[H23] La strega
Posted: Sat Nov 04, 2023 12:37 am
Percorso: Traccia del mistero
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La strega
Michela poggia l’ultimo scatolone di vestiti sul pavimento dell’ingresso e si asciuga la fronte con la mano. La canotta nera è ormai zuppa. Le va troppo larga, quando alza le braccia, dai lati, le scopre i seni. Lei non se ne cura e liquida ogni mia rimostranza: già è tanto che mi aiuta in questo trasloco, il terzo dell’anno, capitato d’estate dunque il peggiore, non posso permettermi certe stupide gelosie.
Le cingo i fianchi. Sono sudato a mia volta. È fatta, la roba è dentro. Con calma sistemeremo. Poi. Per intanto la abbraccio. Lei mi spinge indietro. «Dai, sono sudata», dice. Ma appena insisto un po’ si lascia andare e ride. «Vuoi andare a letto prima di averne uno?».
La sera è scesa. Le pareti della nuova casa sono tutte vuote: sembra ancora più notte, sembra che l’aria della sera abbia più spazio per entrare all’interno. Adesso il letto ce lo abbiamo, abbiamo montato giusto quello e il tavolo della cucina.
Mi dispiace per la vita che le faccio fare. Mai in un posto per più di tre o quattro mesi, mai il tempo di piantare radici, di affezionarsi alle persone e alle cose, alle abitazioni. Michela mi ripete che a lei sta bene, che ha scelto così perché questa vita le piace, che non si sente forzata, e dunque io non mi devo sentire in colpa.
«Questa è la nuova casa». Lo diciamo tanto spesso quanto si potrebbe dire: «Questo è il nuovo romanzo che sto leggendo». Anzi, io che leggo poco cambio più case che libri.
Michela invece legge molto, e scrive recensioni che talvolta pubblica su riviste. Ogni tanto la pagano, ma non lo fa per quello; lo fa piuttosto per passione e per tenersi impegnata, dal momento che, decidendo di seguire me, non è più riuscita a trovarsi un lavoro vero e proprio.
A me dispiace anche questo. Per me è importante che ciascuno, in una coppia, abbia la sua autonomia. Ma lei non ne soffre, sembra quasi essere un problema mio.
Io, di mestiere, scatto le foto per Google. Scatto foto alla strada con un obiettivo di 360 gradi posto sulla mia automobile. Ogni strada, ogni viuzza, ogni anfratto percorribile di una determinata area. Mi stabilisco in un posto sinché rincasare dal luogo da repertare non diviene una questione di centinaia di chilometri. Allora mi sposto e ricomincio ad allontanarmi, giorno dopo giorno, dall’epicentro della mia nuova dimora pro tempore. E poi ancora.
Capita che quando ho terminato di mappare l’area assegnatami siano passati anni dalle prime foto, e che mi rimandino a farne di nuove da capo dal punto di partenza. Non siamo in molti a fare questo lavoro, copriamo da soli grandi aree.
Stavolta, però, siamo in un posto dove non ero mai stato.
Ora lei dorme, e io, steso accanto a pensare, la guardo. La luce dell’abat-jour combatte l’invasione della notte, le carezza le gambe e sparge una patina d’ambra sulla sua pelle. Quando capita così, quando la vedo assopirsi e respirare piano, serena dopo le fatiche, piango perché ringrazio il cielo.
*****
Michela, ancora in T-shirt e mutandine, si affaccia all’uscio della villetta per fiutare l’aria. «Bella giornata!», fa, mentre io la tiro dentro per la maglia. Lo fa apposta, sa che mi da fastidio che si mostri seminuda. È una sfacciata. Lei ride e mi guarda maliziosa, alludendo all’amore di ieri pomeriggio, ancora sudati. Io allora la perdono, perché so che lei è solo per me.
Non riprenderò a lavorare che dopodomani. Decidiamo di dedicare la mattinata a sistemare i mobili e a disfare gli scatoloni, il pomeriggio ce ne andremo in giro a curiosare.
Monte Dolce è un centro minuscolo, situato in un punto strategico per raggiungere i quattro angoli di universo che devo documentare. Milleseicentoventiquattro anime, secondo i dati dell’anno scorso. Quindi metto in conto qualcuno in meno. Perlopiù vecchi. È situato alle pendici dell’omonima montagna. Per un crudele gioco di ombre, vede il sole soltanto da mezzogiorno alle quattordici, quando è estate come adesso. Quando è inverno non oso pensare, magari dall'estremo opposto il sole spunta di notte.
