[CDP1] Ramòn
Posted: Thu Apr 13, 2023 7:06 pm
Traccia n. 3 "Passaggio dall'adolescenza alla maturità".
Commento:
Adenike
Ramòn chiudeva gli occhi, si mordeva le labbra, si tappava le orecchie, ma sentiva sempre, sempre…
Alla fine nel pozzo risuonò un clangore metallico lacerante. In mezzo al rumore, chiaro un urlo:
— Ramooon!!! Ramooon!!! — La voce di Louisito.
La luce della sera era penetrata fino in fondo al pozzo e Ramòn, muovendosi con fatica, tremante, vedeva l’acqua intorno a lui macchiarsi del rivoletto di sangue che gli usciva dalle labbra e dal naso. Si perdeva a vedere il suo sangue contorcersi nell’acqua come un serpentello sinuoso.
Le sue mani erano scavate come quelle di un vecchio per la lunga permanenza in acqua. I denti battevano in modo incontrollabile. Da sopra rumori di motori, poi un lungo silenzio. Altri rumori. Urla e pianti di uomini si avvicinavano e si allontanavano. Se piangevano… Se piangevano… pensava Ramòn, non erano quelli di prima. Non potevano essere loro. Sentì urlare — Madre de Diòs! Madre de Diòs!
Lo sentì diverse volte. Allora ebbe la certezza che non erano gli uomini di prima.
Immerso nell’acqua vide il secchio di metallo con la fune agganciata alla trave sopra il pozzo, lo prese e cominciò a sbatterlo sulle pareti di pietra, urlando come un animale ferito a morte, non riconoscendo più la sua voce che risaliva in alto, verso la luce.
Lo tirarono fuori. Erano soldati casualmente da quelle parti, avvisati degli spari nel seminario, giunti troppo tardi.
— Madre de Diòs! — urlavano girando in lungo e in largo — Madre de Diòs!
— Copritelo! Che non veda! — gridava uno di loro, mentre adagiavano Ramòn per terra, sbottonandogli la talare.
Ma Ramòn vide. I corpi sparsi ovunque dei suoi compagni, seminudi, sanguinanti, alcuni con le bocche e gli occhi spalancati, le braccia aperte, le gambe divaricate. Un attimo prima che gli mettessero una coperta in faccia vide l’albero del nespolo e il corpo nudo di Louisito coperto di sangue, le mani levate in alto, inchiodate ai rami, la testa reclinata, la talare ammucchiata ai suoi piedi in una pozza di sangue. Gliela avevano tolta la talare a Louisito che lo chiamava mentre lo martirizzavano…
Allora Ramòn non fu più Ramòn. Mai più.
Lo chiamavano padre Ramòn, ma non era un prete.
Stava sempre seduto in cortile sotto un nespolo.
Nessuno lo aveva mai sentito parlare.
Si trovava in manicomio dalla fine della guerra civile.
Commento:
Adenike
Don Pedraus era Rettore del seminario Minore di Acantàla. Quel giorno la sveglia era avvenuta come al solito per i giovani seminaristi, l’autunno appena iniziato era caldo e piacevole. Erano una cinquantina.
Avevano tutti sentore dei disordini che erano scoppiati in varie provincie, degli scontri fra militari, contadini ed operai, ma si sentivano al sicuro dentro quelle antiche mura consacrate e Acantàla era sempre stata una cittadina tranquilla e devota.
Don Pedraus celebrò il mattuttino all’alba, con la luce che cominciava a entrare dalle austere finestre ad arcate.
Dopo colazione fece adunare i seminaristi nel cortile per una comunicazione importante.
— Ragazzi, sapete che il nostro paese è in guerra… Sono momenti molto brutti…
— Verrà anche qui la guerra? — chiese Louisito, appartenente a una delle sezioni più giovani, aveva dodici anni, lo sguardo acceso e curioso.
— No… Ecco… Il vescovo ha stabilito che per prudenza, solo per prudenza, dobbiamo trasferirci nel seminario di Amerullas…
— Amerullas è lontana, padre. Come ci andiamo? — disse Ramòn con voce rauca e agitata. Aveva quindici anni, lo sguardo cupo e preoccupato mentre si guardava intorno nel cortile e guardava Louisito che conosceva da sempre perché erano dello stesso paese.
— Il vescovo ha dato incarico a due autocorriere di accompagnarci in città, dove prenderemo il treno. Ecco… volevo dirvi che io andrò a prendere contatti con gli autisti, scenderò in paese, mentre voi aspetterete qui con don Saubò. Partiamo questa mattina stessa. Salite nei dormitori e preparate i vostri bagagli, una valigia con le cose più necessarie.
