I giorni dell'Apocalisse: Training day

1
Era pallida, nemmeno si muoveva. Mi chiesi cos’avesse visto. Quasi intuendo il mio pensiero, sollevò il braccio e indicò dietro di me. Mi voltai e lo vidi.
Lo zombie ci fissava, immobile, appena oltre il coperchio aperto della capsula d’addestramento. Sembrava incapace di decidere con chi delle due iniziare, quel maledetto. Atteggiò la faccia grottesca ad un ghigno, scoprendo i denti impastati di sangue e muco, poi tese le braccia scarnificate verso di noi e si lanciò all’attacco, soffiando e gorgogliando.
«Sta’ giù!» Afferrai il bordo del coperchio e lo tirai verso di me mentre Blade si appiattiva nella capsula.
Avanti, vieni. Lo fissavo avvinarsi. Avevo le mani sudate.

Tre ore prima
«Forza bambine, a letto!»
Lenny, nel suo camice bianco, aveva sorriso. La solita espressione da faina stampata in faccia. Lenny non mi piaceva. Non piaceva a nessuno, in verità.
Si avvicinò alla mia capsula e rimase a fissarmi mentre mi calavo all'interno. Scivolai sul materassino in lattice, poi aggiustai gli shorts che, nell'operazione, si erano arricciati sotto le natiche.
Quando ebbi trovato una posizione comoda, espirai e restai immobile per consentire al tecnico, una donna di mezza età, di sistemare i sensori cardiaci.
«Lasci dottoressa, ci penso io».
La donna esitò un attimo, poi si allontanò.
«E brava la mia Jena, i migliori risultati della giornata al poligono!» Lenny infilò una mano, con il primo degli elettrodi, nella scollatura della mia canotta. «Ed è la terza volta questa settimana!»
Al Centro non ci eravamo mai posti il problema della tutela della nostra femminilità, ma sentivo lo stesso che c’era qualcosa di sbagliato in quell'uomo adulto che armeggiava tra i miei seni acerbi.
«Nonostante i risultati, però, il capitano Hame è preoccupato. Come mai?»
«Dice che a volte sono distratta e che questo…».
Lo sentii afferrare il mio seno sinistro, torcermi il capezzolo.
Sobbalzai, per la sorpresa e il dolore, e un ginocchio sbatté contro il cristallo del coperchio, prima che riuscissi ad impormi l’immobilità. Non volevo dargli soddisfazione.
«Non fare la stronzetta con me, ragazzina. Hame è incazzato perché hai spaccato il naso a quell'altra scema. Ricordami il suo nome».
«Jade, si chiama Jade». Avevo gli occhi pieni di lacrime ma la voce era ferma.
Lui mollò la presa.
«Sei una teppista, violenta e indisciplinata. Devi darti una regolata, altrimenti…» sembrò rilassarsi «Succedono tante cose durante l’addestramento, quando nessuno vede. Cose brutte, incidenti di cui nessuno è responsabile. Capisci?»
Feci di sì col capo.
«Bene. Ecco la tua coroncina, principessa».
Sistemò sul mio capo un caschetto pieno di sensori.
«Buonanotte».
Digitò sulla console della capsula, poi si allontanò.
Lo stanzone divenne buio mentre le “bare”, come tutti chiamavamo le capsule, s’illuminarono di una tenue tonalità azzurrina.
È vero, possono capitare brutte cose quando nessuno vede. Anche a te.
Con quel pensiero allettante in mente, scivolai nel sonno.

Il rantolo. Spalancai gli occhi e premetti il pulsante di controllo: la simulazione s’arrestò.
Non si dormiva mai troppo al Centro, l’addestramento proseguiva anche di notte. Durante il sonno.
Guardai l’LCD vicino al pulsante.
“Centro città – ore 12” era il programma selezionato dall'algoritmo.
Lessi che avevo rilevato lo zombie quando si trovava ancora a 25 m di distanza: era un buon risultato.
Si faceva presto a diventare bravi a questo gioco quando il mancato, tempestivo, risveglio era sanzionato da una vibrante scarica elettrica.
«Vi insegnerà ad essere reattive» diceva quel bastardo di Lenny.
Dopo un paio di settimane di quel trattamento, anche il minimo segnale anomalo era in grado di svegliarti.
Sbadigliai e tornai a distendermi sul materassino: c’era ancora qualche ora di sonno prima della sveglia.