Ad ogni modo, in quel paio d’ore, complice il fiume Roscio che evapora dalla valle, il paese diventa incandescente, stufandosi di un afa che toglie il respiro.
Dopo aver montato la libreria, decidiamo di andare in cerca di un bar.
A quanto pare, nel paese, di bar c’è n’è uno solo, ma è di quelli che piacciono a noi, con i vecchietti che giocano a carte all’esterno, bestemmiando e bevendo vino nonostante la calura, e con una grassa e autoctona signora al bancone. Io vorrei solo qualcosa di fresco, ma Michela, quando c’è un cambiamento, è sovreccitata e le spuntano le corna da diavoletta sulla testa. Insiste che tra due giorni riprenderò il lavoro, e che fino ad allora ci dobbiamo divertire. Prendiamo una Peroni grande in due. Poi un‘altra. Poi vodka.
I vecchietti sono socievoli. E curiosi. Ci chiedono da dove veniamo, come mai siamo finiti in quel buco di culo, fanno facce ammiccanti verso Michela. Noi rispondiamo a tutto, anche agli ammiccamenti, le lingue sciolte dall’alcol, tanto non abbiamo niente da nascondere.
Ci invitano a giocare. Giochi di carte che non conosciamo: “Diavolo rosso”, “Scappa la Marianna”, “Giallo con giallone”. Provano a spiegarci le regole ma non c’è niente da fare. Poco male, intanto che ridiamo, gli uni e gli altri.
Ci ritiriamo molto brilli ma molti rilassati. Ho fatto bene a farmi tentare dalla mia diavolessa. La signora al bancone, tuttavia, nel salutarci, mi lancia uno sguardo che non riesco a decifrare, e che non mi piace.
*****
Il cielo si è coperto. Sembra prepararsi un acquazzone estivo, ma non decide a sfogarsi. Sono metereopatico, quand’è così mi sento pervaso da scosse elettriche e ho le vertigini, tanto più che ho dormito male. L’alcol bevuto ieri fa il resto.Michela invece è bella attiva, sta legando le corde che tengono su gli scaffali portatili della cucina, costruiti da lei stessa secondo un arguta intuizione.
Sento il bisogno di prendere aria. Le dico che esco due minuti a sgranchirmi le gambe.
La villetta è circondata da quello che avrebbe forse potuto essere un piccolo orto, ma che, nell’incuria, è uno spiazzo di erba polverosa, o di polvere in cui cresce l’erba. Al di là dello steccato vi è un reticolo di stradine, asfaltate da poco, si direbbe. Le lingue nere di catrame sembrano interventi alieni sull’antico terreno dominato dal monte. Ai lati dei reticoli asfaltati, sorgono altre villette simili alla nostra.
Per distrarre l’attenzione dalle vertigini e i disagi del corpo, faccio una cosa che il mio lavoro mi ha insegnato a fare: osservo. Osservo le case, le differenti sfumature di verde che il sole ha impresso sulle facciate, le cose lasciate nei recinti - utensili di lavoro, sedie, poltrone, più raramente giochi di bambini -, le piante sui davanzali, le auto parcheggiate.
Ovviamente osservo anche le persone. Nessuna si mostra espansiva, a differenza dei vecchi al bar. Sembrano piuttosto provare diffidenza per il nuovo venuto. Nessuno mi fa un cenno di saluto. Presso le case del reticolato ci sono più che altro donne. Forse i mariti sono al lavoro, e in loro assenza non sta bene che le mogli diano confidenza a chi che sia. In fin dei conti è un piccolo paese. Questione di mentalità. Deve essere così.
Le donne: tutte piuttosto pingui, tutte piuttosto flemmatiche nell’intercedere, tutte vestite di grembiuli a quadri o a fiori. Ho provato un disagio finisco che non sono ben riuscito a spiegarmi, se non con i miei disturbi dovuti al tempo e agli stravizi del giorno addietro. Nausea. Nausea per i quadri di stoffa contenenti quei corpi molli. Molli e modellati in serie, come polli di batteria.
Ritornando, passo accanto al più fatiscente degli edifici. Da lì ricevo un saluto, inaspettato: una donna minuta, vestita di nero, diversa dalle altre, agita la mano al mio passaggio. Ne sono felice, ricambio il saluto e rientro a casa.
