve tutto questo, se non riesco neanche a salvare la mia famiglia? Mi vergogno, sì. Mi vergogno di essere fuggita, di aver abbandonato la mamma e i miei fratelli a un padre alcolizzato e violento. È stato facile andarsene, abbandonare la realtà, vivere in un nuovo mondo costruito da me, dove ho potere, controllo, libero arbitrio.
È anche questa l’entità del legame che sta sbocciando tra me e Marco. Le nostre energie sono in sintonia. So quello che prova, capisco perché fugge nella sua realtà immaginaria e vive nel suo mondo. E così come io ho lasciato alle spalle il passato, vorrei che lui facesse lo stesso. Gettare la campanella non basta, ma non so allora quale sia la via, e voglio trovarla assieme a lui, voglio passare il tempo con lui.
Una parte di me dice che sono pensieri assurdi, che lui è diverso da me, ma un’altra dice invece che è questo a essere assurdo, che lui è un essere umano come me, e che non c’è niente di male ad accettare i miei sentimenti. Lui è un uomo, abbiamo più o meno la stessa età, e mi fa imbestialire quando gli altri lo chiamano ragazzo, come a sminuirlo. Però lui è pur sempre un ospite e io un’operatrice, e questo è insormontabile.
Un giorno, in camera sua, noto un disegno in più. Il soggetto sono io che innaffio il vaso col fico. La prima volta che disegna una persona. Le lacrime agli occhi, non posso fare altro che sorridere come una cretina e abbracciarlo.
Quando arriva la primavera, nei ritagli di tempo che ho, usciamo in giardino a fare lunghe camminate e parlare. Gli racconto dei diversi fiori che sbocciano e appassiscono, dei diversi alberi, della meraviglia del mondo attorno a noi. Lui mi parla della realtà che gli è esclusiva, di viaggi e panorami che pur non esistendo lasciano senza fiato, e del silenzio e della tregua che copre quei reami da quando sono liberi della campanella. Stiamo a lungo davanti all’imponente fico accanto al muretto; gli piace dipingerlo, e io resto lì, a sbirciare i raggi di sole che baciano la sua pelle in silenzio, cullati dal canto degli uccelli e dal profumo dei fiori. Un pochino mi manca, quando si perde di là.
“Sai” gli dico, in un giorno d’estate, “esistono tantissimi fichi, al mondo. In Australia ce n’è persino uno che si chiama strangolatore. Lo conosci?”
Lui scuote la testa. “No. Cos’è?”
“Cresce attorno a un albero più grande. È una piantina, tutto qui, e fa affidamento sull’altro albero per crescere. Pian piano diventa alto e forte e, alla fine, lo è talmente tanto che è in grado di reggersi da sé, e allora uccide la pianta su cui è cresciuto.”
“Ma è terribile! Perché fa una cosa del genere?”
“Secondo me non lo è. Deve farlo per forza, è il modo in cui è nato e cresciuto il fico che lo impone. A volte si può lasciare alle spalle il passato, ma molte altre, invece, no.”
È un pomeriggio di fine estate, mentre raccogliamo i frutti, con il vento caldo che porta il canto dei grilli e l’odore del prato appena tosato, che capisco di essere innamorata. Capisco anche, però, che siamo in uno stallo, e che la paura ci frena. Paura delle conseguenze sul mio lavoro. Paura di dover lasciar andare il ricordo del padre per aprirsi a una nuova relazione. Il suo sorriso, il suo tocco, il modo in cui mi chiama per nome sono tutti segnali che lui prova lo stesso per me, e per un po’ ci basta questo per essere felici. Ma bisogna passare oltre e tornare alla realtà.
Lo capisco subito, ma mi ci vuole qualche mese per comprenderlo. A questo punto, non ho alcun dubbio su quale scelta compiere.
“Marco” lo chiamo. È in sala da pranzo, solo, e sta disegnando la finestra da cui, quasi un anno fa, ha lanciato la campanella, fuggendo dal passato. “Ho dato le dimissioni”.
“Cosa?” Alza lo sguardo, sconvolto, e stringe compulsivamente la matita. “Ma tu, io, noi...”
“Lo so. È per questo che l’ho fatto. Tu vuoi qualcosa di più, non è vero? Lo voglio anch’io. Non dobbiamo temere di prendercelo.”
“Ora cosa farai?”
“Come prima cosa, me ne andrò per un po’. Torno dove sono nata. Ho lasciato alcune faccende in sospeso, e non posso passare oltre finché non le affronto. Vorrei che tu facessi lo stesso. Puoi fare questo per me?”
