[Lab5] Agnese
Posted: Sun Oct 02, 2022 10:14 pm
Agnese si è lasciata alle spalle le viuzze intricate di Sant’Eustachio. Mentre cammina veloce, il suo unico pensiero è di arrivare da Cornelia prima che se ne accorga sua mamma. Del resto, era proprio colpa di sua mamma, se adesso si trovava ad affrettarsi lungo la scorciatoia.
Il profumo delle foglie umide scaldate dal sole la distraggono per un momento dalla sua preoccupazione.
Come poteva sua mamma pensare di farla andare alla festa di compleanno per i dieci anni di quell’antipatica della Maria Vittoria, detta Mariví, senza nulla di nuovo da indossare. Già la sentiva con quella vocina mielosa, vestita nuova da capo a piedi, che le faceva i complimenti per come aveva combinato le sue solite vecchie cose. La sua unica speranza era Cornelia, quella tedesca inquietante. Ad Agnese era stata simpatica fin da subito però, anche se la mamma e le sue amiche le dicevano di non darle confidenza.
Quasi era inciampata in una radice, solo una Cornelia poteva andare a vivere nella casa diroccata ai margini del bosco. Il sentiero comunque era ben calpestato, perché, nonostante le raccomandazioni, tutto il paese era andato almeno una volta da Cornelia. Lei veniva da lontano, da una città che, secondo quello che aveva capito Agnese, era famosa per gli hamburger. Pare che lì facesse un lavoro strano, come un manichino se ne doveva stare in vetrina. Insomma, che importanza ha, pensa Agnese mentre accelera il passo, quello che conta è che aveva consigli e soluzioni per ogni occasione.
Se la ricorda ancora la prima volta che l’aveva vista. Era bionda e alta, con un vestitino estivo che le penzolava addosso. Era entrata nel negozio di generi alimentari di sua mamma. “Buongiorno”, aveva esordito, ma detto da lei suonava come “ponciorno”. Aveva detto di chiamarsi Cornelia e che stava ristrutturando la cascina di pietra del Vinz, quella prima del bosco; chiedeva se potesse fare la spesa, come se qualcuno la dovesse autorizzare. La mamma era un po’ stupita e l’aveva solo salutata e detto che poteva servirsi.
Cornelia aveva riempito il suo cesto e da quel giorno una volta alla settimana andava a fare la spesa. Nel giro di poco tempo aveva reso abitabile la casetta e l’aveva allacciata alla corrente.
Dall’alto dei suoi nove anni Agnese considerava Cornelia un’eroina, aveva fatto tutto da sola e nessuno viveva con lei. Solo quando erano arrivati quegli uomini sulla Mercedes blu, ed era venuta fuori anche tutta la storia delle vetrine rosse e dei manichini, la gente del paese le era stata vicina.
Adesso sente l’odore acre del fumo del camino. Ci sta proprio bene in questa giornata, magari Cornelia aveva fatto una di quelle sue torte con le amarene, la cioccolata e la panna. Aveva detto che era la torta della foresta nera; per Agnese rimaneva un mistero come un postaccio potesse avere delle torte così buone.
Man mano che si avvicina alla radura il coraggio pare svanire. E se ci fosse stato qualcun altro a chiedere consiglio? E poi non era sicura che Cornelia conoscesse un modo per convincere la mamma a comperarle qualcosa di nuovo per il compleanno. Ci sarebbe voluta una pozione magica. Ma per quanto strana Cornelia, non era certamente una strega.
Mentre rimugina su cosa chiedere e soprattutto come chiederlo si siede su un masso e guarda da lontano la casa di pietra. Vede le tende a quadratini rossi, i gerani alla finestra e le pare di intuire un’ombra che si muove in casa. La porta si apre di colpo, ed eccola lì, Cornelia che guarda il cielo e chiama Maxi, il suo gattone arancione. Agnese si accuccia un pochino per non farsi notare, ma è felice che non ci sia nessun altro.
Infine, ripensa alla storia di Adalberta, che sua mamma aveva raccontato alla zia un pomeriggio. Adalberta era innamorata da almeno cinque anni di Sebastiano, il figlio del macellaio. Lui però nemmeno la vedeva. Si occupava dei suoi quarti di bue e le vendeva le bistecchine senza battere ciglio. Così Adalberta si rivolse a Cornelia, che le spiegò alcune cose. A pensarci, Agnese, si ricordava solo del parrucchiere, delle unghie delle mani, e poi avevano detto qualcosa a proposito di pizzo nero, ma non aveva capito bene dove andasse quel pizzo nero, perché non l’aveva mai visto addosso ad Adalberta. Comunque sia, dopo poche settimane Adalberta passeggiava raggiante appesa al braccio muscoloso di Sebastiano e non comprava più bistecchine. I due si erano sposati l’estate scorsa, e anche Agnese aveva capito che Adalberta era incinta, perché sembrava un cocomero rivestito di bianco quel giorno.
