[Lab5] Anna da dimenticare
Posted: Sun Oct 02, 2022 3:57 am
Laboratorio 5: focalizzazione interna con narratore esterno.
Tema: Leggerezze.
Il suo compito era terminato, aveva già avuto il suo compenso e quindi, firmato il certificato di corretto montaggio delle attrezzature e del palco, se avesse voluto, sarebbe potuto ritornare a Roma. Quel paesino non offriva svaghi e non gli andava di restare a sentire la scaletta musicale per l’ennesima volta. E poi c’era Anna che sarebbe rientrata a Roma quella sera. Anna che pianificava tutto, prevedeva tutto ed evitava per lui qualsiasi inconveniente e, che adesso, voleva affrontare il discorso di loro due.
Prima di tornare avrebbe preso volentieri qualcosa da mangiare: il pranzo l’aveva saltato per seguire i lavori d’istallazione. Diede un’occhiata alle bancarelle affilate lungo la via che portava fuori dal paese, per la maggior parte erano banchetti di ciliegie; la primizia venduta a peso d’oro per la sagra che si stava svolgendo.
I negozi di generi alimentari erano chiusi, un unico bar in vista e tutti i tavoli erano occupati. C’erano un ragazzetto e una decina di vecchietti che si alternavano, se alcuni andavano, altri si sedevano; il ragazzo no, lui non si scollava dalla sedia.
Dal palco, posto in piazza Santa Liberata, comunque, si stava godendo lo spettacolo al contrario del paese in festa.
La gente, andava e veniva e col tempo la folla s’ingrossava. Transitava, per lo più, nello spazio tra due piazze. Le signore trovavano posto sulle panchine di travertino poste lungo il perimetro di Largo Belvedere, alcune degustavano ciliegie nei cestini da primizia, altre reggevano in braccio i bambini più piccoli. Sotto i tigli, allineati dietro i sedili di pietra, si andavano radunando giovanotti e padri di famiglia. Superati gli alberi, c’era la panoramica: una balaustra che circondava per tre quarti lo slargo circolare e si lanciava nel vuoto incontro alle nuvole.
Da lì si poteva sorvolare la campagna romana: sulla destra, incastonata sui monti tiburtini, si vedeva Tivoli e, velata dalla caligine di un maggio troppo caldo, Roma appariva scompariva.
I Rockes fecero il loro ingresso dando le spalle al pubblico, sulle prime note di “ma che colpa abbiamo noi” si voltarono, Shel Shapiro si accanì sulle corde della chitarra e ciò provocò un movimento tellurico tra la folla che si accalcò sulle transenne.
Andrea posò di nuovo lo sguardo sui tavoli del bar, il ragazzino stava ancora lì, seduto, il tavolo sgombro e nessuno a fargli compagnia. I Rockes suonavano, ma lui guardava un punto indefinito. “Ma perché non va con gli altri a scatenarsi in mezzo alla folla? Non gli frega proprio niente di tutto questo? E vai a divertirti!” Il ragazzo sembrò ascoltarlo, si alzò, sbadigliò allargando le braccia, fece due passi verso la calca della gente. Andrea, deciso a guadagnare quel tavolino, si fece largo tra la folla di adolescenti e sperava che quello non ci ripensasse e si rimettesse a sedere.
Luigi si stava annoiando a morte, rimuginava; ne aveva le scatole piene ma suo padre era stato chiaro, “ tu non ti muovi dal bar, se scopro che sei andato in giro ti rovino.” Per la rabbia strinse i pugni e gettò uno sguardo verso gli odiati cantanti. All’improvviso qualcuno sbucò tra la folla. Restò immediatamente colpito, affascinato dall’eleganza di quell’uomo: indossava un completo di lino bianco, portava i calzoni un po' corti sopra le caviglie abbronzate e i mocassini di cuoio lucido avevano lo stesso colore della cintura. Luigi, avrebbe potuto fargli largo, c’era spazio per fare un piccolo passo indietro, ma restò fermo, era ipnotizzato quando il tipo gli passò davanti, così vicino che respirò la scia del suo profumo. Gli gli ficcò gli occhi negli occhi mentre quello lo superava, e lo guardava ancora quando quello si girò, gli fece l’occhiolino, afferrò la sedia ancora calda e si lasciò andare sulla seduta.
Luigi distolse lo sguardo, aveva le guance in fiamme. “Che gli è preso a quello, ma che è scemo? Me fa l’occhietto, me fa. Ce manca solo che me piano pe’ frocio.” Fece due passi verso il palco ma tornò subito indietro e si diresse in panoramica, “ Magari da là se sentono de meno, ‘sti rompiscatole. Ma ‘st’altr’anno col cavolo che... L’animaccia loro e pure del sindaco”
Andrea ordinò e intanto non perdeva di vista quel giovane che si spostava da un punto all’altro della piazza. Ogni tanto andava in panoramica, dava uno sguardo alle luci di Roma o a quelle seriche e gialle di Tivoli, poi tornava verso il palco, serio e imbronciato. Che cosa lo trattenesse lì, ad ascoltare il concerto, con quell’aria di fottersene completamente della gente e della musica, Andrea non riusciva a capirlo e a non pensarci. La sua curiosità era tanta che restò fino alla fine della perfomance dei Rockes.
La luna piena illuminava la campagna, l’argento sciolto brillava sui campi coltivati e sugli uliveti. Andrea stava ammirando il panorama, ma con la coda dell’occhio non perdeva di vista il ragazzo che era tornato a sedersi sul parapetto della balconata. Il concerto era finito, si sentivano solo qualche bestemmia e qualche risata dei ragazzi che smontavano il palco, e alcuni ubriachi che inveivano contro qualsiasi cosa. Andrea si avvicinò al ragazzo.