“Ecco, veramente...”
“E quando tornerò, se tu dovessi fare la proposta, potrei accettare”.
“La proposta?” Arrossisce fino alla punta del naso.
“Dai, hai capito”. Prendo la sua mano che stringe la matita, abbasso lo sguardo, sorrido. “Il matrimonio”. Finalmente alzo gli occhi, li punto nei suoi, siamo vicinissimi ora e riesco a sentire il suo respiro. “Tutto quello che devi fare, Marco, è svegliarti. Lascia andare la finzione e accetta la realtà.”
“Posso farlo, Carla” mormora.
“Vuoi tornare al mondo reale, per me?”
“Sì, Carla”.
“In tal caso...” Con l’altra mano frugo in tasca e tiro fuori la campanella d’ottone che ho recuperato mentre potavo le siepi. Lui si irrigidisce, ma io carezzo le sue dita con le mie e gli sorrido, cercando di trasmettergli che va tutto bene, che è al sicuro. “Smetti di fuggire, Marco. Affronta. Svegliati.”
Lui non sta più guardando me, ma la campanella. Gli faccio un cenno, lui annuisce. Non c’è bisogno di parlare, ci capiamo, sappiamo già cosa fare. Lui chiude gli occhi e io agito la campanella.
Dlin dlin dlin dlin
“Sveglia, Marco”.
Dlin dlin dlin dlin
... Dlin dlin dlin dlin.
L’odore di sangue impregnava la sala da pranzo. Dalla finestra spalancata soffiava un vento gelido sui cadaveri silenti che fino a poco prima banchettavano. Tutti i bambini, tutti i ragazzi. Pietro, Gabriele, Antonio, Giuseppe, Linda. Tutte le operatrici. Gloria, Luciana, persino Ernesto. Marco non aveva risparmiato nessuno, la sera della cena di Natale. Aveva vissuto un anno di vita in un istante, vite intere e mondi interi in pochi secondi, ma, alla fine, aveva dovuto tornare a casa.
Dlin dlin dlin dlin
Agitava furiosamente la campanella, a cavalcioni sopra il corpo di Carla, mentre con l’altra mano, le nocche bianche, stringeva il coltello piantatole in pancia. Carla sorrise dolcemente, ignara del mondo che Marco aveva costruito e in cui l’aveva collocata, ignara della vita immaginaria in cui la sua immagine si era trovata protagonista, ma connessa con l’altrove.
Carezzò la mano dell’uomo che impugnava l’arma che la stava uccidendo, la sua voce era strozzata. “È finita, Marco. Lascia andare.”
Seguito de La cena di Natale di @Kasimiro
Genere sentimentale
“È finita, Marco. Lascia andare.” La mia voce è strozzata mentre mi avvicino all’uomo. Ha appena lanciato la campanella nei rovi di sotto e ora stringe il davanzale fino ad avere le nocche bianche, lo sguardo perso nella notte. Un ultimo dlin attutito quando la campanella atterra.
“Carla” mi chiama con apprensione Gloria, la responsabile del centro. Il suo tono è chiaro: stai lontana, sei l’ultima assunta qui dentro e non sai come gestire Marco. Guardo le braccia dell’uomo nascoste dal maglioncino natalizio e penso che forse Gloria ha ragione.
Restiamo tutti a fissarlo in un silenzio irreale. Marco ha gli occhi sbarrati in cerca dell'ignoto, come immerso in un sogno. Poi chiude la finestra e si siede alla tavolata. L’atmosfera torna a rilassarsi, Antonio riprende a cantare e gli altri ragazzi a fare caos.
“Cosa ne dite se passiamo al pandoro col mascarpone?” chiede Gloria. “Dallo sguardo direi che l'idea vi possa piacere. Andate a chiamare Linda.”
Mi dirigo in cucina e passo accanto a Marco, che sta piluccando qualche patata. Gli sfioro un braccio con la mano e sussurro: “Hai fatto la cosa giusta”. Poi, prima che possa rispondere, vado.
A parte quell’episodio, Marco è senza dubbio l’ospite più tranquillo, qui. La sua camera è sempre in ordine e, quando c’è da pulire, basta solo una spolveratina. Qualche giorno dopo, a gennaio, lo sorprendo in camera mentre è a terra a fare piegamenti.
“Cosa stai facendo?” Chiedo, sorpresa.
“Mi alleno” ribatte lui. Si alza, mi guarda un attimo negli occhi. Non posso non notare i segni delle cinghiate del padre sul suo busto. Lui si rimette la maglietta.
