[MI178] L'attesa
Posted: Thu Sep 21, 2023 11:51 pm
Traccia n.1 "L'attesa"
«Sulla mia Vespa carica di bagagli, arrivai a Torre Marina nel luglio del 1966.
Diplomato da poche settimane, ero partito dalla pianura per cercare un lavoro estivo e di certo non immaginavo che quel villaggio a strapiombo sul mare sarebbe diventato il luogo della mia vita.
Anche se, in verità, appena svoltata l’ultima curva, la visuale mi folgorò a tal punto da obbligarmi ad accostare.
Pieno di meraviglia, rimasi a osservare dal ciglio a mezza costa le minuscole case colorate.
Sembravano tenersi abbracciate strette, come per aiutarsi a non cadere giù dalla scogliera che scendeva ripida fino a un pugno di altre case. Visibilmente più nuove, sempre di diversi colori, s’affacciavano su una spiaggia di scogli, lunga e stretta.
Il mare schiumava di azzurro, con le onde scure che correvano prigioniere tra la costa e il riflesso di una lama rossa di tramonto.
Allora non sapevo che avrei trascorso la mia vita lì, ma m’innamorai subito di quel luogo e con una insolita gioia nel cuore, montai nuovamente in sella. Scoppiettando, percorsi gli ultimi chilometri.
Trovai lavoro nell’unico ristorante di Porto di Torre Marina, come pomposamente chiamavano le poche case ai piedi della scogliera: il Rifugio del Coffiere.
Il salone da pranzo dal pavimento a grandi piastrelle bianche e grigie, i tavolini di legno quadrati e le tovaglie rosse. Le ampie finestre affacciate sulla baia e il poderoso vociare di Alfredo, cuoco e padrone, che risuonava in ogni anfratto. L’energica tenacia di sua moglie, Caterina, l’allegria spensierata del piccolo Roberto e la litigiosa amicizia con Mirco e Ludovico, gli altri aiutanti: ancora oggi, quasi sessant’anni dopo, nulla dimentico del luogo e delle persone che mi accolsero.
E anche se adesso il ristorante è mio, differente da allora così come il villaggio, ormai ingigantito e caotico, per me rimane sempre il vecchio Rifugio, il luogo da cui vidi per la prima volta Pietro attendere qualcosa, seduto in riva al mare:
"Chi è quell’uomo laggiù? È da una settimana che arriva prima del tramonto, si siede sullo scoglio, aspetta un’ora almeno e se ne va…"
La risposta di Ludovico fu la ramazza che mi rifilò contro lo stomaco e l’incitamento a pulire prima che iniziasse il servizio serale. Mirco invece mi affiancò per guardare anche lui. Era un ragazzo alto e robusto con un volto dallo sguardo infantile e una voce profonda:
"È uno di fuori. Arrivato da un paio d’anni e tutti i santi giorni se ne sta lì, ad aspettare."
"Cosa?"
"Non si sa. ̶ " e con una scrollata di spalle si allontanò.
Il lavoro al ristorante è una fatica continua, senza veri orari e con sempre qualcosa da fare. Soprattutto in locali come il Ristoro che, scoprii, attirava frotte di vacanzieri.
Vissi in apnea quell’estate, senza conoscere praticamente nessuno, totalmente immerso nei miei doveri: il lavoro era l’unica realtà per me. Il lavoro, e l’uomo che attendeva al tramonto.
Lo osservavo ogni sera per alcuni minuti, starsene lì sullo scoglio con qualsiasi tempo ci fosse. Imperturbabile e metodico.
Cercai di raccogliere informazioni su di lui, ma ben poco si sapeva.
Il più preparato fu Alfredo, che mi raccontò di avergli parlato alcune volte, i primi tempi.
Scoprii che a chi gli chiedeva chi fosse, del suo passato, di una famiglia, l’uomo rispondeva con un sorriso innocente e nulla più. A chi gli domandava cosa facesse lì ogni sera, diceva solamente che aspettava; cosa, non si sapeva.
Fu una sera di metà settembre che trovai il tempo di avvicinarlo.
No, se devo essere sincero, avrei potuto farlo ben prima, ma avevo tergiversato fino all’ultimo per uno strano senso di soggezione.
