[CN23] Buon Natale, papà
Posted: Mon Dec 25, 2023 5:06 pm
Genere: horror
Traccia 1: Il bagliore
Il ticchettio dell’orologio a parete scandisce il silenzio. È la vigilia di Natale e tu, papà, stai mangiando mezza trota con patate fredde. Io sono sazio, mi hai dato un biberon di latte in polvere. Non conosco il sapore del latte materno, la mamma è morta quando sono nato, pochi giorni fa.
Enormi fiocchi di neve vorticano fuori dalla finestra. La bufera imperversa sulla nostra fattoria, sulla radura, sul bosco infinito. Non si è fermata un istante, da quando sono nato. Bulbi morti di lampadine penzolano dal soffitto; la tempesta si è portata via anche la corrente. Le porte e le pareti di legno non fanno che tremare, tormentate dal vento.
L’orologio si ferma. Tutto ciò che si sente ora sono i tuoi denti che masticano il cadavere cotto del pesce. Tiro su col naso. Trangugi il bicchiere di vino e scaraventi il piatto, ancora pieno, contro l’orologio, e finisce in pezzi. Io faccio la cacca nel pannolino e scoppio in lacrime.
Scatti in piedi. Le labbra ti tremano, i denti sbattono come le porte della casa. Mi sollevi e mi porti verso un tavolo sgombro. Mi stai per cambiare? Ma in pugno non hai un pannolino pulito, hai un coltello. «Mi dispiace». La tua voce è triste, gutturale. «Non c’è futuro per noi, capisci?» La luce delle fiamme dal candelabro danza sulla lama.
Ho paura.
Il coltello cala. Dolore inconcepibile alla mano sinistra. Urlo, ma tu urli più forte, così forte che riesci a raggiungermi oltre alla barriera del dolore inconcepibile. Fa male. Papà, fallo smettere, ti prego! La gola mi brucia per gli strilli, la mano brucia di più.
«Scusami, mio Dio, non fare così, va tutto bene...» Il coltello scivola a terra. Allunghi le mani verso di me, poi ti fermi, come indeciso. «Adesso ti curo». Sparisci un attimo. Quando torni piango più di prima. Ho paura, papà. Salvami, papà. Mi disinfetti, mi bendi, mi cambi il pannolino, pulisci il tavolo, metti il coltello nel lavabo. Tutto è tornato alla norma.
«Non ce la faccio, amore mio, sono un codardo». Mi prendi in braccio, mi porti in camera e mi metti sul letto. Da una robusta trave del soffitto, da qualche giorno, pende un cappio. Trascini uno sgabello per terra, legno su legno. Ci sali in piedi, mi guardi attraverso l’anello di corda. La tua voce è un sibilo appena udibile sopra agli scricchiolii della casa. «Non posso ucciderti. Ci penserà la natura a farlo. Be’, io allora vado.»
Una luce bianca si accende nel bosco, si avvicina, riempie le finestre. «Ma che–» È accecante e calda. Poi arrivano le scosse, e quando finisce tu ti sei ribaltato sullo sgabello e sei caduto all’indietro. Sbatti le palpebre un paio di volte, fesso come la trota che hai lanciato sul muro. Tre colpi sulla porta di casa. Ti volti, ma non ti alzi. Forse un oggetto trascinato dal vento? Altri tre colpi, ancora più forte. No, è qualcuno che bussa.
«Arrivo!» Urli. Agisci senza farti domande: mi prendi, esci dalla camera, chiudi la porta, mi lasci sul seggiolone, corri all’ingresso e apri.
«Tu chi...» La tua voce è spaventata. Lo straniero sul portico è alto e avvolto in un pesante mantello nero su cui si è accumulata la neve. Si regge allo stipite e ha il respiro pesante. Lo tiri dentro. «Entra, scaldati». Lo fai sedere di fronte al camino. «Togli le scarpe, saranno zuppe». Lo aiuti. Lui indossa dei guanti di pelle neri. «Togli anche quelli» consigli.
«No». La voce è grave. Abbassa la mantella e rivela una chioma dorata, umidiccia. È un giovanotto dal viso aggraziato. Ti rivolge un sorriso stanco.