Avanti, vieni. Lo fissavo avvinarsi. Avevo le mani sudate.
Lo zombie si avventò. Sollevai il cristallo della capsula con tutta la forza che avevo. Sangue frammisto ad altri liquidi macchiò il coperchio trasparente mentre il mostro rovinava a terra.
«Via di qui» gridai, ma Blade stava già scattando fuori dalla capsula.
Intorno era il finimondo: il penetrante fischio della sirena d’allarme si mescolava agli strilli delle altre ragazze che, risvegliate dal loro sonno, si erano accorte dell’intruso.
Una di loro non si avvide in tempo del pericolo: lo zombie l’agguantò ad una caviglia e l’attirò sul pavimento. Altri due mangiacarne fecero irruzione dall'ingresso più lontano.
«Da questa parte!»
Seguii Blade fuori dalla camerata, attraverso il lungo corridoio nel quale si aprivano innumerevoli porte. La vidi arrestarsi davanti a quella dell’infermeria.
«Perché ti sei impalata? Andiamo!»
Mi afferrò un polso. «Aspetta! Abbiamo bisogno di armi».
«E le cerchi qui? Andiamo in armeria».
«Non ci arriveremo mai senza qualcosa con cui difenderci. Fidati di me». Mi sorrise. I suoi occhi celesti sorridevano con lei.
Ovviamente mi fidavo di lei, anzi, era l'unica persona di cui mi fidassi là dentro. Entrammo.
Su un ripiano di metallo, vicino al lettino per le visite, trovai delle forbicine e un paio di bisturi. Nient’altro.
«Te l’avevo detto io…» iniziai.
«Tieni! Questa prendila tu che sei la più brava».
Mi passò una calibro 9 che aveva tirato fuori da un cassetto della scrivania del dott. Spencer.
«Che ci fa una pistola qui?»
«Il dottore la tiene per ogni evenienza».
«Sapeva in anticipo dell’attacco degli zombi?» chiesi incredula.
«Certo che no! Io prendo qualche bisturi».
La vidi soppesarne uno nel palmo della mano.
«Da quale minaccia voleva difendersi, allora?»
Blade piantò i suoi occhi nei miei, l’espressione sorpresa. «Ma dalla nostra, no?»
Dovette aver notato la mia sorpresa perché proseguì. «Ti ricordi Lena?»
Lena era pazza, la sua fine era stata una macchia per l’intero programma.
«Che c’entra? Lei è morta perché ha attraversato le corsie del poligono senza le dovute precauzioni».
«Macché, le ha sparato il dottore, proprio in questa stanza».
Ripensai alle parole minacciose di Lenny.
«Ma era solo una ragazzina!» obiettai inorridita.
«Si, una ragazzina psicotica, addestrata al combattimento e all'uso di ogni tipo di arma… come me, te e tutti gli altri qui dentro. E quel giorno era in preda ad una delle sue solite crisi». Mi sorrise con indulgenza. «Pensi ancora che le precauzioni del dottore siano eccessive? Usciamo adesso».
Il rantolo. Sollevai una mano per richiamare l’attenzione. Guardai la mia amica: aveva assunto la stessa posa quasi in contemporanea. Ci scambiammo un’occhiata d’intesa ed attendemmo. Il vano della porta, però, restò vuoto.
«Ce n’è toccato uno furbo!» ironizzò Blade.
Afferrò una sedia da ufficio, di quelle con le rotelle.
«Pronta?»
La lanciò oltre l’uscio. La sedia terminò la sua corsa cozzando rumorosamente contro la parete del corridoio.
Fu allora che il mostrò si palesò, soffiando minaccioso.
Presi la mira per un istante che mi sembrò un’eternità e feci fuoco. Il proiettile penetrò l'osso frontale di quell'essere, schizzando il muro alle sue spalle di materia organica.
Blade mi prese per mano e, leggere come farfalle, proseguimmo correndo.
Il pianerottolo del “Lift 1” era deserto. Due piante ornamentali, una per ogni lato delle portine dell'ascensore, decoravano un ambiente dall'aspetto severo: pareti rigorosamente bianche, marmo scuro al pavimento e una luce fredda che spandeva dal tubo al neon al soffitto. L'elevatore era in movimento.
«Come fai a sapere quelle cose di Lena?» chiesi.
«Me le ha raccontate il dottore».
«Che ha sparato ad una di noi? Perché lo avrebbe fatto?»
Guardai Blade aderente alla parete del corridoio: i capelli biondi facevano contrasto con la canotta e gli shorts scuri che indossava. Sembrava più grande della sua età. Alla mia domanda aveva abbassato lo sguardo.
«Jim mi aveva proposto di lasciare il centro e di andare a vivere a casa sua, con sua moglie e sua figlia. Diceva di volermi dare una vita normale. Se avessi accettato avrebbe alterato gli esami clinici per farmi apparire inadatta al programma…»
Grida dalla tromba dell’ascensore.
«Hai sentito anche tu?» chiese.
La cabina era giunta al piano e il familiare din annunciava l’apertura delle portine.
«Per le scale. Subito!»
Mi lanciai giù per la rampa. Blade due passi indietro.
«Jena!»
«Cosa?» Mi voltai. Percepii, più che vederlo, il movimento della sua mano. Una saetta d’argento ebbe il tempo d’impressionarsi sulla mia retina prima che potessi sentire lo spostamento d’aria su un ciuffo di capelli. Poi il gorgoglio.
Dietro di me, un mangiacarne cadde sulle ginocchia e poi in avanti con il bisturi conficcato in un’orbita.
«Si, starò più attenta!» dissi anticipandola.