Adesso, però, il mio contratto stagionale scadeva e non avrei più avuto modo di conoscerlo; quindi mi decisi e, sigaretta in bocca, lo raggiunsi.
La serata era frizzante, piacevole. Le stelle si accendevano poco alla volta sopra la distesa del mare; la risacca si muoveva placida.
"Buonasera, la disturbo?" lo approcciai senza saper bene che dire, "La vedo ogni sera e mi chiedevo…"
"Curioso?"
Il suo tono era caldo, confortevole.
"Bé, sì, in effetti. Mi chiedevo cosa fa qui tutti i giorni."
"Quello che fai anche tu."
"Non capisco."
Sorrise:
"Aspetto."
"Cosa?"
"Sei arrivato tu, probabilmente oggi aspettavo te."
Rise nuovamente, vedendomi perplesso:
"Io sono Pietro. ̶ e mi tese la mano."
Gliela strinsi convinto, gli dissi il mio nome e, dopo attimi d’esitazione, mi sedetti accanto a lui.
Fumammo in silenzio, con il vento che consumava le sigarette più rapido di noi e la salsedine che profumava ben più del tabacco.
Approfittando della sera calante, lo osservai di sbieco. Aveva un profilo d’altri tempi, con il naso importante e il mento che sfuggiva via. La fronte ampia, e capelli neri impomatati indietro.
Era magro, un fascio di nervi. Pensai che fosse sulla quarantina e, come scoprii in seguito, non sbagliai di molto.
"Tra un paio di giorni dovrò andarmene." dissi quando venne l’ora di rincasare, "Temo che non avremo più occasione di vederci."
Questa volta fu lui a guardarmi perplesso:
"Non mi hai chiesto chi sono, la mia storia, da dove vengo, come fanno tutti: sono sorpreso."
"Me lo avrebbe detto?"
"No, non lo avrei fatto."
"Quindi, perché chiedere?"
Annuì convinto:
"C’è speranza per te, ragazzo. C’è speranza…"
La sera dopo ero di nuovo da lui.
"Mi hanno offerto un contratto lungo, non parto per un po’."
"Sei contento?"
Gli dissi di sì e Pietro parve davvero soddisfatto:
"È valsa l’attesa, allora."
Non seppi cosa rispondergli, non capivo cosa intendesse. Cavai una sigaretta dal pacchetto e un’altra la porsi a lui; l’aria sapeva di umido e una coltre di nubi copriva le stelle. Non mi sedetti sullo scoglio:
"Viene a piovere, Pietro."
Lui scrutò il cielo per lungo tempo, tanto a lungo che pensai non mi avrebbe più risposto. Invece si limitò a un laconico:
"Allora stasera aspetto la pioggia."
Gettai il mozzicone; disegnò un rapido arco rosso e poi svanì nell’oscurità delle acque. Quello di Pietro lo seguì quasi subito e io me ne andai.
Da allora divenne una consuetudine.
Non tutti i giorni, ma ogni volta che il lavoro me lo permetteva, lo raggiungevo sullo scoglio e fumavo con lui. Spesso non scambiavamo nemmeno una parola e non era affatto necessario: stargli accanto mi faceva star bene, era rilassante. Bastava quello.
Così venne l’autunno, con la sua aria d’improvviso pungente e gli alberi affacciati dalla scogliera ormai rossi. Passò anche l’inverno di rada neve e la primavera lasciò il posto a una nuova estate.
Pietro non mancò nemmeno una sera. Poteva piovere a dirotto o gelare fino al midollo, ma lui era lì, nella sua misteriosa e costante attesa.
Nello spazio tra i nostri silenzi, i mesi portarono anche parole; così potei conoscere qualcosa di lui.
Il giorno in cui gli chiesi come potesse vivere senza lavoro, mi spiegò che aveva una piccola rendita che si faceva bastare e che, d’altronde, non aveva esigenze particolari, lui. Non mi parlò mai di una famiglia né di alcun parente, ma di un amore perduto sì.
Soffriva ancora d’esser stato lasciato, e quando a fine giugno mi presentai allo scoglio mano nella mano con una ragazzina del villaggio, ci squadrò sorridente e mi domandò se l’attesa fosse valsa la pensa.