«Ehm... Cosa ci faceva un bel ragazzo come te in mezzo alla bufera?»
Si schiarisce la gola. «Stavo tagliando la legna e mi sono perso. Non so da quanto vagassi nella foresta, quando ho visto la luce di casa.»
«È un miracolo che sei capitato alla mia fattoria, allora, degno della notte di Natale.» Ti siedi vicino a me.
Lo straniero mi sorride.
«Il bagliore di poco fa cosa è stato?» Chiedi.
«Bagliore?»
«Non hai visto niente? E le scosse?»
«Quali scosse?» Il suo volto è perplesso.
«Ah, non importa. Dove abiti, comunque?»
«Non molto lontano da qui».
«Davvero? Io e mia moglie ci siamo trasferiti quest’estate.»
«Capisco. E lei non c’è?»
«No, lei è...» Abbassi lo sguardo.
«Oh. Mi dispiace.» Lo straniero si alza. È alto. «Posso prenderlo in braccio?» Mi indica.
«A dire il vero...» Fai una risatina nervosa.
«Non preoccuparti, era una domanda inopportuna».
«Ma no, figurati». Cala il silenzio. Io faccio un vagito, entrambi vi girate a sorridermi. Poi torni a rivolgerti allo straniero: «Quindi, stavi tagliando la legna la notte di Natale?»
«Mi ero dimenticato di tale ricorrenza».
«Non la festeggi?»
«No, ho festeggiato Yule. Così mi è stato insegnato da chi mi ha cresciuto.»
«Ho capito. Be’, devono essere persone molto belle anche loro, vero? I tuoi genitori, intendo. Tu sei un bel ragazzo.»
«Mio padre non lo era. Ma non importa, non è lui che mi ha cresciuto, ho sempre fatto tutto da me.»
«Certo». Fai una breve pausa. «Ma che maleducato, sarai affamato. Vuoi qualcosa di caldo?»
«Volentieri».
«Arrivo subito». Ti dirigi a grandi passi in cucina.
Lo straniero aggiunge un ciocco di legno al camino. Si strofina le mani guantate e mi guarda a lungo. Mi sorride, gli sorrido. Mi fa la linguaccia, ricambio. Sollevo le braccia ed esclamo: «à!» Mi prende in braccio, mi fa dondolare e mi fa una carezza, stando attento a evitare la mano fasciata. Nel giro di non molto cado in uno stato di sonnolenza.
Quando rientri in soggiorno ti arresti a guardarci.
«Yule» sussurra lo straniero, «è un periodo magico. Non molti sanno che, durante un sabbat, il tempo si allinea con quelli di tutti gli anni passati e a venire.»
Lo ignori e lasci il piatto sul tavolo. «Ecco, trota e patate. Metti giù mio figlio e vieni a mangiare, finché è caldo.»
«Sissignore». Lui fa come dici. Con la forchetta, sbocconcella un po’. «Raccontami della mamma».
«La mamma?»
«La mamma del bambino».
Ti gratti una guancia. Rispondi docile, come assoggettato. «Lei era... tutto ciò che io non sono. L’ultimo Natale le ho promesso che saremmo venuti a vivere qui. Avevamo preparato tutto, dalle scorte per il bambino, ai semi per la primavera successiva. Ma poi... è stata colpa mia.»
«L’hai uccisa?» Chiede con noncuranza, piluccando una patata.
«Cosa? No! Come ti viene in mente? È stato il parto. Intendevo che–»
«C’è un frammento di ceramica nella mia trota» ti interrompe. «Se lo avessi ingoiato, avresti ammazzato anche me. E questa la chiami ospitalità? La madre avrebbe saputo fare di meglio.»
Scatti in piedi, la sedia cade, e tu picchi i palmi sul tavolo. «Come ti permetti? Entri in casa mia, ti scaldi al mio focolare, prendi in braccio mio figlio, mangi il mio cibo, e mi rispondi con questa impudenza?» Conosco quel tono, quello sguardo. Ho paura, papà.
