[H23] Mio nonno è un non morto
Posted: Sat Nov 04, 2023 10:06 pm
Traccia: Percorso del mistero.
Per amore si possono fare le più grandi follie. In genere si crede che smuova le corde più nobili dell’animo umano: altruismo, empatia, sacrificio; ma questa non è tutta la verità. L’amore rende ciechi, ottusi, inesorabilmente sofferenti. Io stessa ho visto compiere i più grandi orrori in nome dell’amore. Avrei dovuto saperlo, avrei dovuto capirlo, e invece quella sera sono stata un’ingenua e ho assecondato mio nonno.
La sera di Halloween, mia madre aveva accompagnato mio fratello minore a fare dolcetto o scherzetto, mentre io, visto anche che non ho mai avuto molti amici, ero rimasta a casa a badare al nonno. Ora, dovete sapere che mio nonno era molto debole e anziano e, da qualche anno, non c’era quasi più con la testa, perciò qualcuno doveva sempre restare con lui. Ma non mi dispiaceva, avevamo un bel rapporto: mi piaceva sentirlo parlare dei vecchi tempi, di quando aveva conosciuto la nonna, mentre a lui piaceva guardare film con me o farsi leggere libri ad alta voce.
Già da qualche giorno era molto entusiasta ed irrequieto per il 31 ottobre. Sarebbero stati sessantasei anni esatti da quando lui e la nonna si erano conosciuti. Quando gli domandai perché gli importasse tanto quella cifra, mi disse che le stelle in cielo sarebbero state allineate come quella lontana notte quando erano giovani.
Mi chiese di preparare un travestimento per spaventare i bambini che sarebbero venuti a chiedere dolciumi alla porta. Era strano, non l’aveva mai chiesto gli anni prima, ma fui contenta di accettare e stare a un gioco innocuo. Mio nonno riconosceva a malapena quelli che gli stavano attorno e la sua mente si muoveva in maniera misteriosa.
Lo truccai da non morto, come mi aveva chiesto. Io indossai una semplice maschera di gomma con le corna. Mi chiese di uscire a guardare le stelle. Io allora lo presi sottobraccio e lo accompagnai in giardino. L’aria era statica e pungente, i nostri respiri formavano nuvole di vapore che si mischiavano alla nebbia. Il prato era bagnato e coperto da foglie rosse e gialle. Il silenzio era pesante quanto la nebbia e solo di tanto in tanto si sentivano risolini dei bimbi. Il nonno alzò lo sguardo al cielo. La luce della luna diffusa dalla foschia ne rischiarava i radi capelli grigi, la pelle terrea truccata con ferite finte, le rughe. La sua espressione era serissima, tetra. Un brivido gelido mi percorse la schiena, come se accanto a me ci fosse davvero un morto vivente.
Poi emise un lungo respiro e un colpo di tosse e biascicò un commento sul cielo coperto. Gli proposi di rientrare al caldo, ma lui non mi sentì o fece finta. Mi domandò se mi avesse mai detto di come avesse conosciuto la nonna. Naturalmente avevo sentito quella storia decine e decine di volte, ma sorrisi e lo lasciai raccontare. Si era trasferito in paese sessantasei anni prima e, ad Halloween, si era vestito da zombie ed era uscito con qualche altro ragazzo che aveva conosciuto da poco; e là, nella compagnia di gente mascherata, aveva visto lei, il viso truccato da teschio, e lei aveva visto lui. Quella sera stessa erano entrati da soli nel cimitero e lì si erano dati il primo bacio.
Quando il nonno tacque, rincasammo e mi diressi verso il divano, col proposito di vedere un film dell’orrore assieme: aveva sempre amato il genere, oltre ai western. Lui, però, restò in piedi e mi chiese di accompagnarlo nel seminterrato, a rovistare tra le cose di nonna. Mi lasciò interdetta e guardai i suoi occhi vitrei, incassati nel volto truccato da non morto, che riflettevano la luce della lampadina del soggiorno. In fondo a quello sguardo vidi comparire un barlume di vita. Era pericoloso per lui scendere la scalinata lunga e stretta, ma accettai a malincuore. Quella sera aveva abbandonato la sua solita passività e lo vedevo particolarmente romantico e nostalgico.