«Stupida! Come ho fatto a non ricordarlo?»
Non avevo mai visto Blade così arrabbiata con sé stessa. Il dettaglio trascurato era il lettore di ID card accanto alla solida porta in metallo dell’armeria: senza tessera di riconoscimento, l’accesso ce lo potevamo sognare. Il fatto che il corridoio davanti al locale fosse un vicolo cieco non faceva che peggiorare le cose. Se fossero sopraggiunti degli zombie saremmo stati in trappola. E a me era rimasto un solo colpo.
Un fruscio.
«Cazzo, no!» imprecò Blade.
Furono istanti interminabili poi, la figura massiccia del capitano Hame sbucò dall'ansa del corridoio, pistola in mano.
Sorridemmo. Avevamo la nostra chiave!
L’armeria era una specie di paese di bengodi per quelli come noi cresciuti a pane e munizioni. Hame si appropriò di un fucile da cecchino e riempì lo zaino che aveva con sé di munizioni. Blade fece sua una Colt LW Commander, piccola e leggera. Io decisi che la Beretta del dottor Spencer mi piaceva abbastanza, perciò mi limitai a fare incetta di caricatori: due li assicurai in vita con l’elastico degli shorts, altri li diedi al capitano.
«Sono qui!» disse Blade seria.
«Sì!» confermai.
Armammo le pistole e uscimmo nel corridoio.
Un gruppo di zombie veniva verso di noi emettendo suoni inarticolati. Dall'ansa del corridoio ne arrivavano altri.
«Tre, quattro, cinque...» La conta di Blade si fermò a sette.
«Pronta?» mi sfidò.
Annuii.
Avanzammo verso l'orda, un passo dietro l'altro, sparando all'impazzata.
Sentivo ogni singolo suono, ogni rumore: la carne trapassata dai proiettili, il tintinnare dei bossoli sulle piastrelle, i corpi che piombavano, afflosciandosi, sul duro pavimento. Sopra ogni cosa, il rimbombare dei colpi esplosi, simili a tuoni, in quell'ambiente ristretto. Un ritmo letale.
Tre secondi. Tanto durò la nostra azione. Quando le armi tacquero, gli zombi giacevano a terra, morti. Tutti salvo uno. Blade lo finì con un colpo ravvicinato al capo.
Guardai il capitano. Osservava la scena, immobile. Sul suo viso un'espressione indecifrabile.
«Libero!» Confermò Blade da dietro la curva del corridoio.
«Possiamo andare, capitano» ripetei.
Annuì e si avviò. Senza dire neanche una parola.


