[Lab11] Al parco
Posted: Sat Nov 25, 2023 12:58 pm
Prime letture 7-8
Il parco, adiacente alla scuola elementare, di pomeriggio era sempre gremito di gente. Al suono della campanella d'uscita, i bambini con i genitori completavano la giornata: gli uni a giocare in piccoli gruppi sparpagliati, gli altri a chiacchierare fra di loro. Ma c'era anche chi si annoiava e non vedeva l'ora di andarsene, soprattutto quei papà o mamme solitarie che facevano il palo per ore digitando sul cellulare. Alcuni di questi abbandonavano il campo, lasciando che i figli più grandi tornassero a casa da soli.
“Facciamo le squadre: Io, Giovanni, Leonardo, Marco e Nilay; contro Luigi, Andrea, Pietro, Carlo e Tommy” sentenziò Giuseppe senza chiedere a nessuno.
“Non vale: Giovanni e Marco sono molto più forti, e anche Nilay in porta non lo batte nessuno” rispose Pietro.
“Va bene, vi diamo Marco e ci prendiamo... Carlo.”
“No, Carlo no. Prendete Andrea.”
“Andrea? No! È come non avere nessuno.”
“E perché ce lo dobbiamo tenere noi?”
“Allora tiriamo a sorte.”
Andrea si allontanò senza dire nulla.
“Abbiamo risolto il problema” disse Giuseppe.
“No. Ora siamo cinque contro quattro” rispose un altro.
“Posso giocare io?” chiese Martina.
“Una femmina? Forse è meglio che vai a giocare con le bamboline” ridacchiò Pietro, seguito da altre risatine provenienti dal gruppo.
“Lascia perdere quegli stupidi, andiamo” le si rivolse Anna, la sua amica.
“Sì, è meglio.”
Andrea aveva notato un bambino vicino a un albero, intento a fissare il tronco: “Cosa fai?” gli chiese.
"Guardo le formiche.”
“Dove?”
“Qui, vedi? Quelle che salgono portano il cibo, quelle che scendono non hanno niente.”
“Perché?”
“Lassù ci deve essere il loro formicaio” indicò con la mano “poi vanno giù per trovare altre cose da mangiare.”
“E da dove le prendono?”
“Non lo so, ma è una fila lunghissima. Proviamo a seguirle.”
“Goal!” esultò Giuseppe con le braccia al cielo.
“Non vale, hai fatto fallo!” gli rispose Pietro steso a terra.
“Ma se sei caduto da solo, non fare scenate!”
“Non gioco più, me ne vado.”
“Come ti chiami?”
“Leo.”
“Piacere, io sono Andrea. Guarda, vanno per di qua.”
I due bambini seguirono il percorso dei piccoli insetti che in un'unica colonna si allungava per metri e metri: prima sul prato, poi attraverso uno stradello di ghiaia, per proseguire sul bordo di un marciapiede.
“Saranno almeno dieci metri” le seguì con lo sguardo Andrea.
“Eccole da dove partono!” rispose Leo entusiasta, come se avesse scoperto un tesoro.
Ai piedi di un cestino che strabordava di rifiuti, erano caduti avanzi di cibo. Una piccola macchia scura vibrante ricopriva un pezzo di tramezzino, mentre un altro assembramento, una coppetta vuota di gelato, con dei residui di panna e cioccolato.
“Passa la palla! Passa! Che cavolo! fai sempre tutto da solo” si lamentò un compagno di Giuseppe.
Il pallone arrivò nella mani del portiere che rinviò. La palla prese una traiettoria verso l'alto e ricadde a terra con alti rimbalzi. Giuseppe non si fece mancare all'appuntamento e calciò forte il pallone colpendolo a mezz'aria con un tiro sbilenco che andò oltre la recinzione del campetto, superò i binari di una ferrovia abbandonata vicina, per finire al di là di una siepe con una la rete arrugginita che delimitava il giardino di una decadente casa dai muri scrostati.