Fu soddisfatto del mio sì.
Non lasciai più Porto di Torre Marina e Pietro.
Invecchiai dietro a lui, anche se negli anni le mie serate sullo scoglio si fecero più rade.
In tutta onestà non so dire se fu solo per l’impegno del lavoro o perché mi annoiai della sua apatica indifferenza, sta di fatto che le serate in riva al mare si rarefecero.
Però lo osservavo invecchiare dalla finestra del ristorante che nel frattempo avevo rilevato da Caterina, rimasta vedova. Il cuore aveva tradito Alfredo in una calda notte d’estate, addormentato nel letto, e lei raccontava d’averlo trovato sorridente e beato la mattina dopo. Eravamo tutti certi che il suo vocione adesso rombasse tra le nuvole del paradiso.
Passavo poche serate con Pietro, ma questo non spense la nostra strana amicizia.
Andai da lui la sera in cui accesi un mutuo a vita nell’acquisto del ristorante. Condivisi con lui gioia e paura, e ,come sempre, mi chiese se l’attesa fosse valsa la pena.
Annuì felice al mio sì.
Gli presentai tua nonna, la tua mamma. Gli portai te appena nata e i tuoi fratelli. Gli dissi della morte dei miei genitori e ogni altro evento bello o brutto che mi capitò negli anni.
La sua domanda fu sempre la stessa:
"L’attesa è valsa la pena?"
Gli anni sono trascorsi rapidi come una serpe.
Io oggi ho settantasei anni e me ne sto qui sullo scoglio di Pietro ad aspettare al posto suo.
Il mare non è cambiato, con la sua immota mobilità. Il tramonto taglia ancora in due le acque come in quella lontana estate del ’66, ma decine di barche ondeggiano in un porticciolo che allora non esisteva e alle mie spalle, le case colorate sono svanite dietro a un’infinità di nuovi edifici, negozi, ristoranti.
Non mi interessa.
È quasi il tramonto e io aspetto, anche se Pietro non verrà.
Non viene più.
Per decenni non è mai stato assente al suo momento d’attesa, sempre più magro, sempre più curvo. Sempre più lento nei movimenti.
Lo osservavo ancora dai vetri, lui era la mia malinconica garanzia di normalità; il mio unico amico rimasto da allora. Poi, un lunedì di giugno dell’anno scorso, nessuno si è seduto sullo scoglio.
Sono andato al suo minuscolo alloggio, incastrato in un vicolo senza luce, umido e stantio, ma l’ho trovato vuoto. Nessuno sapeva dove fosse andato.
E da allora non ho più avuto sue notizie.»
«Almeno fino ad ora, nonno.», Emilia mi porge il pacchetto che ha portato con se.
Non lo prendo. È ancora chiuso, viene da una casa di ricovero a nome di Pietro e non voglio aprirlo.
Emilia non sa nascondere il suo disappunto, non ne è capace:
«Ma se non lo apriamo non sapremo mai cos’ha atteso tutta la vita il tuo amico, magari ti ha scritto qualche spiegazione prima di morire, no?»
Le sorrido. È bella com’era mia moglie, con i suoi occhi verdi e il viso affilato. Nei suoi diciannove anni per me lei è il passato e il futuro allo stesso tempo. Ha diritto di conoscere:
«Oh, ma io so cosa attendeva Pietro.» le dico.
Stupita, chiede cosa.
«La vita.»
Rimane senza parole, pensierosa, con le sopracciglia aggrottate, io aspetto.
«Wow» esclama infine, ammirata, «Com’era profondo il tuo amico, un vero filosofo empirico! Ha vissuto la sua filosofia…»
Abbasso gli occhi sulla risacca. Nella schiuma galleggia una bottiglietta di plastica. Mi fanno male tutte le ossa. Maledetta età.
«Aiutami ad alzarmi, Emi, voglio andare a casa.»
Facciamo due passi, poi mi fermo. La brezza ci accarezza dolce:
«Non era un filosofo,»
«Nonno?»
«Non lo era. Era un coglione.»