Lo presi per mano e andammo al piano di sotto. Mi indicò con certezza uno scatolone specifico; io spostai quelli che stavano sopra e lo aprii. Dentro c’erano vestiti da signora d’altri tempi. Presi una sedia per il nonno e lo aiutai a tirare fuori gli abiti della nonna.
Un sorriso agrodolce increspò il suo volto rugoso mentre le mani tremanti carezzavano il tessuto. Nonostante la tenerezza del momento, però, non potevo fare a meno di sentirmi inquieta. Il nonno afferrava un vestito dopo l’altro in maniera meccanica, senza dire una parola. Il suo respiro stava diventando simile a rantoli. Col passare dei minuti silenziosi, il trucco da non morto e la luce fioca rendevano il tutto surreale.
Si fermò solo quando strinse tra le mani un abito bianco, semplice, con sopra ricamati dei gigli. Prese a tremare più forte, i suoi occhi si inumidirono e le lacrime rigarono il trucco sul volto. Mi chiese di togliermi la maschera, e obbedii. Prese allora a dirmi quanto somigliassi alla nonna. Me lo diceva spesso, in realtà, ma alla vista di tutto quel dolore, non potei fare a meno di abbracciarlo. Erano passati undici anni da quando la malattia aveva portato via la nonna.
Mi disse di provare l’abito e che, se mi fosse piaciuto, avrei potuto tenerlo. C’era qualcosa di strano in tutto ciò, ma lo feci per accontentarlo: mi misi dietro una colonna del seminterrato, mi abbassai i pantaloni e mi tolsi la maglietta. L’aria era fredda e umida. Nonostante fossi nascosta, mi sentivo gli occhi del nonno addosso. Mi sbrigai a indossare il vestito e tornai a farmi vedere.
Lui si era alzato dalla sedia e mi guardava con occhi spenti, spalle curve, respiro regolare, bocca semiaperta, viso inespressivo. Feci una piroetta su me stessa e risi, nervosa, per spezzare la tensione che non riuscivo a spiegarmi.
Mi aspettavo avrebbe affermato che ero identica a lei, che ero incantevole, o qualunque delle cose che spesso diceva. Invece, senza cambiare espressione, con voce gutturale e affaticata, disse che quello era l’abito che la nonna aveva addosso quando era morta. Rabbrividii, una smorfia di disgusto. Non ricordo cosa replicai, se risi per scaricare l’ansia o se commentai quanto fosse di cattivo gusto. Ricordo però che cercai subito di togliere il vestito. Il nonno mi fermò e ne afferrò un lembo tra le dita.
La sua voce sembrava venire dal fondo di una tomba. Mi supplicò di accompagnarlo fuori di casa, senza dire niente alla mamma, e di andare con lui al cimitero. Il cimitero in cui lui e la nonna si erano conosciuti. Il cimitero in cui la nonna era sepolta. Cercai di indietreggiare. Lui mi strinse un braccio con una forza che non aveva mai avuto prima. Diceva frasi sconnesse, mi pregava di non scappare, di non togliere l’abito della nonna. Le parole biascicate e i colpi di tosse somigliavano ai rantoli di un non morto, e io avevo sempre più paura.
Ancora una volta parlò di quando lui e la nonna si erano conosciuti, ma aggiunse un tassello che non mi aveva mai rivelato: quella sera di sessantasei anni prima, loro due avevano stretto un patto di sangue. Tirò fuori da una tasca della vestaglia uno spillo che aveva recuperato chissà dove tra gli scatoloni. Si punse un polpastrello e passò la mano sulla mia spalla. Lasciò una strisciolina rossa sul vestito in cui nonna era morta.