“Bravo!” Tutti a lamentarsi verso il bambino che non risultava simpatico neanche ai suoi compagni di squadra. “Ora vai tu a prenderlo dalla vecchia strega.” dissero in coro.
“Mangia anche i bambini” intervenne un piccolo spettatore che aveva assistito alla scena al bordo del campo.
La casa era abitata da un'anziana signora che non godeva di buona fama. Sempre rinchiusa tra le mura o nel giardino, protetto dalla vista esterna da un'alta e fitta siepe che lo delimitava. Chi era riuscito a vederla era rimasto colpito dal suo aspetto raccapricciante, tanto che in molti la chiamavano strega. Ogni tanto si sentiva solo la sua voce dalle finestre aperte. Urlava, delirando sempre contro qualcuno: “Con quei fucili sparatevi nelle chiappe!” oppure: “Morirete tutti di peste bubbonica!”
Giuseppe con la sua spavalderia non esitò: “Che fifoni, ci penso io a recuperare la palla.”
“Rifacciamo il percorso verso l'albero?” chiese Andrea.
“Sì, andiamo a vedere dove si trova il formicaio.”
Tornati alla base dell'albero Leo incitò l'amico: “Dai, arrampichiamoci.”
“Ok, anche se non sono molto bravo” rispose Andrea. Poi, mentre aveva puntato un piede e fatto presa con la mano su un ramo, mostrò una smorfia come di ribrezzo: “E questo cos'è!” esclamò.
“Niente, è solo lo scheletro di una cicala.”
“Ehhh!” rispose esterrefatto. Poi il suo sguardo si fece pensieroso, riflessivo, come sospeso.
“Cos'è quella faccia?” chiese Leo.
“Allora è proprio vero.”
“Che cosa?”
“Come nella favola: la cicala muore di fame e freddo e le formiche si salvano perché fanno le provviste per l'inverno.”
Giuseppe superò la ferrovia, si arrampicò sulla rete metallica e saltò giù sull'erba della casa della strega. Tutti gli altri, rimasti al campetto, videro la scena e presi dalla paura se la diedero a gambe. Entrato nel giardino non fu più così temerario. Rimase colpito da una serie di piante grasse che si sviluppavano verso l'alto e si contorcevano le une con le altre. Sembravano dei serpenti spinosi aggrovigliati, come se le spine dei cactus spuntassero dalla pelle dei rettili. Intorno, strane sculture di legno che sembravano dei totem, decorate con pezzi di vetro e altro materiale di riciclo, culminavano con delle teste di animali fantastici; poi piante che non aveva mai visto, con delle foglie enormi e altre con fiori penduli arancioni. Mosse qualche passo e vide la palla incastrata in un cespuglio. Si avvicinò per prenderla ma fu sorpreso da qualcosa che si muoveva: “Ahhh!” cacciò un urlo. Un grosso ratto bianco sbucò da una finestra aperta, seguito da un altro esemplare identico. Giuseppe rimase paralizzato dalla paura. I due toponi lo ignorarono e si diressero verso una ruota giocattolo, che assomigliava a una giostra panoramica. Entrarono all'interno e iniziarono a muovere le zampette facendola girare, compiendo piroette e giri della morte.
Giuseppe, incuriosito, osservò con stupore. Poi una voce proveniente dalla casa: “Jimmy! Dora! Dove siete finiti!” Una stravagante signora con una lunga vestaglia colorata mise piede fuori. “Eccovi qua! Eravate a far palestra? Ma vedo qualcun altro... mm... carne tenera fresca di bambino” disse sfregandosi le mani. Neanche il tempo di vedere la faccia sconvolta di Giuseppe che riprese subito: “Stavo scherzando, sono vegetariana da più di cinquant'anni.”
“Ho sbagliato, non è proprio uno scheletro e la cicala non muore anzi, rinasce” disse Leo.
“Come?” rispose Andrea.