Lui si alza a fronteggiarti. «Casa tua. Sono sicuro avessi tutto sotto controllo. Cos’è successo alla mano di tuo figlio?»
«Un incidente».
«Un incidente, appunto. E cosa facciamo adesso? Perderà la mano.»
«Come fai a dirlo?» Stai sbraitando. «Non l’hai manco vista la ferita! Chi credi di essere? Appena la bufera cessa, ti voglio fuori da casa mia.»
Mi sento il cuore in gola per tutto il baccano. Scoppio in lacrime e mi metto a gridare anch’io.
«Calmiamoci» dice lui, «lo stiamo spaventando». Mi solleva in braccio e mi dondola. In breve smetto di piangere. Tu fai per prendermi, ma io mi stringo di più a lui. «La fattoria era mia, una volta, sai?»
«Cosa?»
«Già. E mi piacerebbe fare il giro della casa. Ci sono tanti ricordi, legati.»
«Quante richieste hai ancora? È già tanto che non ti mando fuori a calci, a congelare. E solo perché è Natale.»
«Non è una richiesta». Senza aspettare risposta va in cucina.
«Aspetta!» Ci segui.
Lo straniero guarda l’orologio rotto, i cocci per terra, il coltello con il mio sangue secco nel lavabo. «Capisco» dice.
«Fermo, questo...»
«Tu non sei un buon padre». Mi stringo al suo petto. È comodo, è caldo, è casa. «Dov’è il corpo della madre?»
«Perché? Cosa vuoi farle?»
«Cosa voglio farle?» La sua voce è incollerita. «Portarle rispetto, tutto qui. Tu? Cosa vuoi farle? Le hai dato una sepoltura dignitosa? La collina dietro la casa è perfetta, lì fa ancora parte del terreno della fattoria. La mia fattoria.»
«E come avrei potuto? Il terreno è duro come ghiaccio, la bufera non si ferma un attimo.»
«Avresti dovuto provarci, e morire provandoci. Tanto non aspetti altro che raggiungerla, o no?»
«Tu». Ti scagli contro lo straniero, contro di noi, ma lui si volta e ti molla un calcio in pieno petto. Cadi a terra, annaspando, e bestemmi tra i denti. «Tu sei un demonio!»
Lui prende il coltello dall’acquaio. «Vattene dalla mia fattoria» ti intima, «tanto io sarò un padre migliore di quanto tu possa mai essere.»
«Ti ammazzo» sibili. «Vi ammazzo entrambi!» Ma quando ti rimetti in piedi, noi siamo già in camera da letto. Lui aggira il cappio e mi tiene ancora in braccio, e io mi reggo forte.
Quando arrivi, lui mi sta puntando contro il coltello. «Che c’è?» Ti sfida. «Non volevi ammazzarci? Sei un codardo. Se ci tieni a tuo figlio, raccogli quello sgabello e ucciditi. Forza.»
«No...» Scuoti la testa, trattenendo le lacrime. «No, no, no! Non voglio! Ho sbagliato, ma posso ancora, p-posso–»
«Hai fatto abbastanza». Ti punta contro il coltello con la sinistra. Poi lo lascia cadere e ti stringe la spalla con la mano guantata, ferrea. È alto, è forte. Non hai speranze. «Su».
Singhiozzando, trascini lo sgabello fino a sotto al cappio, sali, ci infili la testa.
«Stai facendo un errore. Ti prego. Non sei un assassino...»
«Tu non mi conosci. E mai avrai la possibilità di farlo. Davvero pensavi l’avrei ucciso? Non posso.» Dà un calcio allo sgabello, e tu finisci sospeso nel vuoto.
Ti dimeni, impazzito, e rantoli. Le vene dei tuoi occhi pulsano, rosse. Agiti le braccia, cerchi di afferrarmi, ma lui si sposta, e tu prendi il suo guanto sinistro e lo sfili. Terrorizzato, guardi la sua mano prostetica metallica, e guardi me.
Alla fine, non guardi più nulla.
«Buon Natale, papà» dico, mentre con la mano destra faccio una carezza al bambino e con la sinistra ti chiudo per sempre le palpebre.