Ha un bel fisico e io mi sento arrossire ma non so come nasconderlo, né come reagire. Ci sono un’infinità di situazioni, qui, a cui per forza di cose non si può essere preparati. Ma Marco non sta facendo del male a nessuno, quindi semplicemente abbozzo un sorriso e chiedo: “Perché ti alleni?” Intanto, prendo l’annaffiatoio e bagno il vaso col fico.
“Per sconfiggere i draghi” dice come fosse ovvio.
Spolvero le mensole e osservo le pile di fogli con i suoi disegni. Sono meravigliosi. Ha rappresentato più volte la pianta che ha in camera, ma non solo: ci sono draghi, creature bizzarre, paesaggi incantati che non appartengono a questo mondo, e che non so dove possa aver visto. Non c’è disegnata alcuna persona, mai; è questa l’impressione che lui mi ha dato, in effetti: il suo sguardo è rivolto oltre, a qualcosa di più grande.
In bella vista in mezzo ai fogli, la custodia di pelle vuota in cui una volta stava la campanella. Mi sono fatta raccontare la storia da Luciana, a Natale: suo padre, quando Marco era piccolo, aveva la sadica abitudine di avvisarlo con lo scampanellio prima di infliggergli una punizione corporale. Marco è ospite del centro da allora, ed è diventato adulto qui. La storia mi provoca una fitta al cuore, non solo per empatia verso l’uomo, ma anche per i miei stessi dolorosi ricordi. Per allontanare i pensieri cupi, gli dico: “Raccontami di questi draghi”.
Marco mi guarda, mi guarda davvero, e vedo interesse nei suoi occhi. Decide di aprirsi, di iniziare a raccontare, ed è come un fiume in piena. Penso che, forse, la pulizia delle altre camere può aspettare, e mi siedo sul letto accanto a lui.
Quando sono arrivata in città per la prima volta ero triste, persa, sola. Mi sentivo una persona importante perché avevo studiato per fare un buon lavoro, ma un tarlo in testa mi teneva sveglia la notte, e lo fa tuttora: a cosa serve tutto questo, se non riesco neanche a salvare la mia famiglia? Mi vergogno, sì. Mi vergogno di essere fuggita, di aver abbandonato la mamma e i miei fratelli a un padre alcolizzato e violento. È stato facile andarsene, abbandonare la realtà, vivere in un nuovo mondo costruito da me, dove ho potere, controllo, libero arbitrio.
È anche questa l’entità del legame che sta sbocciando tra me e Marco. Le nostre energie sono in sintonia. So quello che prova, capisco perché fugge nella sua realtà immaginaria e vive nel suo mondo. E così come io ho lasciato alle spalle il passato, vorrei che lui facesse lo stesso. Gettare la campanella non basta, ma non so allora quale sia la via, e voglio trovarla assieme a lui, voglio passare il tempo con lui.
Una parte di me dice che sono pensieri assurdi, che lui è diverso da me, ma un’altra dice invece che è questo a essere assurdo, che lui è un essere umano come me, e che non c’è niente di male ad accettare i miei sentimenti. Lui è un uomo, abbiamo più o meno la stessa età, e mi fa imbestialire quando gli altri lo chiamano ragazzo, come a sminuirlo. Però lui è pur sempre un ospite e io un’operatrice, e questo è insormontabile.
Un giorno, in camera sua, noto un disegno in più. Il soggetto sono io che innaffio il vaso col fico. La prima volta che disegna una persona. Le lacrime agli occhi, non posso fare altro che sorridere come una cretina e abbracciarlo.
Quando arriva la primavera, nei ritagli di tempo che ho, usciamo in giardino a fare lunghe camminate e parlare. Gli racconto dei diversi fiori che sbocciano e appassiscono, dei diversi alberi, della meraviglia del mondo attorno a noi. Lui mi parla della realtà che gli è esclusiva, di viaggi e panorami che pur non esistendo lasciano senza fiato, e del silenzio e della tregua che copre quei reami da quando sono liberi della campanella. Stiamo a lungo davanti all’imponente fico accanto al muretto; gli piace dipingerlo, e io resto lì, a sbirciare i raggi di sole che baciano la sua pelle in silenzio, cullati dal canto degli uccelli e dal profumo dei fiori. Un pochino mi manca, quando si perde di là.
“Sai” gli dico, in un giorno d’estate, “esistono tantissimi fichi, al mondo. In Australia ce n’è persino uno che si chiama strangolatore. Lo conosci?”
Lui scuote la testa. “No. Cos’è?”