“Quello che vedi è come una specie di rivestimento. Quando nascono, le cicale sono delle larve che vivono sotto terra. Poi risalgono arrampicandosi sul tronco dell'albero e quando sono pronte si liberano della pelle che le rivestivano e diventano cicale con le ali.”
“Con le ali? Perché, volano?"
“Sì, ce n'è una proprio davanti a te.”
“Non vedo niente.”
“Prova a muovere il braccio.”
Andrea fece scivolare il braccio sul tronco e una cicala ben mimetizzata volò via per posarsi in una parte più alta del tronco.
“Ma pensa! È la prima volta che le vedo. Ma come fai a sapere tutte queste cose?"
"Un libro sulle curiosità della natura che mi ha regalato mio papà."
I due ratti, appena videro la loro amata signora, si fiondarono sulle sue spalle, uno a destra e l'altro a sinistra della testa.
"Che carini" si lasciò sfuggire una tenerezza Giuseppe.
"Sono molto affettuosi. Vuoi provare a prenderli?"
"Nooo... mi fanno impressione."
"Dai, prova" prese i due topi e li posò sulle spalle di Giuseppe, paralizzato.
"Ah, ah... mi fanno il solletico" farfugliò mentre Dora e Jimmy gli annusavano il collo. "Da dove arrivano?" continuò.
"Da una gabbia. Cavie di laboratorio per testare i profumi."
"Cosa vuol dire testare?"
"Vuol dire che sperimentano i profumi sui topolini, per vedere se possono provocare delle reazioni alla pelle. Infatti quando li abbiamo liberati ce l'avevano tutta arrossata con perdite del pelo a macchie. Ora mi sembra che facciano una vita migliore. Tutti ne abbiamo il diritto.
“Perché non giochiamo a prenderle?” disse Leo.
“Ho paura. Ma non mordono?”
“No, non mordono, le ho prese tante volte. Vediamo chi ne prende di più, le teniamo nel pugno e poi le liberiamo.”
“Va bene, ci provo.” Andrea ne aveva individuate due o tre, sventolò delle manate: “Ma è impossibile!”
“No, guarda.” Leo aprì il pugno e una cicala volò subito via. “Uno a zero.”
“Ora devo andare, i miei genitori mi sgridano se faccio tardi” disse Giuseppe.
“Puoi uscire anche dal cancello senza che ti arrampichi. Prendi, questa dev'essere tua” gli porse la palla.
“Grazie.”
“Se sei interessato nasceranno dei cuccioli fra un po'.”
“Figuriamoci, i miei genitori non vogliono neanche un gatto, che glielo chiedo da tanto tempo, dicono che fa la pipì e la cacca che puzza.”
“Beh, hanno ragione, la mia cacca profuma di rosa, la vostra magari di violetta.”
Il bambino si mise a ridere poi continuò: “Invece i topi li ammazzano con il veleno.”
“Già, dimenticavo questa abitudine. Comunque io sono la strega Mary. Per gli amici, solo Mary. E tu?”
“Giuseppe.”
“Bene Giuseppe, quando vuoi puoi venire a giocare qui con i topolini, si divertono anche loro.”
“Grazie.”
Il bambino riattraversò il parco. Passando vicino a un grande albero, vide altri due arrampicati che giocavano. Ne riconobbe uno.
“Ciao Andrea. Che fate lassù?” chiese Giuseppe.
Andrea rimase di stucco, non lo aveva mai salutato fino a ora. Poi intervenne Leo:
“Giochiamo a prendere le cicale.”
“Bello! Ci siete anche domani? Ora devo andare se no si arrabbiano i miei genitori.”
“Certo.” rispose Leo.”
“Andreaaa!” si senti urlare. “Andiamo che è tardi!”
“Con la ricerca di queste cicale ci siamo dimenticati di vedere dove si trova il formicaio.” disse Leo.
“Così sappiamo come continuare il gioco e avremo un nuovo compagno. A domani.” chiuse Andrea.