Michela ha finito di sistemare tutto. Ha anche preparato il pranzo.
Quando tento di giustificare il mio ritardo mi zittisce, mi bacia, e mi conduce a tavola. Dopo facciamo l’amore.
Di nuovo è stesa accanto a me, stavolta alla luce del giorno, e di nuovo me ne commuovo.
Nel pomeriggio sono io che resto a casa, e lei esce a fare due passi per il circondario.
Inizio a preparare il lavoro per l’indomani. La maggior parte della gente mette il navigatore di Google, ma per il lavoro che devo fare domani Google sono io. Un lavoro da poco, in verità, almeno per questi posti in via di spopolamento. È improbabile che la mappa del territorio sia destinata ad allargarsi.
Quando Michela rientra è contenta. Ha chiacchierato con le vicine, si sono dimostrate molto carine e accoglienti. Forse avevo ragione io, forse il problema è rivolgere la parola agli uomini.
Poi Michela mi chiede una cosa strana. Mi chiede se ho fatto qualcosa di ostile nei loro confronti. Rispondo di no, ovviamente. Lei allora si fa seria e mi dice che le hanno descritto un forestiero, mai visto prima, aggirarsi in quelle strade. Le hanno raccomandato di evitarlo assolutamente, perché quell’uomo è pericoloso.
A sentire la descrizione, è l’immagine esatta di me.
*****
Dopo una notte pressoché insonne, oggi non sono partito con la Google-car. Mi fermo ancora un giorno a Monte Dolce.«Cosa vuol dire “di atteggiamento ostile”», torno a chiedere a Michela.
«Non sapevano dirlo di preciso. L’ho chiesto, ti giuro, con insistenza. Ripetevano che “l’uomo” aveva uno sguardo “preoccupante”. Nient’altro».
Dunque, per le donne del paese, ho uno sguardo preoccupante. Io che non ho mai fatto mai male a una mosca. Hanno descritto a Michela il mio giaccone grigio con il colletto piumato di rosso, i miei capelli biondi a spazzola, i miei occhiali tondi, persino il piccolo tatuaggio del pesciolino sul dorso della mano destra. Sono io senza ombra di dubbio. E le hanno raccomandato di evitarmi.
Michela ne ride. Quale che sia il motivo, mi dice, non c’è ragione di farsene un cruccio. Tanto resteremo poco, come al solito, e in quel poco io sarò fuori, in giro in macchina. L’importante è che siano gentili con lei, così terrà il gioco, e magari parlerà male di me sentendosi accolta.
Perché le persone mi vedono male?
Esco a fare due passi e mi dirigo soprappensiero verso la casa fatiscente della donnina vestita di nero. È vero, finché soggiorneremo qui io sarò per lo più in giro in automobile, ma è proprio perché ho pochi contatti umani che desidero siano decenti.
Ritrovo la donna. Mi saluta. Mi sorride.
Mi avvicino al recinto. Le urlo: «Buongiorno». Lei risponde: «Buongiorno». Solo allora, dalla voce, me ne rendo conto: è una bambina. Quando poi la vedo da vicino, non ho dubbi: è una bambina di non più di dieci anni.
La sua figura minuta, avvolta in un lenzuolo nero usato a mo’ di manto, mi si avvicina e ripete: «Buongiorno».
Ci guardiamo per un un lungo lasso di tempo senza parlare.
«Voi venire a mangiare con me? Ho le carote», mi dice poi.
Le chiedo dei suoi genitori, e lei mi risponde che non li ha e non li ha mai avuti.
Accetto l’invito a pranzo. Mi fa entrare nella casa cadente. È organizzata con criterio, sebbene tutto sembri stia lì lì per crollare su se stesso. Nell’ingresso sono disposte pale, vanghe e un piccolo aratro.
Il pranzo sono due carote a testa.
«Sai, io sono una strega», mi dice.
«Hai dei poteri?», le chiedo.
«No. Una strega non è mica quella. È una che le altre la evitano».
«Con chi vivi?».
«Sola. Anzi, no, con le piante», e così dicendo mi indica un orticello.
«Mangi solo questo?».
«Sì».
«Non hai dei nonni, degli zii?».
«Sì».
«E dove sono?».
«In paese».
«E perché non sei con loro».
«Perché sono una strega».
«E a scuola, ci vai?».
«No».
«Ci andavi?».
«No. Mai andata. Non voglio».
«Come si chiamano i tuoi nonni?».