Non so dire se fu una terribile coincidenza o meno, ma subito saltò la corrente. Ci ritrovammo al buio. Approfittai dello stupore per liberarmi della presa del nonno. Corsi verso le scale che riportavano al piano di sopra. Gli gridai di aspettarmi laggiù, che sarei andata al contatore per far tornare la luce, ma lo feci solo per sentire il suono della mia voce e dare una parvenza di normalità a quello che stava accadendo. Non volevo ammettere neanche a me stessa di essere terrorizzata. In risposta, però, ci fu una risata sinistra alle mie spalle.
Cercai di convincermi che andasse tutto bene, che se avessi riportato la luce avrei cancellato tutta quella faccenda inquietante e io e il nonno saremmo potuti tornare a guardare un film come se nulla fosse. Però più correvo e più mi sentivo sprofondare nella disperazione. Non riuscivo a trovare le scale. Quell’oscurità sembrava essere diventata un luogo sconfinato e senza via d’uscita.
Inciampai in uno scatolone e rovinai a terra. In un attimo il nonno mi fu addosso. Salì cavalcioni sopra di me e mi tenne giù con forza ultraterrena. Si chinò, ringhiando e battendo i denti. Il suo alito aveva il puzzo di mille tombe scoperchiate. Avvicinò le sue labbra alle mie, e capii con orrore che nella sua testa io e la nonna eravamo ormai la stessa persona.
Allungai allora una mano sulla sua faccia, ma la sentii affondare in ferite che ora sembravano reali. Salii odore di marcescenza, mentre il nonno ansimava sempre più forte. Mi afferrò un dito coi pochi denti rimastigli e morse con forza, ancora e ancora. Gridai con tutto il fiato che avevo nei polmoni. Cercai di divincolarmi, ma più tiravo più lui stringeva i denti. Con un odioso rumore secco la mano fu libera, e lui prese a masticare il dito staccato. Credetti di impazzire per il dolore. Gli strillai di fermarsi e lasciarmi andare, ma dalla bocca mi usciva una voce che non era la mia.
Mi sentii paralizzata da un’energia fredda e pesante, mi si riempì il petto di un ribollire caldo, il dolore fluì via e la mente fu inondata da ricordi non miei, ricordi che fino ad allora avevo solo sentiti narrati dal nonno. Parlai, e il suono delle parole che pronunciai mi rievocò un ricordo lontano dell’infanzia, di quando la nonna era ancora viva: «Fermati, amore mio. Vieni da me, ti aspetto al cimitero se vuoi, ma tieni nostra nipote fuori da tutto questo.»
Il nonno mollò la presa e smise di grugnire. Tra i respiri affannati, prese a singhiozzare. Io allora mi divincolai e lo colpii in petto con un calcio. Lo sollevai e me lo spostai di dosso. Lui riprese a ringhiare e lo sentii correre via, rapido lungo i gradini, e dal suono sembrò che stesse correndo a quattro zampe. Sbatté la porta in cima alla scalinata. Dal piano di sopra venne un baccano infernale, poi ancora un rumore forte di qualcosa che picchiava, poi più nulla.
Quando tornò la luce, rimasi sdraiata a terra a fissare la lampadina sul soffitto, e gli scatoloni e gli abiti della nonna sparsi sul pavimento del seminterrato. Dal piano di sopra soffiava un vento freddo che portava l’odore dell’autunno. Il pulsare della mano era insopportabile e, poco dopo, persi i sensi per il trauma e il dolore.
Mio nonno non fu più visto dopo quella sera. I vicini erano venuti a controllare cosa fosse tutto quel rumore e avevano trovato la porta d’ingresso spalancata, la casa a soqquadro e me svenuta nel seminterrato. Avevano subito chiamato mia madre, e un’ambulanza per la mia mano.
Dopo qualche giorno che mamma aveva riordinato casa, ci accorgemmo che la vanga era sparita, e lo collegammo allora alla profanazione della tomba della nonna e alla sparizione delle sue ossa, la notte di Halloween. Ancora oggi, però, mi rifiuto di dare una spiegazione al perché la bara fu trovata sfondata dall’interno.