Traccia 1: Il bagliore
Il ticchettio dell’orologio a parete scandisce il silenzio. È la vigilia di Natale e tu, papà, stai mangiando mezza trota con patate fredde. Io sono sazio, mi hai dato un biberon di latte in polvere. Non conosco il sapore del latte materno, la mamma è morta quando sono nato, pochi giorni fa.
Enormi fiocchi di neve vorticano fuori dalla finestra. La bufera imperversa sulla nostra fattoria, sulla radura, sul bosco infinito. Non si è fermata un istante, da quando sono nato. Bulbi morti di lampadine penzolano dal soffitto; la tempesta si è portata via anche la corrente. Le porte e le pareti di legno non fanno che tremare, tormentate dal vento.
L’orologio si ferma. Tutto ciò che si sente ora sono i tuoi denti che masticano il cadavere cotto del pesce. Tiro su col naso. Trangugi il bicchiere di vino e scaraventi il piatto, ancora pieno, contro l’orologio, e finisce in pezzi. Io faccio la cacca nel pannolino e scoppio in lacrime.
Scatti in piedi. Le labbra ti tremano, i denti sbattono come le porte della casa. Mi sollevi e mi porti verso un tavolo sgombro. Mi stai per cambiare? Ma in pugno non hai un pannolino pulito, hai un coltello. «Mi dispiace». La tua voce è triste, gutturale. «Non c’è futuro per noi, capisci?» La luce delle fiamme dal candelabro danza sulla lama.
Ho paura.
Il coltello cala. Dolore inconcepibile alla mano sinistra. Urlo, ma tu urli più forte, così forte che riesci a raggiungermi oltre alla barriera del dolore inconcepibile. Fa male. Papà, fallo smettere, ti prego! La gola mi brucia per gli strilli, la mano brucia di più.
«Scusami, mio Dio, non fare così, va tutto bene...» Il coltello scivola a terra. Allunghi le mani verso di me, poi ti fermi, come indeciso. «Adesso ti curo». Sparisci un attimo. Quando torni piango più di prima. Ho paura, papà. Salvami, papà. Mi disinfetti, mi bendi, mi cambi il pannolino, pulisci il tavolo, metti il coltello nel lavabo. Tutto è tornato alla norma.
«Non ce la faccio, amore mio, sono un codardo». Mi prendi in braccio, mi porti in camera e mi metti sul letto. Da una robusta trave del soffitto, da qualche giorno, pende un cappio. Trascini uno sgabello per terra, legno su legno. Ci sali in piedi, mi guardi attraverso l’anello di corda. La tua voce è un sibilo appena udibile sopra agli scricchiolii della casa. «Non posso ucciderti. Ci penserà la natura a farlo. Be’, io allora vado.»
Una luce bianca si accende nel bosco, si avvicina, riempie le finestre. «Ma che–» È accecante e calda. Poi arrivano le scosse, e quando finisce tu ti sei ribaltato sullo sgabello e sei caduto all’indietro. Sbatti le palpebre un paio di volte, fesso come la trota che hai lanciato sul muro. Tre colpi sulla porta di casa. Ti volti, ma non ti alzi. Forse un oggetto trascinato dal vento? Altri tre colpi, ancora più forte. No, è qualcuno che bussa.
«Arrivo!» Urli. Agisci senza farti domande: mi prendi, esci dalla camera, chiudi la porta, mi lasci sul seggiolone, corri all’ingresso e apri.
«Tu chi...» La tua voce è spaventata. Lo straniero sul portico è alto e avvolto in un pesante mantello nero su cui si è accumulata la neve. Si regge allo stipite e ha il respiro pesante. Lo tiri dentro. «Entra, scaldati». Lo fai sedere di fronte al camino. «Togli le scarpe, saranno zuppe». Lo aiuti. Lui indossa dei guanti di pelle neri. «Togli anche quelli» consigli.
«No». La voce è grave. Abbassa la mantella e rivela una chioma dorata, umidiccia. È un giovanotto dal viso aggraziato. Ti rivolge un sorriso stanco.