“Cresce attorno a un albero più grande. È una piantina, tutto qui, e fa affidamento sull’altro albero per crescere. Pian piano diventa alto e forte e, alla fine, lo è talmente tanto che è in grado di reggersi da sé, e allora uccide la pianta su cui è cresciuto.”
“Ma è terribile! Perché fa una cosa del genere?”
“Secondo me non lo è. Deve farlo per forza, è il modo in cui è nato e cresciuto il fico che lo impone. A volte si può lasciare alle spalle il passato, ma molte altre, invece, no.”
È un pomeriggio di fine estate, mentre raccogliamo i frutti, con il vento caldo che porta il canto dei grilli e l’odore del prato appena tosato, che capisco di essere innamorata. Capisco anche, però, che siamo in uno stallo, e che la paura ci frena. Paura delle conseguenze sul mio lavoro. Paura di dover lasciar andare il ricordo del padre per aprirsi a una nuova relazione. Il suo sorriso, il suo tocco, il modo in cui mi chiama per nome sono tutti segnali che lui prova lo stesso per me, e per un po’ ci basta questo per essere felici. Ma bisogna passare oltre e tornare alla realtà.
Lo capisco subito, ma mi ci vuole qualche mese per comprenderlo. A questo punto, non ho alcun dubbio su quale scelta compiere.
“Marco” lo chiamo. È in sala da pranzo, solo, e sta disegnando la finestra da cui, quasi un anno fa, ha lanciato la campanella, fuggendo dal passato. “Ho dato le dimissioni”.
“Cosa?” Alza lo sguardo, sconvolto, e stringe compulsivamente la matita. “Ma tu, io, noi...”
“Lo so. È per questo che l’ho fatto. Tu vuoi qualcosa di più, non è vero? Lo voglio anch’io. Non dobbiamo temere di prendercelo.”
“Ora cosa farai?”
“Come prima cosa, me ne andrò per un po’. Torno dove sono nata. Ho lasciato alcune faccende in sospeso, e non posso passare oltre finché non le affronto. Vorrei che tu facessi lo stesso. Puoi fare questo per me?”
“Ecco, veramente...”
“E quando tornerò, se tu dovessi fare la proposta, potrei accettare”.
“La proposta?” Arrossisce fino alla punta del naso.
“Dai, hai capito”. Prendo la sua mano che stringe la matita, abbasso lo sguardo, sorrido. “Il matrimonio”. Finalmente alzo gli occhi, li punto nei suoi, siamo vicinissimi ora e riesco a sentire il suo respiro. “Tutto quello che devi fare, Marco, è svegliarti. Lascia andare la finzione e accetta la realtà.”
“Posso farlo, Carla” mormora.
“Vuoi tornare al mondo reale, per me?”
“Sì, Carla”.
“In tal caso...” Con l’altra mano frugo in tasca e tiro fuori la campanella d’ottone che ho recuperato mentre potavo le siepi. Lui si irrigidisce, ma io carezzo le sue dita con le mie e gli sorrido, cercando di trasmettergli che va tutto bene, che è al sicuro. “Smetti di fuggire, Marco. Affronta. Svegliati.”
Lui non sta più guardando me, ma la campanella. Gli faccio un cenno, lui annuisce. Non c’è bisogno di parlare, ci capiamo, sappiamo già cosa fare. Lui chiude gli occhi e io agito la campanella.
Dlin dlin dlin dlin
“Sveglia, Marco”.
Dlin dlin dlin dlin
... Dlin dlin dlin dlin.
L’odore di sangue impregnava la sala da pranzo. Dalla finestra spalancata soffiava un vento gelido sui cadaveri silenti che fino a poco prima banchettavano. Tutti i bambini, tutti i ragazzi. Pietro, Gabriele, Antonio, Giuseppe, Linda. Tutte le operatrici. Gloria, Luciana, persino Ernesto. Marco non aveva risparmiato nessuno, la sera della cena di Natale. Aveva vissuto un anno di vita in un istante, vite intere e mondi interi in pochi secondi, ma, alla fine, aveva dovuto tornare a casa.
Dlin dlin dlin dlin
Agitava furiosamente la campanella, a cavalcioni sopra il corpo di Carla, mentre con l’altra mano, le nocche bianche, stringeva il coltello piantatole in pancia. Carla sorrise dolcemente, ignara del mondo che Marco aveva costruito e in cui l’aveva collocata, ignara della vita immaginaria in cui la sua immagine si era trovata protagonista, ma connessa con l’altrove.
Carezzò la mano dell’uomo che impugnava l’arma che la stava uccidendo, la sua voce era strozzata. “È finita, Marco. Lascia andare.”