— Dobbiamo lasciare le cose in più? — domandò curioso Louisito.
— Si. Lasciatele.
— Dobbiamo lasciare anche la talare? — chiese con fare provocatorio Ramòn.
— No. Cioè, se proprio dovesse…
— Io non toglierò mai la talare padre. Nemmeno tu Ramòn, vero?
Ramòn chinò il capo in silenzio, con un sospiro.
I ragazzi salirono nelle loro camerate per preparare le valigie, mentre padre Saubò, si aggirava nervosamente nel corridoio.
Si radunarono infine nel cortile, alcuni all’ombra di un nespolo che cominciava a dare i suoi frutti, altri intorno al pozzo adiacente. I seminaristi avevano formato vari gruppetti e chiacchieravano intensamente fra di loro, ma sottovoce.
Louisito, aiutato da Ramòn, si era arrampicato sull’albero e raccoglieva i frutti più in alto; alcuni li mangiava voracemente sputando i semi divertito, altri li metteva in tasca per il viaggio, qualcuno lo dava a Ramòn e altri li lanciava ad alcuni compagni affollati sotto di lui.
Si sentì un rumore di motori avvicinarsi. Padre Saubò, facendosi aiutare da alcuni ragazzi più grandi fra i quali Ramòn, aprì il pesante portone. Di solito queste mansioni venivano eseguite da personale laico che lavorava in seminario, ma quel giorno non si era presentato nessuno.
Ramòn si accorse subito che qualcosa non andava. Le vecchie autocorriere locali erano piene di uomini, con qualche donna in mezzo, che urlavano e cantavano agitando le mani. Si vedevano le loro facce attraverso i vetri appannati emergere come dalla nebbia.
Anche don Saubò si rese conto, si voltò verso i ragazzi e con una voce stentorea che nessuno aveva mai sentito in quel mite prete urlò: — Scappate! Nascondetevi! In nome di… — Non fece in tempo a finire che un uomo gli si avvicinò e don Saubò cadde a terra con la gola squarciata. Subito dopo qualcosa fu scaraventato sopra sopra di lui, era il corpo di don Pedraus, la faccia coperta di sangue.
— Fatevi buona compagnia! — disse qualcuno ridendo.
Ramòn e altri seminaristi si inginocchiarono pietrificati dal terrore, mentre nel cortile era uno svolazzare di piccole tonache nere che si dileguavano fra le urla. Ben presto il cortile fu vuoto.
Diversi uomini e donne scesero dalle corriere, chiusero il portone e si radunarono vicino all’entrata principale. Gli uomini, alterati dal vino, sporchi, armati di moschetti e pistole, alcuni ostentavano lunghi coltelli alle cintole; le donne disarmate, ma incutevano più paura. Non era delle donne il loro sguardo famelico, e non era solo per il vino.
— Sono tutti scappati questi piccoli corvi neri! — gridava qualcuno ridendo, sparando raffiche di mitra in aria, subito seguito dagli altri.
Una donna che era scesa per ultima da una corriera, barcollante, vestita come tutte le donne di paese ma con la gonna alzata e legata alla vita a mostrare le gambe bianche, noncurante dei capelli appiccicosi che le cadevano in fronte si abbracciò a un uomo e sorridendogli gli disse
— Estebàn, amore mio! Fammi divertire!
— Sicuro che ti divertirai! Sgozzeremo tutti questi criminali nemici dell’uomo!
— Ma dove sono finiti, Estebàn?
— Li troveremo. Da qui non scappano.
— Per non perdere tempo c’è un modo per farli venire! — disse un giovane che sembrava uno studente di città.
— Quale?
— Fate suonare la campanella dell’obbedienza! Obbediranno al suono e si presenteranno tutti!
— Che stupidi!
— Ma dov’è questa campanella? — chiesero ai tre seminaristi inginocchiati che avevano aperto il portone.
Guidon rispose di non saperlo e gli spararono in testa. Hamerio non rispose, spararono in testa pure a lui. Ramòn si alzò in piedi a fatica dicendo con voce tremolante — Va bene. Ve lo dico.
In quel momento echeggiò un urlo di bambino rimbalzando sulle mura.
— No! Non dirlo Ramòn! Non dirlo!
Tutti si voltarono nella direzione dell’urlo, ma non videro nessuno. I rami del nespolo si mossero, qualcuno puntò il fucile nello stesso momento in cui una piccola tonaca nera saltava giù. Era Louisito.
Vedendo quanto era piccolo gli uomini scoppiarono a ridere, poi si voltarono verso Ramòn che si mise a camminare verso un angolo dell’ingresso principale, dietro una colonna, dove stava la campanella dell’obbedienza.
— Suonala!
Ramòn la suonò. Lento. Ogni suono era un colpo al cuore.