Insomma, pensa la bambina, se voglio una soluzione, non mi rimane altro che parlare con Cornelia. Si alza, raddrizza le spalle e fa gli ultimi cinquanta metri.
Cornelia le apre appena lei bussa.
“Aniese, cosa fai qui tutta sola? Lo sa tua mamma?”
Mentre Cornelia la fa entrare in casa, Agnese le racconta tutto, della festa, del niente di nuovo, della mamma che non sa nulla, perché comunque era colpa sua se era qui. Non sa perché, forse per colpa del fuoco nel camino, del profumo di cannella, ma le vengono le lacrime agli occhi; e anche l’idea di tornare in paese da sola la inquieta, adesso che fa buio presto.
Per prima cosa Cornelia le piazza davanti un piatto di biscotti ancora caldi e un tè all’arancia. Chiama la mamma e le promette che riporta a casa Agnese in macchina, senza farle fare il sentiero da sola. Poi le si siede di fronte e aspetta.
La bambina si vergogna un po’ davanti a quello sguardo azzurro e un po’ è anche arrabbiata che Cornelia sembri un’alleata della mamma.
“Quindi è un problema di vestito, ciusto?”
Annuisce.
“Tu vuoi qualcosa di nuovo e speciale per la festa?”
Annuisce ancora.
“Vieni con me.”
Assieme vanno nella stanza da letto. Agnese rimane a bocca aperta davanti ai tesori nascosti nell’armadio.
Mai aveva visto così tanti vestiti di lustrini, e poi belli appesi c’erano anche dei minuscoli costumi da bagno di tutti i colori, perfino d’oro e decorati di piume e lustrini. Dietro alla seconda anta invece facevano mostra di sé abiti neri di tutte le fogge, certi sembravano addirittura di plastica e avevano delle decorazioni d’argento come catene o borchie.
“No, questo non va.” Dichiara Cornelia decisa e apre un baule pieno di foulard e scialli. Sembrava che ci fosse cascato l’arcobaleno tanti colori c’erano.
Agnese non ha il coraggio di muoversi, solo gli occhi saettano da un punto all’altro richiamati da una decorazione o da una particolare tonalità. Pensa solo che allora doveva essere vero che lavorava come manichino in vetrina, altrimenti come faceva ad avere così tanti vestiti.
“Dimmi, cosa pensavi di metterti per quella festa? Qualcosa di elegante o più sbarazzino e vistoso? Pantaloni o gonna?”
“Voglio qualcosa di speciale che non ha nessuno, e mi metto i pantaloni, perché dopo la torta usciamo in cortile a giocare.”
“Ok, allora va bene questo, questo e questo, però ti devi mettere i jeans altrimenti non funziona. Vieni con me!”
Agnese la segue e non capisce cosa voglia fare con quei minuscoli reggiseni pieni di paillettes.
Cornelia si siede decisa alla macchina da cucire, agguata un metro, prende le misure della bambina e inizia a lavorare.
Taglia, aggiusta e cuce. Agnese osserva tutto molto preoccupata. Lo sapeva che era di poche parole, ma ormai era passata più di un’ora e mezza, ancora non aveva capito cosa stesse facendo e fuori era buio.
All’improvviso Cornelia si gira verso di lei e fra le mani aveva il giubbino più bello che Agnese avesse mai visto. Era fatto di triangoli di paillettes lilla, azzurri e rosa, attorno al collo e ai polsini c’erano dei bordi di piume lilla e come bottoni degli enormi diamanti. Era una cosa da principesse questa, Agnese ne era certa. È leggero, come si sente leggera lei all’idea della Mariví che farà finta di niente, perché nemmeno era in grado di immaginarsi una cosa strepitosa come quella.
“Cornelia, qui ci metto una maglietta bianca, i jeans e basta, vero? Questa è una giacca gioiello come quelle sulle riviste, vero?” E continua a blaterare piena di entusiasmo per ogni piccolo dettaglio per tutto il viaggio fino davanti alla porta di casa dove l’aspetta sua mamma.
Agnese stampa un bacio sulla guancia di Cornelia e salta giù dalla macchina. È talmente felice che vola fra le braccia di sua madre dimenticandosi che era arrabbiata con lei.