«Non lo so».
Saluto la bambina, lei mi sorride ancora.
Le gambe mi tremano, mentre mi dirigo alla villetta più vicina.
Quando busso al campanello, la donna che mi riceve non apre la porta, ma la lascia socchiusa, con il gancio di sicurezza inserito, e mi parla da lì.
Le chiedo della bambina della casa vicina, lei taglia corto dicendomi di lasciar perdere. Sto per ribattere quando mi chiude la porta in faccia.
Prendo a pugni la porta. «Mi dica almeno chi sono i suoi parenti», urlo attraverso il legno. Niente.
Riprovo con le case attorno, ma non ho migliore fortuna.
Ho l’impulso di cercare una stazione di polizia. Ma mi dico che la polizia deve pur sapere di questa faccenda, è alla luce del sole. Allora com’è possibile che nessuno sia intervenuto? A meno che la bambina non mi abbia mentito per tirarmi uno scherzo. Deve essere così, i genitori rincaseranno tra poco. Non può essere altrimenti. Rimane l’inspiegabile omertà dei vicini.
*****
Tornato a casa racconto tutto a Michela. La sua reazione mi spiazza. Mi rimprovera di essere andato a disturbare il vicinato. Siamo qui da tre giorni e già recitiamo la parte dei piantagrane.«Potrebbe esserci una bambina che vive in stato d’abbandono e per te il problema è non disturbare i vicini?», protesto.
Lei scaccia via la questione con un gesto della mano. Ho un brivido: nel suo sguardo c’è lo stesso gelo che ho trovato nello sguardo delle vicine.
Trascorsa qualche ora, esco di nuovo di casa e mi reco dalla bambina. La porta è aperta.
La trovo. Contrariamente a quanto speravo, è ancora sola, e ormai è sera.
Dorme, coperta dal suo lenzuolo. La osservo ai piedi del letto. Se volessi, potrei tranquillamente strangolarla.
Uscendo, con la coda dell’occhio, vedo la sagoma della vicina che mi spia dalla finestra. Me la lascio alle spalle e mi muovo a passo svelto verso il centro del paese.
Anche i vecchi del bar, stavolta, non sono per nulla loquaci. Qualcuno deve averli informati del mio fare domande, perché i più, vedendomi, smontano baracche e burattini e si dileguano.
La donna dietro al bancone, invece, mi guarda come con compassione.
«Lei ha lo sguardo buono», mi dice. «Questo è pericoloso».
Quando le chiedo di spiegarsi meglio mi invita a lasciar stare, anzi, a lasciare il paese. Riesco però a farmi indicare il posto di polizia più vicino.
È a Ficino, un comune a dieci minuti di tornanti. Ci vado con la Google-car. Fosse stato giorno ne avrei approfittato per fotografare il tragitto.
Una volta lì riesco a farmi ricevere da un ufficiale.
Gli spiego di aver trovato una bambina in stato di abbandono, nel comune di Monte Dolce, che vive da sola in una casa pericolante, non va a scuola e, a quanto pare, non ha alcun sostegno sociale.
Lui ascolta, scrive qualcosa, mi ringrazia e dice che posso andare.
Io non me ne vado. Chiedo cosa abbiano intenzione di fare, perché, dalla prossemica, ho tutta l’impressione che l’appuntato abbia fatto finta di scrivere giusto per darmi soddisfazione.
Lui mi risponde che la situazione è a loro ben nota ed è sotto controllo. Io gli dico che a me non sembra proprio. Al che ha una reazione violenta: batte il pugno sulla scrivania, mi dice di non pensare di venir lì a dare ordini a loro, e che è meglio che vada, se non voglio sperimentare alcuni giochi che si fanno nel sottoscala della caserma.
Riprendo l’auto e torno a Monte Dolce.
Quando rincaso, trovo Michela che dorme tranquilla. La sua tranquillità, stavolta, non mi commuove affatto, mi atterrisce.
Forse il mio sguardo, agli occhi degli altri, è sembrato pericoloso perché conserva qualcosa di umano.
Vado dalla strega. Che dorma da sola non mi lascia tranquillo, poco importa lo faccia da anni.
Entrando in casa la sveglio.
«Sei tu!», mi fa, e mi sorride ancora. «Ma non vedi che è notte?».
«Lo so. Scusami per averti svegliato», rispondo.
«Che bello che sei tu, e non uno di quegli altri uomini», dice.