«Un coglione? Ma perc…»
La interrompo:
«Un coglione, sì. Perché la vita è una, Emilia. È un dono inestimabile e va vissuta e non attesa. Va vissuta. Tutta»
«Sulla mia Vespa carica di bagagli, arrivai a Torre Marina nel luglio del 1966.
Diplomato da poche settimane, ero partito dalla pianura per cercare un lavoro estivo e di certo non immaginavo che quel villaggio a strapiombo sul mare sarebbe diventato il luogo della mia vita.
Anche se, in verità, appena svoltata l’ultima curva, la visuale mi folgorò a tal punto da obbligarmi ad accostare.
Pieno di meraviglia, rimasi a osservare dal ciglio a mezza costa le minuscole case colorate.
Sembravano tenersi abbracciate strette, come per aiutarsi a non cadere giù dalla scogliera che scendeva ripida fino a un pugno di altre case. Visibilmente più nuove, sempre di diversi colori, s’affacciavano su una spiaggia di scogli, lunga e stretta.
Il mare schiumava di azzurro, con le onde scure che correvano prigioniere tra la costa e il riflesso di una lama rossa di tramonto.
Allora non sapevo che avrei trascorso la mia vita lì, ma m’innamorai subito di quel luogo e con una insolita gioia nel cuore, montai nuovamente in sella. Scoppiettando, percorsi gli ultimi chilometri.
Trovai lavoro nell’unico ristorante di Porto di Torre Marina, come pomposamente chiamavano le poche case ai piedi della scogliera: il Rifugio del Coffiere.
Il salone da pranzo dal pavimento a grandi piastrelle bianche e grigie, i tavolini di legno quadrati e le tovaglie rosse. Le ampie finestre affacciate sulla baia e il poderoso vociare di Alfredo, cuoco e padrone, che risuonava in ogni anfratto. L’energica tenacia di sua moglie, Caterina, l’allegria spensierata del piccolo Roberto e la litigiosa amicizia con Mirco e Ludovico, gli altri aiutanti: ancora oggi, quasi sessant’anni dopo, nulla dimentico del luogo e delle persone che mi accolsero.
E anche se adesso il ristorante è mio, differente da allora così come il villaggio, ormai ingigantito e caotico, per me rimane sempre il vecchio Rifugio, il luogo da cui vidi per la prima volta Pietro attendere qualcosa, seduto in riva al mare:
"Chi è quell’uomo laggiù? È da una settimana che arriva prima del tramonto, si siede sullo scoglio, aspetta un’ora almeno e se ne va…"
La risposta di Ludovico fu la ramazza che mi rifilò contro lo stomaco e l’incitamento a pulire prima che iniziasse il servizio serale. Mirco invece mi affiancò per guardare anche lui. Era un ragazzo alto e robusto con un volto dallo sguardo infantile e una voce profonda:
"È uno di fuori. Arrivato da un paio d’anni e tutti i santi giorni se ne sta lì, ad aspettare."
"Cosa?"
"Non si sa. ̶ " e con una scrollata di spalle si allontanò.
Il lavoro al ristorante è una fatica continua, senza veri orari e con sempre qualcosa da fare. Soprattutto in locali come il Ristoro che, scoprii, attirava frotte di vacanzieri.
Vissi in apnea quell’estate, senza conoscere praticamente nessuno, totalmente immerso nei miei doveri: il lavoro era l’unica realtà per me. Il lavoro, e l’uomo che attendeva al tramonto.
Lo osservavo ogni sera per alcuni minuti, starsene lì sullo scoglio con qualsiasi tempo ci fosse. Imperturbabile e metodico.
Cercai di raccogliere informazioni su di lui, ma ben poco si sapeva.
Il più preparato fu Alfredo, che mi raccontò di avergli parlato alcune volte, i primi tempi.
Scoprii che a chi gli chiedeva chi fosse, del suo passato, di una famiglia, l’uomo rispondeva con un sorriso innocente e nulla più. A chi gli domandava cosa facesse lì ogni sera, diceva solamente che aspettava; cosa, non si sapeva.
Fu una sera di metà settembre che trovai il tempo di avvicinarlo.
No, se devo essere sincero, avrei potuto farlo ben prima, ma avevo tergiversato fino all’ultimo per uno strano senso di soggezione.