Quel piccolo bacio innocente brucia sulla guancia di Cornelia, che per la prima volta sente che la sua vecchia vita ha prodotto qualcosa di buono.
Il profumo delle foglie umide scaldate dal sole la distraggono per un momento dalla sua preoccupazione.
Come poteva sua mamma pensare di farla andare alla festa di compleanno per i dieci anni di quell’antipatica della Maria Vittoria, detta Mariví, senza nulla di nuovo da indossare. Già la sentiva con quella vocina mielosa, vestita nuova da capo a piedi, che le faceva i complimenti per come aveva combinato le sue solite vecchie cose. La sua unica speranza era Cornelia, quella tedesca inquietante. Ad Agnese era stata simpatica fin da subito però, anche se la mamma e le sue amiche le dicevano di non darle confidenza.
Quasi era inciampata in una radice, solo una Cornelia poteva andare a vivere nella casa diroccata ai margini del bosco. Il sentiero comunque era ben calpestato, perché, nonostante le raccomandazioni, tutto il paese era andato almeno una volta da Cornelia. Lei veniva da lontano, da una città che, secondo quello che aveva capito Agnese, era famosa per gli hamburger. Pare che lì facesse un lavoro strano, come un manichino se ne doveva stare in vetrina. Insomma, che importanza ha, pensa Agnese mentre accelera il passo, quello che conta è che aveva consigli e soluzioni per ogni occasione.
Se la ricorda ancora la prima volta che l’aveva vista. Era bionda e alta, con un vestitino estivo che le penzolava addosso. Era entrata nel negozio di generi alimentari di sua mamma. “Buongiorno”, aveva esordito, ma detto da lei suonava come “ponciorno”. Aveva detto di chiamarsi Cornelia e che stava ristrutturando la cascina di pietra del Vinz, quella prima del bosco; chiedeva se potesse fare la spesa, come se qualcuno la dovesse autorizzare. La mamma era un po’ stupita e l’aveva solo salutata e detto che poteva servirsi.
Cornelia aveva riempito il suo cesto e da quel giorno una volta alla settimana andava a fare la spesa. Nel giro di poco tempo aveva reso abitabile la casetta e l’aveva allacciata alla corrente.
Dall’alto dei suoi nove anni Agnese considerava Cornelia un’eroina, aveva fatto tutto da sola e nessuno viveva con lei. Solo quando erano arrivati quegli uomini sulla Mercedes blu, ed era venuta fuori anche tutta la storia delle vetrine rosse e dei manichini, la gente del paese le era stata vicina.
Adesso sente l’odore acre del fumo del camino. Ci sta proprio bene in questa giornata, magari Cornelia aveva fatto una di quelle sue torte con le amarene, la cioccolata e la panna. Aveva detto che era la torta della foresta nera; per Agnese rimaneva un mistero come un postaccio potesse avere delle torte così buone.
Man mano che si avvicina alla radura il coraggio pare svanire. E se ci fosse stato qualcun altro a chiedere consiglio? E poi non era sicura che Cornelia conoscesse un modo per convincere la mamma a comperarle qualcosa di nuovo per il compleanno. Ci sarebbe voluta una pozione magica. Ma per quanto strana Cornelia, non era certamente una strega.
Mentre rimugina su cosa chiedere e soprattutto come chiederlo si siede su un masso e guarda da lontano la casa di pietra. Vede le tende a quadratini rossi, i gerani alla finestra e le pare di intuire un’ombra che si muove in casa. La porta si apre di colpo, ed eccola lì, Cornelia che guarda il cielo e chiama Maxi, il suo gattone arancione. Agnese si accuccia un pochino per non farsi notare, ma è felice che non ci sia nessun altro.
Infine, ripensa alla storia di Adalberta, che sua mamma aveva raccontato alla zia un pomeriggio. Adalberta era innamorata da almeno cinque anni di Sebastiano, il figlio del macellaio. Lui però nemmeno la vedeva. Si occupava dei suoi quarti di bue e le vendeva le bistecchine senza battere ciglio. Così Adalberta si rivolse a Cornelia, che le spiegò alcune cose. A pensarci, Agnese, si ricordava solo del parrucchiere, delle unghie delle mani, e poi avevano detto qualcosa a proposito di pizzo nero, ma non aveva capito bene dove andasse quel pizzo nero, perché non l’aveva mai visto addosso ad Adalberta. Comunque sia, dopo poche settimane Adalberta passeggiava raggiante appesa al braccio muscoloso di Sebastiano e non comprava più bistecchine. I due si erano sposati l’estate scorsa, e anche Agnese aveva capito che Adalberta era incinta, perché sembrava un cocomero rivestito di bianco quel giorno.