«Ehm... Cosa ci faceva un bel ragazzo come te in mezzo alla bufera?»
Si schiarisce la gola. «Stavo tagliando la legna e mi sono perso. Non so da quanto vagassi nella foresta, quando ho visto la luce di casa.»
«È un miracolo che sei capitato alla mia fattoria, allora, degno della notte di Natale.» Ti siedi vicino a me.
Lo straniero mi sorride.
«Il bagliore di poco fa cosa è stato?» Chiedi.
«Bagliore?»
«Non hai visto niente? E le scosse?»
«Quali scosse?» Il suo volto è perplesso.
«Ah, non importa. Dove abiti, comunque?»
«Non molto lontano da qui».
«Davvero? Io e mia moglie ci siamo trasferiti quest’estate.»
«Capisco. E lei non c’è?»
«No, lei è...» Abbassi lo sguardo.
«Oh. Mi dispiace.» Lo straniero si alza. È alto. «Posso prenderlo in braccio?» Mi indica.
«A dire il vero...» Fai una risatina nervosa.
«Non preoccuparti, era una domanda inopportuna».
«Ma no, figurati». Cala il silenzio. Io faccio un vagito, entrambi vi girate a sorridermi. Poi torni a rivolgerti allo straniero: «Quindi, stavi tagliando la legna la notte di Natale?»
«Mi ero dimenticato di tale ricorrenza».
«Non la festeggi?»
«No, ho festeggiato Yule. Così mi è stato insegnato da chi mi ha cresciuto.»
«Ho capito. Be’, devono essere persone molto belle anche loro, vero? I tuoi genitori, intendo. Tu sei un bel ragazzo.»
«Mio padre non lo era. Ma non importa, non è lui che mi ha cresciuto, ho sempre fatto tutto da me.»
«Certo». Fai una breve pausa. «Ma che maleducato, sarai affamato. Vuoi qualcosa di caldo?»
«Volentieri».
«Arrivo subito». Ti dirigi a grandi passi in cucina.
Lo straniero aggiunge un ciocco di legno al camino. Si strofina le mani guantate e mi guarda a lungo. Mi sorride, gli sorrido. Mi fa la linguaccia, ricambio. Sollevo le braccia ed esclamo: «à!» Mi prende in braccio, mi fa dondolare e mi fa una carezza, stando attento a evitare la mano fasciata. Nel giro di non molto cado in uno stato di sonnolenza.
Quando rientri in soggiorno ti arresti a guardarci.
«Yule» sussurra lo straniero, «è un periodo magico. Non molti sanno che, durante un sabbat, il tempo si allinea con quelli di tutti gli anni passati e a venire.»
Lo ignori e lasci il piatto sul tavolo. «Ecco, trota e patate. Metti giù mio figlio e vieni a mangiare, finché è caldo.»
«Sissignore». Lui fa come dici. Con la forchetta, sbocconcella un po’. «Raccontami della mamma».
«La mamma?»
«La mamma del bambino».
Ti gratti una guancia. Rispondi docile, come assoggettato. «Lei era... tutto ciò che io non sono. L’ultimo Natale le ho promesso che saremmo venuti a vivere qui. Avevamo preparato tutto, dalle scorte per il bambino, ai semi per la primavera successiva. Ma poi... è stata colpa mia.»
«L’hai uccisa?» Chiede con noncuranza, piluccando una patata.
«Cosa? No! Come ti viene in mente? È stato il parto. Intendevo che–»
«C’è un frammento di ceramica nella mia trota» ti interrompe. «Se lo avessi ingoiato, avresti ammazzato anche me. E questa la chiami ospitalità? La madre avrebbe saputo fare di meglio.»
Scatti in piedi, la sedia cade, e tu picchi i palmi sul tavolo. «Come ti permetti? Entri in casa mia, ti scaldi al mio focolare, prendi in braccio mio figlio, mangi il mio cibo, e mi rispondi con questa impudenza?» Conosco quel tono, quello sguardo. Ho paura, papà.