Adesso, però, il mio contratto stagionale scadeva e non avrei più avuto modo di conoscerlo; quindi mi decisi e, sigaretta in bocca, lo raggiunsi.
La serata era frizzante, piacevole. Le stelle si accendevano poco alla volta sopra la distesa del mare; la risacca si muoveva placida.
"Buonasera, la disturbo?" lo approcciai senza saper bene che dire, "La vedo ogni sera e mi chiedevo…"
"Curioso?"
Il suo tono era caldo, confortevole.
"Bé, sì, in effetti. Mi chiedevo cosa fa qui tutti i giorni."
"Quello che fai anche tu."
"Non capisco."
Sorrise:
"Aspetto."
"Cosa?"
"Sei arrivato tu, probabilmente oggi aspettavo te."
Rise nuovamente, vedendomi perplesso:
"Io sono Pietro. ̶ e mi tese la mano."
Gliela strinsi convinto, gli dissi il mio nome e, dopo attimi d’esitazione, mi sedetti accanto a lui.
Fumammo in silenzio, con il vento che consumava le sigarette più rapido di noi e la salsedine che profumava ben più del tabacco.
Approfittando della sera calante, lo osservai di sbieco. Aveva un profilo d’altri tempi, con il naso importante e il mento che sfuggiva via. La fronte ampia, e capelli neri impomatati indietro.
Era magro, un fascio di nervi. Pensai che fosse sulla quarantina e, come scoprii in seguito, non sbagliai di molto.
"Tra un paio di giorni dovrò andarmene." dissi quando venne l’ora di rincasare, "Temo che non avremo più occasione di vederci."
Questa volta fu lui a guardarmi perplesso:
"Non mi hai chiesto chi sono, la mia storia, da dove vengo, come fanno tutti: sono sorpreso."
"Me lo avrebbe detto?"
"No, non lo avrei fatto."
"Quindi, perché chiedere?"
Annuì convinto:
"C’è speranza per te, ragazzo. C’è speranza…"
La sera dopo ero di nuovo da lui.
"Mi hanno offerto un contratto lungo, non parto per un po’."
"Sei contento?"
Gli dissi di sì e Pietro parve davvero soddisfatto:
"È valsa l’attesa, allora."
Non seppi cosa rispondergli, non capivo cosa intendesse. Cavai una sigaretta dal pacchetto e un’altra la porsi a lui; l’aria sapeva di umido e una coltre di nubi copriva le stelle. Non mi sedetti sullo scoglio:
"Viene a piovere, Pietro."
Lui scrutò il cielo per lungo tempo, tanto a lungo che pensai non mi avrebbe più risposto. Invece si limitò a un laconico:
"Allora stasera aspetto la pioggia."
Gettai il mozzicone; disegnò un rapido arco rosso e poi svanì nell’oscurità delle acque. Quello di Pietro lo seguì quasi subito e io me ne andai.
Da allora divenne una consuetudine.
Non tutti i giorni, ma ogni volta che il lavoro me lo permetteva, lo raggiungevo sullo scoglio e fumavo con lui. Spesso non scambiavamo nemmeno una parola e non era affatto necessario: stargli accanto mi faceva star bene, era rilassante. Bastava quello.
Così venne l’autunno, con la sua aria d’improvviso pungente e gli alberi affacciati dalla scogliera ormai rossi. Passò anche l’inverno di rada neve e la primavera lasciò il posto a una nuova estate.
Pietro non mancò nemmeno una sera. Poteva piovere a dirotto o gelare fino al midollo, ma lui era lì, nella sua misteriosa e costante attesa.
Nello spazio tra i nostri silenzi, i mesi portarono anche parole; così potei conoscere qualcosa di lui.
Il giorno in cui gli chiesi come potesse vivere senza lavoro, mi spiegò che aveva una piccola rendita che si faceva bastare e che, d’altronde, non aveva esigenze particolari, lui. Non mi parlò mai di una famiglia né di alcun parente, ma di un amore perduto sì.
Soffriva ancora d’esser stato lasciato, e quando a fine giugno mi presentai allo scoglio mano nella mano con una ragazzina del villaggio, ci squadrò sorridente e mi domandò se l’attesa fosse valsa la pensa.
Fu soddisfatto del mio sì.