Per amore si possono fare le più grandi follie. In genere si crede che smuova le corde più nobili dell’animo umano: altruismo, empatia, sacrificio; ma questa non è tutta la verità. L’amore rende ciechi, ottusi, inesorabilmente sofferenti. Io stessa ho visto compiere i più grandi orrori in nome dell’amore. Avrei dovuto saperlo, avrei dovuto capirlo, e invece quella sera sono stata un’ingenua e ho assecondato mio nonno.
La sera di Halloween, mia madre aveva accompagnato mio fratello minore a fare dolcetto o scherzetto, mentre io, visto anche che non ho mai avuto molti amici, ero rimasta a casa a badare al nonno. Ora, dovete sapere che mio nonno era molto debole e anziano e, da qualche anno, non c’era quasi più con la testa, perciò qualcuno doveva sempre restare con lui. Ma non mi dispiaceva, avevamo un bel rapporto: mi piaceva sentirlo parlare dei vecchi tempi, di quando aveva conosciuto la nonna, mentre a lui piaceva guardare film con me o farsi leggere libri ad alta voce.
Già da qualche giorno era molto entusiasta ed irrequieto per il 31 ottobre. Sarebbero stati sessantasei anni esatti da quando lui e la nonna si erano conosciuti. Quando gli domandai perché gli importasse tanto quella cifra, mi disse che le stelle in cielo sarebbero state allineate come quella lontana notte quando erano giovani.
Mi chiese di preparare un travestimento per spaventare i bambini che sarebbero venuti a chiedere dolciumi alla porta. Era strano, non l’aveva mai chiesto gli anni prima, ma fui contenta di accettare e stare a un gioco innocuo. Mio nonno riconosceva a malapena quelli che gli stavano attorno e la sua mente si muoveva in maniera misteriosa.
Lo truccai da non morto, come mi aveva chiesto. Io indossai una semplice maschera di gomma con le corna. Mi chiese di uscire a guardare le stelle. Io allora lo presi sottobraccio e lo accompagnai in giardino. L’aria era statica e pungente, i nostri respiri formavano nuvole di vapore che si mischiavano alla nebbia. Il prato era bagnato e coperto da foglie rosse e gialle. Il silenzio era pesante quanto la nebbia e solo di tanto in tanto si sentivano risolini dei bimbi. Il nonno alzò lo sguardo al cielo. La luce della luna diffusa dalla foschia ne rischiarava i radi capelli grigi, la pelle terrea truccata con ferite finte, le rughe. La sua espressione era serissima, tetra. Un brivido gelido mi percorse la schiena, come se accanto a me ci fosse davvero un morto vivente.
Poi emise un lungo respiro e un colpo di tosse e biascicò un commento sul cielo coperto. Gli proposi di rientrare al caldo, ma lui non mi sentì o fece finta. Mi domandò se mi avesse mai detto di come avesse conosciuto la nonna. Naturalmente avevo sentito quella storia decine e decine di volte, ma sorrisi e lo lasciai raccontare. Si era trasferito in paese sessantasei anni prima e, ad Halloween, si era vestito da zombie ed era uscito con qualche altro ragazzo che aveva conosciuto da poco; e là, nella compagnia di gente mascherata, aveva visto lei, il viso truccato da teschio, e lei aveva visto lui. Quella sera stessa erano entrati da soli nel cimitero e lì si erano dati il primo bacio.
Quando il nonno tacque, rincasammo e mi diressi verso il divano, col proposito di vedere un film dell’orrore assieme: aveva sempre amato il genere, oltre ai western. Lui, però, restò in piedi e mi chiese di accompagnarlo nel seminterrato, a rovistare tra le cose di nonna. Mi lasciò interdetta e guardai i suoi occhi vitrei, incassati nel volto truccato da non morto, che riflettevano la luce della lampadina del soggiorno. In fondo a quello sguardo vidi comparire un barlume di vita. Era pericoloso per lui scendere la scalinata lunga e stretta, ma accettai a malincuore. Quella sera aveva abbandonato la sua solita passività e lo vedevo particolarmente romantico e nostalgico.