Insomma, pensa la bambina, se voglio una soluzione, non mi rimane altro che parlare con Cornelia. Si alza, raddrizza le spalle e fa gli ultimi cinquanta metri.
Cornelia le apre appena lei bussa.
“Aniese, cosa fai qui tutta sola? Lo sa tua mamma?”
Mentre Cornelia la fa entrare in casa, Agnese le racconta tutto, della festa, del niente di nuovo, della mamma che non sa nulla, perché comunque era colpa sua se era qui. Non sa perché, forse per colpa del fuoco nel camino, del profumo di cannella, ma le vengono le lacrime agli occhi; e anche l’idea di tornare in paese da sola la inquieta, adesso che fa buio presto.
Per prima cosa Cornelia le piazza davanti un piatto di biscotti ancora caldi e un tè all’arancia. Chiama la mamma e le promette che riporta a casa Agnese in macchina, senza farle fare il sentiero da sola. Poi le si siede di fronte e aspetta.
La bambina si vergogna un po’ davanti a quello sguardo azzurro e un po’ è anche arrabbiata che Cornelia sembri un’alleata della mamma.
“Quindi è un problema di vestito, ciusto?”
Annuisce.
“Tu vuoi qualcosa di nuovo e speciale per la festa?”
Annuisce ancora.
“Vieni con me.”
Assieme vanno nella stanza da letto. Agnese rimane a bocca aperta davanti ai tesori nascosti nell’armadio.
Mai aveva visto così tanti vestiti di lustrini, e poi belli appesi c’erano anche dei minuscoli costumi da bagno di tutti i colori, perfino d’oro e decorati di piume e lustrini. Dietro alla seconda anta invece facevano mostra di sé abiti neri di tutte le fogge, certi sembravano addirittura di plastica e avevano delle decorazioni d’argento come catene o borchie.
“No, questo non va.” Dichiara Cornelia decisa e apre un baule pieno di foulard e scialli. Sembrava che ci fosse cascato l’arcobaleno tanti colori c’erano.
Agnese non ha il coraggio di muoversi, solo gli occhi saettano da un punto all’altro richiamati da una decorazione o da una particolare tonalità. Pensa solo che allora doveva essere vero che lavorava come manichino in vetrina, altrimenti come faceva ad avere così tanti vestiti.
“Dimmi, cosa pensavi di metterti per quella festa? Qualcosa di elegante o più sbarazzino e vistoso? Pantaloni o gonna?”
“Voglio qualcosa di speciale che non ha nessuno, e mi metto i pantaloni, perché dopo la torta usciamo in cortile a giocare.”
“Ok, allora va bene questo, questo e questo, però ti devi mettere i jeans altrimenti non funziona. Vieni con me!”
Agnese la segue e non capisce cosa voglia fare con quei minuscoli reggiseni pieni di paillettes.
Cornelia si siede decisa alla macchina da cucire, agguata un metro, prende le misure della bambina e inizia a lavorare.
Taglia, aggiusta e cuce. Agnese osserva tutto molto preoccupata. Lo sapeva che era di poche parole, ma ormai era passata più di un’ora e mezza, ancora non aveva capito cosa stesse facendo e fuori era buio.
All’improvviso Cornelia si gira verso di lei e fra le mani aveva il giubbino più bello che Agnese avesse mai visto. Era fatto di triangoli di paillettes lilla, azzurri e rosa, attorno al collo e ai polsini c’erano dei bordi di piume lilla e come bottoni degli enormi diamanti. Era una cosa da principesse questa, Agnese ne era certa. È leggero, come si sente leggera lei all’idea della Mariví che farà finta di niente, perché nemmeno era in grado di immaginarsi una cosa strepitosa come quella.
“Cornelia, qui ci metto una maglietta bianca, i jeans e basta, vero? Questa è una giacca gioiello come quelle sulle riviste, vero?” E continua a blaterare piena di entusiasmo per ogni piccolo dettaglio per tutto il viaggio fino davanti alla porta di casa dove l’aspetta sua mamma.
Agnese stampa un bacio sulla guancia di Cornelia e salta giù dalla macchina. È talmente felice che vola fra le braccia di sua madre dimenticandosi che era arrabbiata con lei.
Quel piccolo bacio innocente brucia sulla guancia di Cornelia, che per la prima volta sente che la sua vecchia vita ha prodotto qualcosa di buono.