[MI 176] Viva Jim Hawkins!
Posted: Wed Jun 21, 2023 10:54 pm
Traccia n° 2: "La violenza è l'ultimo rifugio degli incapaci"
Non poteva essere vero.
Vincenzo correva giù per la collina, gli occhi appannati dalle lacrime, la bocca secca, il sapore del sangue sulla lingua.
A tratti sentiva le grida degli uomini alle sue spalle, il suo stomaco si contorceva dolorosamente, conati di vomito gli salivano alla gola. Sputava con rabbia, sempre correndo, senza fermarsi. Inciampò su una pietra e cadde in un leggero pendio andando a finire dentro un gigantesco macchione di rovi che lo inghiottì come un orco richiudendosi sopra di lui e immergendolo nell’oscurità.
Ansimava forte per la corsa. Sentiva più chiare le voci che si avvicinavano. Lo chiamavano. Si tappò la bocca con le mani, incurante delle spine che lo tormentavano. A poco a poco le voci si affievolirono, si allontanarono, scomparvero. Ma Vincenzo decise di non uscire dal suo rifugio. L’odore del rovo era forte, aspro e selvatico come quello di un animale, ma stava al sicuro da quegli uomini.
Rimase immobile al buio, avvolto dalle spine che lo staffilavano dolorosamente in tutte le parti del corpo scoperte. Per fortuna non indossava i pantaloni corti. Proprio quella mattina, ma quanto tempo era passato? Suo padre gli aveva detto di mettersi i pantaloni lunghi, che dovevano andare a casa dei nonni.
Era nell’aria da giorni che doveva succedere qualcosa di brutto. Vincenzo lo aveva capito dalla preoccupazione dei suoi genitori, dai loro silenzi, dai loro discorsi sommessi. L’aria in paese era diventata strana, niente più adunate in uniforme per i ragazzi, Vincenzo era balilla moschettiere, niente più musiche e canti patriottici e piano piano tutti gli amici del papà che appartenevano alla milizia erano spariti.
Suo padre quella mattina, come faceva da qualche tempo, si era vestito in borghese e aveva discusso con sua madre nel tinello. Entrambi erano molto seri e sorridevano distrattamente quando rivolgevano lo sguardo verso di lui.
La madre sembrava lamentarsi circa il fatto che anche loro se ne sarebbero dovuti andare da qualche tempo, prima che le cose arrivassero a questo punto. Il papà diceva di non preoccuparsi, la guerra stava finendo, le truppe alleate erano vicine, probabilmente le avrebbero incontrate lungo la strada che dovevano fare per andare dai nonni e in ogni caso avrebbe pensato a tutto lui. Mentre diceva così aveva messo qualcosa in tasca, di nascosto dalla mamma, ma Vincenzo lo aveva visto: si era messo in tasca la sua pistola, dopo averla tolta dalla fondina che portava con l’uniforme. La madre finiva di mettere poche cose dentro una valigia di cartone, solo quel poco che sarebbe servito per qualche giorno, diceva.
Vincenzo non poteva portare nemmeno i suoi fumetti preferiti, nemmeno il romanzo L’isola del tesoro, che amava moltissimo, con un ragazzo della sua età che viveva fantastiche avventure. Chiese al padre di poter portare almeno il fez nero da balilla con l’aquila dorata e il gagliardetto della sua squadra. Avrebbe messo il tutto nelle tasche della sua giacca. Il papà aveva guardato distrattamente quei simboli e aveva acconsentito.
Sistemarono la valigia sulla bicicletta, legandola con dello spago al portapacchi e si erano avviati lungo la strada che portava fuori paese alla casa dei nonni. Camminavano a piedi, sarebbe stato difficile stare in tre sulla bicicletta.
Era una bella giornata di fine ottobre, faceva ancora caldo, era bello camminare. Non si vedeva nessuno, in lontananza si sentivano i colpi di cannone, sembravano tuoni. Gli uccelli smettevano per un attimo di cinguettare, il papà e la mamma volgevano lo sguardo in quella direzione, come aspettassero qualcuno.
― Sono vicini ― diceva il papà, ― Ma ancora lontani per noi.