L'ingresso del Centro. Nello spiazzo davanti alle porte scorrevoli a vetri, una lunga fila di tornelli, simili a quelli all'ingresso della nostra mensa.
Non mi ero mai spinta fin lì: per noi del programma quell'area del complesso era off limits. Quando vi giunsi rimasi incantata. La luce fioca penetrava di taglio stendendo lunghe ombre nell'ambiente deserto. Tutto sembrava più grande, sinistro e alieno. La luce però era bella, di un rosa tenue. Quella che stavo ammirando era la mia prima alba.
Blade sussultò.
Seguii il suo sguardo fino ad incontrare la figura immobile, distesa prona sul pavimento. Il camice bianco aperto sul davanti che creava come delle ali di tessuto attorno ai suoi fianchi.
«Jim!»
Corse ad accertarsi dell’identità dell’uomo, io le andai dietro.
«È quel bastardo di Lenny!» dissi neutra.
«È morto?»
Lo tastai con un piede.
«Pare di si».
Mi voltai verso Hame. «Può aprire le porte?»
L’altro mise subito mano alla sua ID card.
Un sibilo. Basso, appena udibile, ma vicino. Tanto vicino.
Blade attenta!
Blade urlò. Forse per la sorpresa, forse per la paura, più probabilmente per entrambe le cose: Lenny, redivivo, la teneva per un braccio e cercava di attirarla a sé. La metà della faccia, prima nascosta alla vista, era oscenamente deturpata: la guancia destra gli era stata strappata via, brandelli di carne di un rosso acceso, penzolavano inerti.
Azzannò. Il suo capo si agitò convulso sul collo di Blade che si riempì di sangue. Le sue urla, adesso, erano di dolore.
Aggirai la coppia che si muoveva all'unisono portandomi alle spalle del predatore e sparai. Entrambi caddero giù: lo zombie esanime, Blade, tremante ed isterica.
Mi avvicinai: la ferita al collo era grave, perdeva molto sangue.
«Blade…»
Puntellandosi sui gomiti, fece un balzo indietro.
«No… gni occae» gorgogliò.
«Devi tamponare la ferita finché non raggiungiamo…» stavo per dire l’infermeria, ma compresi che sarebbe stato inutile tornare laddove non c’era più nessuno. «finché non troviamo un medico».
Mi tolsi la canotta senza curarmi del fatto che sotto non avessi null'altro, l’appallottolai e gliela porsi. Lei la prese con sospetto.
«Capitano mi aiuti a portarla; dobbiamo fare pre…» lo vidi armare l’otturatore del suo fucile e spianare l’arma.
«Che sta facendo?»
«Spostati Jena».
Alle mie spalle Blade strillò, terrorizzata.
«Metta giù quell'arma» gridai allarmata.
«Ormai non c’è più niente da fare per lei: è infetta. Morirà e quando si risveglierà ci darà la caccia. Come gli altri».
Blade tremava e piangeva. Scossi il capo.
«No, aspetti! Non come gli altri! Lenny diceva sempre che noi del programma eravamo diversi. E se fossimo immuni?»
Hame esitò per un attimo, dopodiché alzò nuovamente il fucile. «Non possiamo rischiare!»
Blade sussultò ancora, ma stavolta con minore energia.
«Metti giù quell'arma, stronzo!» le parole che avevo pronunciato risuonarono distorte dalla rabbia «Mettila giù o ti ammazzo come un cane!»
La canna della mia M9 puntava dritta verso la sua testa.
«Non potrai impedirmi di spararle» disse calmo.
«Né tu, che ti apra il cranio. Anzi no…» corressi la mira di qualche centimetro «Con una clavicola ridotta in poltiglia saresti una preda inerme, lo sai, vero? Giuro che resterò a guardare mentre quei mostri ti faranno a pezzi!»
«Sei una pazza sanguinaria».
«Allora saprai che non scherzo».
«È follia» provò a ribattere.
«Vattene!» Urlai. Non avrei accettato che dicesse altro.
«… Enaa…»
La voce di Blade era un sussurro.
«Em ha ra…ione».
Hame aveva inarcato le sopracciglia.
«La senti? Finalmente qualcuna che ragiona! Ma non lo capisci che è un atto di clemenza?».
Guardai Blade: non tremava più, sembrava risoluta.
«Tesoro…»
«Fallo. Non vo…io diventare un mo…sro, non vogl… i miei occhi non ti ricono…ano la pro…zima volta che ti vedo».
Piangeva. Senza avere neppure la forza per farlo.
Alle mie spalle, passi che si allontanavano.
«Ti aspetto fuori». La voce odiosa di Hame.
Mi inginocchiai accanto a lei.
«Il mo… ndo fuori… invidio, sai?» si sforzò di sorridermi.
«Tu potevi andarci a vivere, se lo avessi voluto. Perché non hai accettato la proposta di Spencer?»
«Vole…vo anda…ci con te. Lui non vol…».
Presi a singhiozzare. «Stupida, stupida, dovevi fregartene di me!»
«Ce l’ave…amo quasi fatta». I suoi occhi indugiarono verso la luce delle grandi vetrate distanti solo pochi metri.
Prese la canna della pistola che tenevo in mano e se la poggiò alla fronte.
«Ora».
Chiuse gli occhi in attesa.
«No» protestai tra le lacrime.
«Sì».
Distolsi lo sguardo. Quando la pressione che esercitai superò la resistenza del grilletto, un lamento acuto proruppe dalla mia bocca. Mi alzai e corsi via. Senza mai voltarmi indietro.

Trovai Hame seduto sul bordo di un’aiuola. Mi guardò per un istante, poi inspirando si alzò.
«Andiamocene da qui: presto arriveranno le squadre di sicurezza della Compagnia!»
Sgranai gli occhi, a quelle parole.
«So a cosa stai pensando e la risposta è no! Il loro incarico sarà di contenere la diffusione dell’epidemia».
Mi lanciò uno sguardo in tralice.
«Nessuna affermazione stupida… Bene» disse annuendo.
Superammo l’apertura nella recinzione che circoscriveva il perimetro del centro. Appesa alla maglia metallica, una grande iscrizione recitava “Omnilabs”.
«Potremo mai fidarci di nessuno, d’ora in avanti?» chiesi.
Lui guardò l’orizzonte davanti a noi.
«No».
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