“Arrivo mamma!”
Il parco, adiacente alla scuola elementare, di pomeriggio era sempre gremito di gente. Al suono della campanella d'uscita, i bambini con i genitori completavano la giornata: gli uni a giocare in piccoli gruppi sparpagliati, gli altri a chiacchierare fra di loro. Ma c'era anche chi si annoiava e non vedeva l'ora di andarsene, soprattutto quei papà o mamme solitarie che facevano il palo per ore digitando sul cellulare. Alcuni di questi abbandonavano il campo, lasciando che i figli più grandi tornassero a casa da soli.
“Facciamo le squadre: Io, Giovanni, Leonardo, Marco e Nilay; contro Luigi, Andrea, Pietro, Carlo e Tommy” sentenziò Giuseppe senza chiedere a nessuno.
“Non vale: Giovanni e Marco sono molto più forti, e anche Nilay in porta non lo batte nessuno” rispose Pietro.
“Va bene, vi diamo Marco e ci prendiamo... Carlo.”
“No, Carlo no. Prendete Andrea.”
“Andrea? No! È come non avere nessuno.”
“E perché ce lo dobbiamo tenere noi?”
“Allora tiriamo a sorte.”
Andrea si allontanò senza dire nulla.
“Abbiamo risolto il problema” disse Giuseppe.
“No. Ora siamo cinque contro quattro” rispose un altro.
“Posso giocare io?” chiese Martina.
“Una femmina? Forse è meglio che vai a giocare con le bamboline” ridacchiò Pietro, seguito da altre risatine provenienti dal gruppo.
“Lascia perdere quegli stupidi, andiamo” le si rivolse Anna, la sua amica.
“Sì, è meglio.”
Andrea aveva notato un bambino vicino a un albero, intento a fissare il tronco: “Cosa fai?” gli chiese.
"Guardo le formiche.”
“Dove?”
“Qui, vedi? Quelle che salgono portano il cibo, quelle che scendono non hanno niente.”
“Perché?”
“Lassù ci deve essere il loro formicaio” indicò con la mano “poi vanno giù per trovare altre cose da mangiare.”
“E da dove le prendono?”
“Non lo so, ma è una fila lunghissima. Proviamo a seguirle.”
“Goal!” esultò Giuseppe con le braccia al cielo.
“Non vale, hai fatto fallo!” gli rispose Pietro steso a terra.
“Ma se sei caduto da solo, non fare scenate!”
“Non gioco più, me ne vado.”
“Come ti chiami?”
“Leo.”
“Piacere, io sono Andrea. Guarda, vanno per di qua.”
I due bambini seguirono il percorso dei piccoli insetti che in un'unica colonna si allungava per metri e metri: prima sul prato, poi attraverso uno stradello di ghiaia, per proseguire sul bordo di un marciapiede.
“Saranno almeno dieci metri” le seguì con lo sguardo Andrea.
“Eccole da dove partono!” rispose Leo entusiasta, come se avesse scoperto un tesoro.
Ai piedi di un cestino che strabordava di rifiuti, erano caduti avanzi di cibo. Una piccola macchia scura vibrante ricopriva un pezzo di tramezzino, mentre un altro assembramento, una coppetta vuota di gelato, con dei residui di panna e cioccolato.
“Passa la palla! Passa! Che cavolo! fai sempre tutto da solo” si lamentò un compagno di Giuseppe.
Il pallone arrivò nella mani del portiere che rinviò. La palla prese una traiettoria verso l'alto e ricadde a terra con alti rimbalzi. Giuseppe non si fece mancare all'appuntamento e calciò forte il pallone colpendolo a mezz'aria con un tiro sbilenco che andò oltre la recinzione del campetto, superò i binari di una ferrovia abbandonata vicina, per finire al di là di una siepe con una la rete arrugginita che delimitava il giardino di una decadente casa dai muri scrostati.