Gli uccelli riprendevano il loro canto.
Gli uomini sbucarono silenziosamente come dal nulla.
Erano giovani, alcuni con la barba di diversi giorni, indossavano abiti civili e qualche capo sparso di uniforme militare. Alcuni erano armati. Vincenzo vide suo padre stringere forte il manubrio della bicicletta.
― Guarda un po’! Buongiorno federale Giustiani. In gita?― disse uno di loro che indossava una giacca con i gradi da capitano dell’esercito sulle maniche. Sembrava il loro comandante.
Vincenzo si era tranquillizzato nel vedere quell’uniforme che aveva anche dei nastrini di decorazioni sul petto, ma c’era qualcosa che non andava nell’atteggiamento dell’uomo. Non sembrava un combattente di mestiere. Suo padre lo guardava con disgusto.
― La vostra famiglia, federale? ― disse il “capitano” indicando con la canna del mitra la mamma e lui.
― Si ― rispose il padre. E aggiunse ― Vedo che hai fatto carriera Tonio. Di chi era quella giacca?
Tonio sorrise, piegò la testa e sputò ai piedi del padre.
― Venite con noi, federale. La strada non è sicura. Si possono fare brutti incontri.
Si mise da parte e con la mano fece gentilmente il gesto che andassero davanti a loro.
Sua madre sembrava annichilita. Era sbiancata.
― Pietro… Pietro… ― ripeteva sottovoce agganciata al marito.
― Calma. Stai calma. Vincenzo, stai vicino, prendi la mano della mamma.
Vincenzo obbedì. Li fecero deviare dalla strada principale e proseguire in alcuni viottoli con a fianco delle vigne che dopo la vendemmia avevano cominciato a tingere di rosso le foglie. La mano di sua madre era madida di sudore.
Arrivarono a un casolare posto in un incrocio. Usciva fumo dal camino. Dalla casa comparvero altri uomini, sorridevano.
― Ma quale onore! Siete arrivati giusto in tempo per il pranzo! Sarà una bella festa, abbiamo da mangiare e da bere in abbondanza e poi ci sarà anche il dolce per tutti!
Guardavano la madre e sorridevano. Vincenzo non capiva perché ridevano. Gli dispiaceva vedere suo padre, sempre sicuro di se stesso, così a disagio, non capiva la paura della madre.
― Vediamo cosa ci avete portato di bello! ― disse giovialmente qualcuno prendendo la valigia e aprendola, spartendo quel poco di vestiario che c’era con qualche altro che si era avvicinato.
Fecero cenno, con una esagerata gentilezza, di entrare nella casa, facendosi rispettosamente da parte. Suo padre poggiò la bicicletta a fianco della porta, poi si girò di scatto.
― Perdonami Emma. Perdonami Vincenzino. Voglio bene solo a voi. Ci rivedremo in paradiso.
Mise la mano in tasca, estrasse la pistola e sparò un colpo in faccia al “capitano”. Poi sparò alla moglie, la puntò su Vincenzino e tentò di sparare nuovamente, ma alcuni uomini gli saltarono addosso trascinandolo a terra sopra la bicicletta che si rovesciò sopra di lui, proteggendolo per poco dalla gragnola di pugni e calci che gli piovve addosso. Lo trascinarono in un angolo e finirono di massacrarlo. Vincenzo vide sua madre a terra con gli occhi spalancati e una rosa rossa che si allargava sul petto. Sentì il sapore del suo sangue che gli era schizzato in faccia. Non voleva vedere più niente, non voleva sentire, non voleva stare lì. Cominciò a correre con il cuore in gola.
Ricordava questo mentre rimaneva immobile dentro il cespuglio di rovo. Sentiva l’odore del sangue di sua madre sul viso, cercava di pulirsi ma a ogni movimento le spine lo martoriavano. Decise di stare fermo, aspettare, essere sicuro che non ci fosse più nessuno che lo seguiva. Dopo sarebbe uscito e andato dai nonni, conosceva la strada, oppure sarebbe tornato a casa ad aspettare sua madre e suo padre. No. No. Non sarebbero tornati. Era successa una cosa molto brutta. Non voleva ricordare, non voleva sapere, non voleva piangere. Piangeva in silenzio, emettendo un suono strozzato, rabbioso, come un animale ferito. Le lacrime alleviarono la sua gola riarsa. Si addormentò.