Lui si alza a fronteggiarti. «Casa tua. Sono sicuro avessi tutto sotto controllo. Cos’è successo alla mano di tuo figlio?»
«Un incidente».
«Un incidente, appunto. E cosa facciamo adesso? Perderà la mano.»
«Come fai a dirlo?» Stai sbraitando. «Non l’hai manco vista la ferita! Chi credi di essere? Appena la bufera cessa, ti voglio fuori da casa mia.»
Mi sento il cuore in gola per tutto il baccano. Scoppio in lacrime e mi metto a gridare anch’io.
«Calmiamoci» dice lui, «lo stiamo spaventando». Mi solleva in braccio e mi dondola. In breve smetto di piangere. Tu fai per prendermi, ma io mi stringo di più a lui. «La fattoria era mia, una volta, sai?»
«Cosa?»
«Già. E mi piacerebbe fare il giro della casa. Ci sono tanti ricordi, legati.»
«Quante richieste hai ancora? È già tanto che non ti mando fuori a calci, a congelare. E solo perché è Natale.»
«Non è una richiesta». Senza aspettare risposta va in cucina.
«Aspetta!» Ci segui.
Lo straniero guarda l’orologio rotto, i cocci per terra, il coltello con il mio sangue secco nel lavabo. «Capisco» dice.
«Fermo, questo...»
«Tu non sei un buon padre». Mi stringo al suo petto. È comodo, è caldo, è casa. «Dov’è il corpo della madre?»
«Perché? Cosa vuoi farle?»
«Cosa voglio farle?» La sua voce è incollerita. «Portarle rispetto, tutto qui. Tu? Cosa vuoi farle? Le hai dato una sepoltura dignitosa? La collina dietro la casa è perfetta, lì fa ancora parte del terreno della fattoria. La mia fattoria.»
«E come avrei potuto? Il terreno è duro come ghiaccio, la bufera non si ferma un attimo.»
«Avresti dovuto provarci, e morire provandoci. Tanto non aspetti altro che raggiungerla, o no?»
«Tu». Ti scagli contro lo straniero, contro di noi, ma lui si volta e ti molla un calcio in pieno petto. Cadi a terra, annaspando, e bestemmi tra i denti. «Tu sei un demonio!»
Lui prende il coltello dall’acquaio. «Vattene dalla mia fattoria» ti intima, «tanto io sarò un padre migliore di quanto tu possa mai essere.»
«Ti ammazzo» sibili. «Vi ammazzo entrambi!» Ma quando ti rimetti in piedi, noi siamo già in camera da letto. Lui aggira il cappio e mi tiene ancora in braccio, e io mi reggo forte.
Quando arrivi, lui mi sta puntando contro il coltello. «Che c’è?» Ti sfida. «Non volevi ammazzarci? Sei un codardo. Se ci tieni a tuo figlio, raccogli quello sgabello e ucciditi. Forza.»
«No...» Scuoti la testa, trattenendo le lacrime. «No, no, no! Non voglio! Ho sbagliato, ma posso ancora, p-posso–»
«Hai fatto abbastanza». Ti punta contro il coltello con la sinistra. Poi lo lascia cadere e ti stringe la spalla con la mano guantata, ferrea. È alto, è forte. Non hai speranze. «Su».
Singhiozzando, trascini lo sgabello fino a sotto al cappio, sali, ci infili la testa.
«Stai facendo un errore. Ti prego. Non sei un assassino...»
«Tu non mi conosci. E mai avrai la possibilità di farlo. Davvero pensavi l’avrei ucciso? Non posso.» Dà un calcio allo sgabello, e tu finisci sospeso nel vuoto.
Ti dimeni, impazzito, e rantoli. Le vene dei tuoi occhi pulsano, rosse. Agiti le braccia, cerchi di afferrarmi, ma lui si sposta, e tu prendi il suo guanto sinistro e lo sfili. Terrorizzato, guardi la sua mano prostetica metallica, e guardi me.
Alla fine, non guardi più nulla.
«Buon Natale, papà» dico, mentre con la mano destra faccio una carezza al bambino e con la sinistra ti chiudo per sempre le palpebre.