Non lasciai più Porto di Torre Marina e Pietro.
Invecchiai dietro a lui, anche se negli anni le mie serate sullo scoglio si fecero più rade.
In tutta onestà non so dire se fu solo per l’impegno del lavoro o perché mi annoiai della sua apatica indifferenza, sta di fatto che le serate in riva al mare si rarefecero.
Però lo osservavo invecchiare dalla finestra del ristorante che nel frattempo avevo rilevato da Caterina, rimasta vedova. Il cuore aveva tradito Alfredo in una calda notte d’estate, addormentato nel letto, e lei raccontava d’averlo trovato sorridente e beato la mattina dopo. Eravamo tutti certi che il suo vocione adesso rombasse tra le nuvole del paradiso.
Passavo poche serate con Pietro, ma questo non spense la nostra strana amicizia.
Andai da lui la sera in cui accesi un mutuo a vita nell’acquisto del ristorante. Condivisi con lui gioia e paura, e ,come sempre, mi chiese se l’attesa fosse valsa la pena.
Annuì felice al mio sì.
Gli presentai tua nonna, la tua mamma. Gli portai te appena nata e i tuoi fratelli. Gli dissi della morte dei miei genitori e ogni altro evento bello o brutto che mi capitò negli anni.
La sua domanda fu sempre la stessa:
"L’attesa è valsa la pena?"
Gli anni sono trascorsi rapidi come una serpe.
Io oggi ho settantasei anni e me ne sto qui sullo scoglio di Pietro ad aspettare al posto suo.
Il mare non è cambiato, con la sua immota mobilità. Il tramonto taglia ancora in due le acque come in quella lontana estate del ’66, ma decine di barche ondeggiano in un porticciolo che allora non esisteva e alle mie spalle, le case colorate sono svanite dietro a un’infinità di nuovi edifici, negozi, ristoranti.
Non mi interessa.
È quasi il tramonto e io aspetto, anche se Pietro non verrà.
Non viene più.
Per decenni non è mai stato assente al suo momento d’attesa, sempre più magro, sempre più curvo. Sempre più lento nei movimenti.
Lo osservavo ancora dai vetri, lui era la mia malinconica garanzia di normalità; il mio unico amico rimasto da allora. Poi, un lunedì di giugno dell’anno scorso, nessuno si è seduto sullo scoglio.
Sono andato al suo minuscolo alloggio, incastrato in un vicolo senza luce, umido e stantio, ma l’ho trovato vuoto. Nessuno sapeva dove fosse andato.
E da allora non ho più avuto sue notizie.»
«Almeno fino ad ora, nonno.», Emilia mi porge il pacchetto che ha portato con se.
Non lo prendo. È ancora chiuso, viene da una casa di ricovero a nome di Pietro e non voglio aprirlo.
Emilia non sa nascondere il suo disappunto, non ne è capace:
«Ma se non lo apriamo non sapremo mai cos’ha atteso tutta la vita il tuo amico, magari ti ha scritto qualche spiegazione prima di morire, no?»
Le sorrido. È bella com’era mia moglie, con i suoi occhi verdi e il viso affilato. Nei suoi diciannove anni per me lei è il passato e il futuro allo stesso tempo. Ha diritto di conoscere:
«Oh, ma io so cosa attendeva Pietro.» le dico.
Stupita, chiede cosa.
«La vita.»
Rimane senza parole, pensierosa, con le sopracciglia aggrottate, io aspetto.
«Wow» esclama infine, ammirata, «Com’era profondo il tuo amico, un vero filosofo empirico! Ha vissuto la sua filosofia…»
Abbasso gli occhi sulla risacca. Nella schiuma galleggia una bottiglietta di plastica. Mi fanno male tutte le ossa. Maledetta età.
«Aiutami ad alzarmi, Emi, voglio andare a casa.»
Facciamo due passi, poi mi fermo. La brezza ci accarezza dolce:
«Non era un filosofo,»
«Nonno?»
«Non lo era. Era un coglione.»
«Un coglione? Ma perc…»
La interrompo:
«Un coglione, sì. Perché la vita è una, Emilia. È un dono inestimabile e va vissuta e non attesa. Va vissuta. Tutta»