Quanto tempo era passato? Non lo sapeva. Forse un giorno. Aveva sete, aveva fame. Intravide nella penombra in cui era avvolto alcune more e le mangiò. Sentì dei rumori nelle vicinanze, delle voci, ma non riusciva a capire cosa dicessero. Erano voci giovani che sembravano chiamarsi a vicenda, si stavano avvicinando. Non erano italiani e nemmeno tedeschi. Riconosceva il tono tedesco pur non capendo la lingua. Erano inglesi o americani, gli inveterati nemici.
Ma se loro erano nemici perché quegli uomini che li avevano fermati, italiani, che il papà conosceva, perché avevano fatto del male a suo padre? E perché suo padre aveva sparato a sua madre? Cosa voleva dire? Doveva saperlo. Doveva chiedere. Lui si considerava praticamente quasi un militare, diamine: era balilla moschettiere più volte encomiato dal capo squadra, suo padre era stato soldato nella Grande Guerra. Cosa doveva fare?
Doveva arrendersi, per quanto non fosse onorevole. Ma non poteva combattere. Non si spara su un soldato che si arrende. Ma lui non aveva l’uniforme. No. Ma aveva il suo fez e il gagliardetto di sezione. Lo avrebbero riconosciuto come soldato. Uscì a fatica dal macchione di rovo.
Zoppicava. Vide i soldati davanti a lui che gli venivano lentamente incontro, con le armi alzate a metà, forse indecisi sul da farsi. Vincenzo alzò le mani in alto e gli scesero le lacrime. Su una mano aveva in bella mostra il suo fez, con l’aquila romana in fronte al nemico, nell’altra il suo gagliardetto dorato che sventolava al debole vento indifferente. Lo avrebbero riconosciuto come un soldato.
Si ricordò il nome del suo eroe, il ragazzino protagonista dell’Isola del tesoro. Lo urlò con quanto fiato aveva in gola:
― Jim Hawkins! Jim Hawkins! Viva Jim Hawkins!
Non poteva essere vero.
Vincenzo correva giù per la collina, gli occhi appannati dalle lacrime, la bocca secca, il sapore del sangue sulla lingua.
A tratti sentiva le grida degli uomini alle sue spalle, il suo stomaco si contorceva dolorosamente, conati di vomito gli salivano alla gola. Sputava con rabbia, sempre correndo, senza fermarsi. Inciampò su una pietra e cadde in un leggero pendio andando a finire dentro un gigantesco macchione di rovi che lo inghiottì come un orco richiudendosi sopra di lui e immergendolo nell’oscurità.
Ansimava forte per la corsa. Sentiva più chiare le voci che si avvicinavano. Lo chiamavano. Si tappò la bocca con le mani, incurante delle spine che lo tormentavano. A poco a poco le voci si affievolirono, si allontanarono, scomparvero. Ma Vincenzo decise di non uscire dal suo rifugio. L’odore del rovo era forte, aspro e selvatico come quello di un animale, ma stava al sicuro da quegli uomini.
Rimase immobile al buio, avvolto dalle spine che lo staffilavano dolorosamente in tutte le parti del corpo scoperte. Per fortuna non indossava i pantaloni corti. Proprio quella mattina, ma quanto tempo era passato? Suo padre gli aveva detto di mettersi i pantaloni lunghi, che dovevano andare a casa dei nonni.
Era nell’aria da giorni che doveva succedere qualcosa di brutto. Vincenzo lo aveva capito dalla preoccupazione dei suoi genitori, dai loro silenzi, dai loro discorsi sommessi. L’aria in paese era diventata strana, niente più adunate in uniforme per i ragazzi, Vincenzo era balilla moschettiere, niente più musiche e canti patriottici e piano piano tutti gli amici del papà che appartenevano alla milizia erano spariti.
Suo padre quella mattina, come faceva da qualche tempo, si era vestito in borghese e aveva discusso con sua madre nel tinello. Entrambi erano molto seri e sorridevano distrattamente quando rivolgevano lo sguardo verso di lui.