Lo presi per mano e andammo al piano di sotto. Mi indicò con certezza uno scatolone specifico; io spostai quelli che stavano sopra e lo aprii. Dentro c’erano vestiti da signora d’altri tempi. Presi una sedia per il nonno e lo aiutai a tirare fuori gli abiti della nonna.
Un sorriso agrodolce increspò il suo volto rugoso mentre le mani tremanti carezzavano il tessuto. Nonostante la tenerezza del momento, però, non potevo fare a meno di sentirmi inquieta. Il nonno afferrava un vestito dopo l’altro in maniera meccanica, senza dire una parola. Il suo respiro stava diventando simile a rantoli. Col passare dei minuti silenziosi, il trucco da non morto e la luce fioca rendevano il tutto surreale.
Si fermò solo quando strinse tra le mani un abito bianco, semplice, con sopra ricamati dei gigli. Prese a tremare più forte, i suoi occhi si inumidirono e le lacrime rigarono il trucco sul volto. Mi chiese di togliermi la maschera, e obbedii. Prese allora a dirmi quanto somigliassi alla nonna. Me lo diceva spesso, in realtà, ma alla vista di tutto quel dolore, non potei fare a meno di abbracciarlo. Erano passati undici anni da quando la malattia aveva portato via la nonna.
Mi disse di provare l’abito e che, se mi fosse piaciuto, avrei potuto tenerlo. C’era qualcosa di strano in tutto ciò, ma lo feci per accontentarlo: mi misi dietro una colonna del seminterrato, mi abbassai i pantaloni e mi tolsi la maglietta. L’aria era fredda e umida. Nonostante fossi nascosta, mi sentivo gli occhi del nonno addosso. Mi sbrigai a indossare il vestito e tornai a farmi vedere.
Lui si era alzato dalla sedia e mi guardava con occhi spenti, spalle curve, respiro regolare, bocca semiaperta, viso inespressivo. Feci una piroetta su me stessa e risi, nervosa, per spezzare la tensione che non riuscivo a spiegarmi.
Mi aspettavo avrebbe affermato che ero identica a lei, che ero incantevole, o qualunque delle cose che spesso diceva. Invece, senza cambiare espressione, con voce gutturale e affaticata, disse che quello era l’abito che la nonna aveva addosso quando era morta. Rabbrividii, una smorfia di disgusto. Non ricordo cosa replicai, se risi per scaricare l’ansia o se commentai quanto fosse di cattivo gusto. Ricordo però che cercai subito di togliere il vestito. Il nonno mi fermò e ne afferrò un lembo tra le dita.
La sua voce sembrava venire dal fondo di una tomba. Mi supplicò di accompagnarlo fuori di casa, senza dire niente alla mamma, e di andare con lui al cimitero. Il cimitero in cui lui e la nonna si erano conosciuti. Il cimitero in cui la nonna era sepolta. Cercai di indietreggiare. Lui mi strinse un braccio con una forza che non aveva mai avuto prima. Diceva frasi sconnesse, mi pregava di non scappare, di non togliere l’abito della nonna. Le parole biascicate e i colpi di tosse somigliavano ai rantoli di un non morto, e io avevo sempre più paura.
Ancora una volta parlò di quando lui e la nonna si erano conosciuti, ma aggiunse un tassello che non mi aveva mai rivelato: quella sera di sessantasei anni prima, loro due avevano stretto un patto di sangue. Tirò fuori da una tasca della vestaglia uno spillo che aveva recuperato chissà dove tra gli scatoloni. Si punse un polpastrello e passò la mano sulla mia spalla. Lasciò una strisciolina rossa sul vestito in cui nonna era morta.