“Bravo!” Tutti a lamentarsi verso il bambino che non risultava simpatico neanche ai suoi compagni di squadra. “Ora vai tu a prenderlo dalla vecchia strega.” dissero in coro.
“Mangia anche i bambini” intervenne un piccolo spettatore che aveva assistito alla scena al bordo del campo.
La casa era abitata da un'anziana signora che non godeva di buona fama. Sempre rinchiusa tra le mura o nel giardino, protetto dalla vista esterna da un'alta e fitta siepe che lo delimitava. Chi era riuscito a vederla era rimasto colpito dal suo aspetto raccapricciante, tanto che in molti la chiamavano strega. Ogni tanto si sentiva solo la sua voce dalle finestre aperte. Urlava, delirando sempre contro qualcuno: “Con quei fucili sparatevi nelle chiappe!” oppure: “Morirete tutti di peste bubbonica!”
Giuseppe con la sua spavalderia non esitò: “Che fifoni, ci penso io a recuperare la palla.”
“Rifacciamo il percorso verso l'albero?” chiese Andrea.
“Sì, andiamo a vedere dove si trova il formicaio.”
Tornati alla base dell'albero Leo incitò l'amico: “Dai, arrampichiamoci.”
“Ok, anche se non sono molto bravo” rispose Andrea. Poi, mentre aveva puntato un piede e fatto presa con la mano su un ramo, mostrò una smorfia come di ribrezzo: “E questo cos'è!” esclamò.
“Niente, è solo lo scheletro di una cicala.”
“Ehhh!” rispose esterrefatto. Poi il suo sguardo si fece pensieroso, riflessivo, come sospeso.
“Cos'è quella faccia?” chiese Leo.
“Allora è proprio vero.”
“Che cosa?”
“Come nella favola: la cicala muore di fame e freddo e le formiche si salvano perché fanno le provviste per l'inverno.”
Giuseppe superò la ferrovia, si arrampicò sulla rete metallica e saltò giù sull'erba della casa della strega. Tutti gli altri, rimasti al campetto, videro la scena e presi dalla paura se la diedero a gambe. Entrato nel giardino non fu più così temerario. Rimase colpito da una serie di piante grasse che si sviluppavano verso l'alto e si contorcevano le une con le altre. Sembravano dei serpenti spinosi aggrovigliati, come se le spine dei cactus spuntassero dalla pelle dei rettili. Intorno, strane sculture di legno che sembravano dei totem, decorate con pezzi di vetro e altro materiale di riciclo, culminavano con delle teste di animali fantastici; poi piante che non aveva mai visto, con delle foglie enormi e altre con fiori penduli arancioni. Mosse qualche passo e vide la palla incastrata in un cespuglio. Si avvicinò per prenderla ma fu sorpreso da qualcosa che si muoveva: “Ahhh!” cacciò un urlo. Un grosso ratto bianco sbucò da una finestra aperta, seguito da un altro esemplare identico. Giuseppe rimase paralizzato dalla paura. I due toponi lo ignorarono e si diressero verso una ruota giocattolo, che assomigliava a una giostra panoramica. Entrarono all'interno e iniziarono a muovere le zampette facendola girare, compiendo piroette e giri della morte.
Giuseppe, incuriosito, osservò con stupore. Poi una voce proveniente dalla casa: “Jimmy! Dora! Dove siete finiti!” Una stravagante signora con una lunga vestaglia colorata mise piede fuori. “Eccovi qua! Eravate a far palestra? Ma vedo qualcun altro... mm... carne tenera fresca di bambino” disse sfregandosi le mani. Neanche il tempo di vedere la faccia sconvolta di Giuseppe che riprese subito: “Stavo scherzando, sono vegetariana da più di cinquant'anni.”
“Ho sbagliato, non è proprio uno scheletro e la cicala non muore anzi, rinasce” disse Leo.
“Come?” rispose Andrea.