La madre sembrava lamentarsi circa il fatto che anche loro se ne sarebbero dovuti andare da qualche tempo, prima che le cose arrivassero a questo punto. Il papà diceva di non preoccuparsi, la guerra stava finendo, le truppe alleate erano vicine, probabilmente le avrebbero incontrate lungo la strada che dovevano fare per andare dai nonni e in ogni caso avrebbe pensato a tutto lui. Mentre diceva così aveva messo qualcosa in tasca, di nascosto dalla mamma, ma Vincenzo lo aveva visto: si era messo in tasca la sua pistola, dopo averla tolta dalla fondina che portava con l’uniforme. La madre finiva di mettere poche cose dentro una valigia di cartone, solo quel poco che sarebbe servito per qualche giorno, diceva.
Vincenzo non poteva portare nemmeno i suoi fumetti preferiti, nemmeno il romanzo L’isola del tesoro, che amava moltissimo, con un ragazzo della sua età che viveva fantastiche avventure. Chiese al padre di poter portare almeno il fez nero da balilla con l’aquila dorata e il gagliardetto della sua squadra. Avrebbe messo il tutto nelle tasche della sua giacca. Il papà aveva guardato distrattamente quei simboli e aveva acconsentito.
Sistemarono la valigia sulla bicicletta, legandola con dello spago al portapacchi e si erano avviati lungo la strada che portava fuori paese alla casa dei nonni. Camminavano a piedi, sarebbe stato difficile stare in tre sulla bicicletta.
Era una bella giornata di fine ottobre, faceva ancora caldo, era bello camminare. Non si vedeva nessuno, in lontananza si sentivano i colpi di cannone, sembravano tuoni. Gli uccelli smettevano per un attimo di cinguettare, il papà e la mamma volgevano lo sguardo in quella direzione, come aspettassero qualcuno.
― Sono vicini ― diceva il papà, ― Ma ancora lontani per noi.
Gli uccelli riprendevano il loro canto.
Gli uomini sbucarono silenziosamente come dal nulla.
Erano giovani, alcuni con la barba di diversi giorni, indossavano abiti civili e qualche capo sparso di uniforme militare. Alcuni erano armati. Vincenzo vide suo padre stringere forte il manubrio della bicicletta.
― Guarda un po’! Buongiorno federale Giustiani. In gita?― disse uno di loro che indossava una giacca con i gradi da capitano dell’esercito sulle maniche. Sembrava il loro comandante.
Vincenzo si era tranquillizzato nel vedere quell’uniforme che aveva anche dei nastrini di decorazioni sul petto, ma c’era qualcosa che non andava nell’atteggiamento dell’uomo. Non sembrava un combattente di mestiere. Suo padre lo guardava con disgusto.
― La vostra famiglia, federale? ― disse il “capitano” indicando con la canna del mitra la mamma e lui.
― Si ― rispose il padre. E aggiunse ― Vedo che hai fatto carriera Tonio. Di chi era quella giacca?
Tonio sorrise, piegò la testa e sputò ai piedi del padre.
― Venite con noi, federale. La strada non è sicura. Si possono fare brutti incontri.
Si mise da parte e con la mano fece gentilmente il gesto che andassero davanti a loro.
Sua madre sembrava annichilita. Era sbiancata.
― Pietro… Pietro… ― ripeteva sottovoce agganciata al marito.
― Calma. Stai calma. Vincenzo, stai vicino, prendi la mano della mamma.
Vincenzo obbedì. Li fecero deviare dalla strada principale e proseguire in alcuni viottoli con a fianco delle vigne che dopo la vendemmia avevano cominciato a tingere di rosso le foglie. La mano di sua madre era madida di sudore.
Arrivarono a un casolare posto in un incrocio. Usciva fumo dal camino. Dalla casa comparvero altri uomini, sorridevano.
― Ma quale onore! Siete arrivati giusto in tempo per il pranzo! Sarà una bella festa, abbiamo da mangiare e da bere in abbondanza e poi ci sarà anche il dolce per tutti!