Poco alla volta, da tutti gli angoli del seminario uscirono gruppi di ragazzi con le loro lunghe tonache nere, il capo chino, le mani raccolte in preghiera.
— Ma quanto sono stupidi!
— Sono dei pericolosi fanatici! Non devono diventare preti!
— Non lo diventeranno!
— Fammi divertire Estebàn!
Ordinarono ai seminaristi di dirigersi verso il nespolo e spintonarono anche Ramòn in quella direzione.
Estebàn e la sua donna presero Louisito.
— Questo è il più pericoloso di tutti!
La donna sorrideva guardando Louisito.
Gli uomini si scambiavano bottiglie di vino rubato, ballavano con le poche donne che avevano e fra di loro. Sembrava una festa.
Si creò confusione, polvere che si alzava in aria, seminaristi che andavano da tutte le parti terrorizzati. Ramòn si trovò vicino al pozzo, dietro l’albero del nespolo. Fu un attimo. Si sedette sul bordo e si lasciò scivolare dentro. Nel rumore che si era creato nessuno sentì il suo corpo precipitare urtando lungo le pareti di pietra, scorticandosi mani e gambe. Con un tonfo arrivò all’acqua, infilò la testa in una cavità naturale delle pietre per meglio nascondersi, immergendo con furia la tonaca che gonfia d’aria tendeva a risalire. Il pozzo era profondo e buio, sperava di non essere visto.
Sentiva urla, spari, ancora urla, risate. Per quanto tempo… Era un eterno presente di dolore, paura, freddo, sapore di ferro in bocca.
Cominciarono le urla dei suoi compagni, si mordeva la lingua per non gridare a sua volta. Ma quanto gridavano? Ma cosa gli stavano facendo? Ma quanto gridavano?
Dopo un tempo infinito le urla cominciarono a indebolirsi, diminuire, salvo a levarsi ancora grida isolate; c’era ancora chi urlava e lo faceva a lungo… Perché i suoi compagni urlavano così tanto? Perché?Ramòn chiudeva gli occhi, si mordeva le labbra, si tappava le orecchie, ma sentiva sempre, sempre…
Alla fine nel pozzo risuonò un clangore metallico lacerante. In mezzo al rumore, chiaro un urlo:
— Ramooon!!! Ramooon!!! — La voce di Louisito.
La luce della sera era penetrata fino in fondo al pozzo e Ramòn, muovendosi con fatica, tremante, vedeva l’acqua intorno a lui macchiarsi del rivoletto di sangue che gli usciva dalle labbra e dal naso. Si perdeva a vedere il suo sangue contorcersi nell’acqua come un serpentello sinuoso.
Le sue mani erano scavate come quelle di un vecchio per la lunga permanenza in acqua. I denti battevano in modo incontrollabile. Da sopra rumori di motori, poi un lungo silenzio. Altri rumori. Urla e pianti di uomini si avvicinavano e si allontanavano. Se piangevano… Se piangevano… pensava Ramòn, non erano quelli di prima. Non potevano essere loro. Sentì urlare — Madre de Diòs! Madre de Diòs!
Lo sentì diverse volte. Allora ebbe la certezza che non erano gli uomini di prima.
Immerso nell’acqua vide il secchio di metallo con la fune agganciata alla trave sopra il pozzo, lo prese e cominciò a sbatterlo sulle pareti di pietra, urlando come un animale ferito a morte, non riconoscendo più la sua voce che risaliva in alto, verso la luce.
Lo tirarono fuori. Erano soldati casualmente da quelle parti, avvisati degli spari nel seminario, giunti troppo tardi.
— Madre de Diòs! — urlavano girando in lungo e in largo — Madre de Diòs!
— Copritelo! Che non veda! — gridava uno di loro, mentre adagiavano Ramòn per terra, sbottonandogli la talare.
Ma Ramòn vide. I corpi sparsi ovunque dei suoi compagni, seminudi, sanguinanti, alcuni con le bocche e gli occhi spalancati, le braccia aperte, le gambe divaricate. Un attimo prima che gli mettessero una coperta in faccia vide l’albero del nespolo e il corpo nudo di Louisito coperto di sangue, le mani levate in alto, inchiodate ai rami, la testa reclinata, la talare ammucchiata ai suoi piedi in una pozza di sangue. Gliela avevano tolta la talare a Louisito che lo chiamava mentre lo martirizzavano…
Allora Ramòn non fu più Ramòn. Mai più.
Lo chiamavano padre Ramòn, ma non era un prete.
Stava sempre seduto in cortile sotto un nespolo.
Nessuno lo aveva mai sentito parlare.
Si trovava in manicomio dalla fine della guerra civile.