“Quello che vedi è come una specie di rivestimento. Quando nascono, le cicale sono delle larve che vivono sotto terra. Poi risalgono arrampicandosi sul tronco dell'albero e quando sono pronte si liberano della pelle che le rivestivano e diventano cicale con le ali.”
“Con le ali? Perché, volano?"
“Sì, ce n'è una proprio davanti a te.”
“Non vedo niente.”
“Prova a muovere il braccio.”
Andrea fece scivolare il braccio sul tronco e una cicala ben mimetizzata volò via per posarsi in una parte più alta del tronco.
“Ma pensa! È la prima volta che le vedo. Ma come fai a sapere tutte queste cose?"
"Un libro sulle curiosità della natura che mi ha regalato mio papà."
I due ratti, appena videro la loro amata signora, si fiondarono sulle sue spalle, uno a destra e l'altro a sinistra della testa.
"Che carini" si lasciò sfuggire una tenerezza Giuseppe.
"Sono molto affettuosi. Vuoi provare a prenderli?"
"Nooo... mi fanno impressione."
"Dai, prova" prese i due topi e li posò sulle spalle di Giuseppe, paralizzato.
"Ah, ah... mi fanno il solletico" farfugliò mentre Dora e Jimmy gli annusavano il collo. "Da dove arrivano?" continuò.
"Da una gabbia. Cavie di laboratorio per testare i profumi."
"Cosa vuol dire testare?"
"Vuol dire che sperimentano i profumi sui topolini, per vedere se possono provocare delle reazioni alla pelle. Infatti quando li abbiamo liberati ce l'avevano tutta arrossata con perdite del pelo a macchie. Ora mi sembra che facciano una vita migliore. Tutti ne abbiamo il diritto.
“Perché non giochiamo a prenderle?” disse Leo.
“Ho paura. Ma non mordono?”
“No, non mordono, le ho prese tante volte. Vediamo chi ne prende di più, le teniamo nel pugno e poi le liberiamo.”
“Va bene, ci provo.” Andrea ne aveva individuate due o tre, sventolò delle manate: “Ma è impossibile!”
“No, guarda.” Leo aprì il pugno e una cicala volò subito via. “Uno a zero.”
“Ora devo andare, i miei genitori mi sgridano se faccio tardi” disse Giuseppe.
“Puoi uscire anche dal cancello senza che ti arrampichi. Prendi, questa dev'essere tua” gli porse la palla.
“Grazie.”
“Se sei interessato nasceranno dei cuccioli fra un po'.”
“Figuriamoci, i miei genitori non vogliono neanche un gatto, che glielo chiedo da tanto tempo, dicono che fa la pipì e la cacca che puzza.”
“Beh, hanno ragione, la mia cacca profuma di rosa, la vostra magari di violetta.”
Il bambino si mise a ridere poi continuò: “Invece i topi li ammazzano con il veleno.”
“Già, dimenticavo questa abitudine. Comunque io sono la strega Mary. Per gli amici, solo Mary. E tu?”
“Giuseppe.”
“Bene Giuseppe, quando vuoi puoi venire a giocare qui con i topolini, si divertono anche loro.”
“Grazie.”
Il bambino riattraversò il parco. Passando vicino a un grande albero, vide altri due arrampicati che giocavano. Ne riconobbe uno.
“Ciao Andrea. Che fate lassù?” chiese Giuseppe.
Andrea rimase di stucco, non lo aveva mai salutato fino a ora. Poi intervenne Leo:
“Giochiamo a prendere le cicale.”
“Bello! Ci siete anche domani? Ora devo andare se no si arrabbiano i miei genitori.”
“Certo.” rispose Leo.”
“Andreaaa!” si senti urlare. “Andiamo che è tardi!”
“Con la ricerca di queste cicale ci siamo dimenticati di vedere dove si trova il formicaio.” disse Leo.
“Così sappiamo come continuare il gioco e avremo un nuovo compagno. A domani.” chiuse Andrea.
“Arrivo mamma!”