Guardavano la madre e sorridevano. Vincenzo non capiva perché ridevano. Gli dispiaceva vedere suo padre, sempre sicuro di se stesso, così a disagio, non capiva la paura della madre.
― Vediamo cosa ci avete portato di bello! ― disse giovialmente qualcuno prendendo la valigia e aprendola, spartendo quel poco di vestiario che c’era con qualche altro che si era avvicinato.
Fecero cenno, con una esagerata gentilezza, di entrare nella casa, facendosi rispettosamente da parte. Suo padre poggiò la bicicletta a fianco della porta, poi si girò di scatto.
― Perdonami Emma. Perdonami Vincenzino. Voglio bene solo a voi. Ci rivedremo in paradiso.
Mise la mano in tasca, estrasse la pistola e sparò un colpo in faccia al “capitano”. Poi sparò alla moglie, la puntò su Vincenzino e tentò di sparare nuovamente, ma alcuni uomini gli saltarono addosso trascinandolo a terra sopra la bicicletta che si rovesciò sopra di lui, proteggendolo per poco dalla gragnola di pugni e calci che gli piovve addosso. Lo trascinarono in un angolo e finirono di massacrarlo. Vincenzo vide sua madre a terra con gli occhi spalancati e una rosa rossa che si allargava sul petto. Sentì il sapore del suo sangue che gli era schizzato in faccia. Non voleva vedere più niente, non voleva sentire, non voleva stare lì. Cominciò a correre con il cuore in gola.
Ricordava questo mentre rimaneva immobile dentro il cespuglio di rovo. Sentiva l’odore del sangue di sua madre sul viso, cercava di pulirsi ma a ogni movimento le spine lo martoriavano. Decise di stare fermo, aspettare, essere sicuro che non ci fosse più nessuno che lo seguiva. Dopo sarebbe uscito e andato dai nonni, conosceva la strada, oppure sarebbe tornato a casa ad aspettare sua madre e suo padre. No. No. Non sarebbero tornati. Era successa una cosa molto brutta. Non voleva ricordare, non voleva sapere, non voleva piangere. Piangeva in silenzio, emettendo un suono strozzato, rabbioso, come un animale ferito. Le lacrime alleviarono la sua gola riarsa. Si addormentò.
Quanto tempo era passato? Non lo sapeva. Forse un giorno. Aveva sete, aveva fame. Intravide nella penombra in cui era avvolto alcune more e le mangiò. Sentì dei rumori nelle vicinanze, delle voci, ma non riusciva a capire cosa dicessero. Erano voci giovani che sembravano chiamarsi a vicenda, si stavano avvicinando. Non erano italiani e nemmeno tedeschi. Riconosceva il tono tedesco pur non capendo la lingua. Erano inglesi o americani, gli inveterati nemici.
Ma se loro erano nemici perché quegli uomini che li avevano fermati, italiani, che il papà conosceva, perché avevano fatto del male a suo padre? E perché suo padre aveva sparato a sua madre? Cosa voleva dire? Doveva saperlo. Doveva chiedere. Lui si considerava praticamente quasi un militare, diamine: era balilla moschettiere più volte encomiato dal capo squadra, suo padre era stato soldato nella Grande Guerra. Cosa doveva fare?
Doveva arrendersi, per quanto non fosse onorevole. Ma non poteva combattere. Non si spara su un soldato che si arrende. Ma lui non aveva l’uniforme. No. Ma aveva il suo fez e il gagliardetto di sezione. Lo avrebbero riconosciuto come soldato. Uscì a fatica dal macchione di rovo.
Zoppicava. Vide i soldati davanti a lui che gli venivano lentamente incontro, con le armi alzate a metà, forse indecisi sul da farsi. Vincenzo alzò le mani in alto e gli scesero le lacrime. Su una mano aveva in bella mostra il suo fez, con l’aquila romana in fronte al nemico, nell’altra il suo gagliardetto dorato che sventolava al debole vento indifferente. Lo avrebbero riconosciuto come un soldato.
Si ricordò il nome del suo eroe, il ragazzino protagonista dell’Isola del tesoro. Lo urlò con quanto fiato aveva in gola:
― Jim Hawkins! Jim Hawkins! Viva Jim Hawkins!