Non so dire se fu una terribile coincidenza o meno, ma subito saltò la corrente. Ci ritrovammo al buio. Approfittai dello stupore per liberarmi della presa del nonno. Corsi verso le scale che riportavano al piano di sopra. Gli gridai di aspettarmi laggiù, che sarei andata al contatore per far tornare la luce, ma lo feci solo per sentire il suono della mia voce e dare una parvenza di normalità a quello che stava accadendo. Non volevo ammettere neanche a me stessa di essere terrorizzata. In risposta, però, ci fu una risata sinistra alle mie spalle.
Cercai di convincermi che andasse tutto bene, che se avessi riportato la luce avrei cancellato tutta quella faccenda inquietante e io e il nonno saremmo potuti tornare a guardare un film come se nulla fosse. Però più correvo e più mi sentivo sprofondare nella disperazione. Non riuscivo a trovare le scale. Quell’oscurità sembrava essere diventata un luogo sconfinato e senza via d’uscita.
Inciampai in uno scatolone e rovinai a terra. In un attimo il nonno mi fu addosso. Salì cavalcioni sopra di me e mi tenne giù con forza ultraterrena. Si chinò, ringhiando e battendo i denti. Il suo alito aveva il puzzo di mille tombe scoperchiate. Avvicinò le sue labbra alle mie, e capii con orrore che nella sua testa io e la nonna eravamo ormai la stessa persona.
Allungai allora una mano sulla sua faccia, ma la sentii affondare in ferite che ora sembravano reali. Salii odore di marcescenza, mentre il nonno ansimava sempre più forte. Mi afferrò un dito coi pochi denti rimastigli e morse con forza, ancora e ancora. Gridai con tutto il fiato che avevo nei polmoni. Cercai di divincolarmi, ma più tiravo più lui stringeva i denti. Con un odioso rumore secco la mano fu libera, e lui prese a masticare il dito staccato. Credetti di impazzire per il dolore. Gli strillai di fermarsi e lasciarmi andare, ma dalla bocca mi usciva una voce che non era la mia.
Mi sentii paralizzata da un’energia fredda e pesante, mi si riempì il petto di un ribollire caldo, il dolore fluì via e la mente fu inondata da ricordi non miei, ricordi che fino ad allora avevo solo sentiti narrati dal nonno. Parlai, e il suono delle parole che pronunciai mi rievocò un ricordo lontano dell’infanzia, di quando la nonna era ancora viva: «Fermati, amore mio. Vieni da me, ti aspetto al cimitero se vuoi, ma tieni nostra nipote fuori da tutto questo.»
Il nonno mollò la presa e smise di grugnire. Tra i respiri affannati, prese a singhiozzare. Io allora mi divincolai e lo colpii in petto con un calcio. Lo sollevai e me lo spostai di dosso. Lui riprese a ringhiare e lo sentii correre via, rapido lungo i gradini, e dal suono sembrò che stesse correndo a quattro zampe. Sbatté la porta in cima alla scalinata. Dal piano di sopra venne un baccano infernale, poi ancora un rumore forte di qualcosa che picchiava, poi più nulla.
Quando tornò la luce, rimasi sdraiata a terra a fissare la lampadina sul soffitto, e gli scatoloni e gli abiti della nonna sparsi sul pavimento del seminterrato. Dal piano di sopra soffiava un vento freddo che portava l’odore dell’autunno. Il pulsare della mano era insopportabile e, poco dopo, persi i sensi per il trauma e il dolore.
Mio nonno non fu più visto dopo quella sera. I vicini erano venuti a controllare cosa fosse tutto quel rumore e avevano trovato la porta d’ingresso spalancata, la casa a soqquadro e me svenuta nel seminterrato. Avevano subito chiamato mia madre, e un’ambulanza per la mia mano.
Dopo qualche giorno che mamma aveva riordinato casa, ci accorgemmo che la vanga era sparita, e lo collegammo allora alla profanazione della tomba della nonna e alla sparizione delle sue ossa, la notte di Halloween. Ancora oggi, però, mi rifiuto di dare una spiegazione al perché la bara fu trovata sfondata dall’interno.