— Sei di qui? Vivi in questo paese?
— Sì, abito là, sopra al bar.
— Abiti qui! Hai dovuto ascoltare il concerto per forza, altrimenti non saresti mai venuto vero? Io mi chiamo Andrea —
— Sono Luigi, i Rockes non mi piacciono. Li fanno sempre qui i cantanti, tutti gli anni davanti casa mia. Mio padre affida il bar a suo fratello, per non sentirli si ubriaca e dorme fino la mattina dopo. Lui vuole che io controlli mio zio, ma lui mi passa diecimilalire se mi tolgo di torno, così, io sto qui fuori e accontento tutti e due, ma l’anno prossimo avrò la macchina, quel giorno me ne andrò a Roma.
— Ti piace Roma?
— credo di sì, non ci sono mai stato. —
—Ti piacerebbe andarci stanotte? in una mezz’ora ci siamo.
— Oh, che ti sei messo in testa! Guarda che io con gli uomini non ci vado. —
— Nemmeno io! Sono sposato, guarda. — Gli mostrò l’anulare, fece schioccare la lingua sui denti mentre scuoteva la testa e gli disse, — andiamo va’ che stasera t’insegno a volare.
La Tiburtina era un nastro di velluto lucido in mezzo alla campagna. Quando i primi palazzi della capitale si chiusero a nascondere loro il cielo, Andrea gli chiese:
— Che cosa vuoi vedere? Il Colosseo?
— L’altare della patria, voglio vedere piazza Venezia.
Nel tragitto, Luigi indicava tutto quello che riusciva a catturare con lo sguardo: le insegne dei negozi, le chiese, le fontane, le rovine… davanti alla guardia d’onore, alla cancellata artistica e alla gente, che pure a quell’ora se ne andava a spasso, Luigi ritrovò la favella.
— non sono mai stato al mare. — Andrea scoppiò a ridere.
—Però, una volta sono stato a Tivoli, ma non conta, ci sono andato a trovare mio nonno all’ospedale. Io e mio padre siamo andati alla stazione con l’asino di Gervasio, al ritorno ce la siamo fatta a piedi.
— Deve essere stato emozionante! Un’avventura.
— Non mi prendere in giro, al paese tutti i commercianti possiedono la macchina, solo i contadini vanno con l’asino, ma se devono andare alla stazione pagano qualcuno e si fanno accompagnare. Mio padre è rimasto così indietro che certe volte al bar… Pensi che possiamo andarci adesso? Al mare dico.
Andrea non rispose subito. Gli tornarono alla mente i giorni recenti passati a Ostia con Anna. Anna, che se n’era andata da una settimana. — Ti voglio bene — le aveva detto, ma lei si era messa a piangere ancora di più. Lui l’aveva consolata, l’aveva abbracciata, ma Le carezze e i baci non erano servite a fermare le sue lacrime. Lei si era addormentata singhiozzando e lui era uscito a fare due passi. Quando era tornato, lei stava facendo la valigia. — Vado da mia madre, — gli disse. — Affronteremo il problema al mio ritorno a Roma. Adesso non ce la faccio, devo capire cosa ci sta succedendo.—
“Non sento la terra sotto i piedi amore mio. Io non lo so cos’è che vorresti tu, Anna. Io so cos’è la libertà di amare, vorrei essere libero di volerti bene e basta, senza limiti.”
— No, Luigi. È molto tardi, ti riporto a casa.
Le luci di Sant’Angelo erano sbiadite dall’aurora. In prossimità del cimitero, Luigi chiese di fermare la macchina.
— Scendo qui, potrei incontrare qualcuno che mi conosce, mio padre mi ammazza se scopre cosa ho fatto stanotte. — Aprì lo sportello, scese e si chinò per salutare l’amico.
— lasciala qui, — disse Andrea.
— Che cosa? — Luigi si guardò addosso spaesato.
— Quella cassa da morto che ti porti sulle spalle, è anche il posto giusto non trovi? — Disse rivolto verso il cancello del camposanto. — Diglielo a tutti che stanotte sei stato a Roma, è stato bello no? Chissene importa di quello che pensa la gente e tuo padre.
— Già, chissene importa. Parli bene tu! Tra poche ore ricomincia l’inferno per me. Il bar, esiste soltanto il bar per lui.
— E tu? vuoi fare il barista per tutta la vita?
— Odio il bar. Io voglio viaggiare.
— Allora trova il modo, qualunque modo.
— Ci proverò. Grazie per il passaggio. Non ci vedremo più, vero?
— Non si può mai dire.
— Allora ci vediamo, a presto!
— Ciao, e mi raccomando, i sogni vanno acchiappati al volo.
Andrea girò la chiave ed entrò in casa, lei era in piedi, appoggiata allo stipite della porta della sala da pranzo, in lacrime. Lui si avvicinò, ma l’abbraccio restò vuoto. Lei si girò verso la stanza: Il tavolo era apparecchiato per due, al centro, le dalie e due candele consumate. Andrea capì, riuscì soltanto a dire:
— Mi dispiace.
— Dove sei stato! sono le sei del mattino. — Tra i singhiozzi arrivarono i soliti rimproveri: sei sempre il solito superficiale, non ti preoccupi mai di noi che ti vogliamo bene, mia madre aveva ragione, non dovevo tornare…
— Il fatto, Anna, è che Luigi non aveva mai visto Roma, veramente nemmeno il mare ma…
— chi diavolo è Luigi?
— Oh, un amico, l’ho conosciuto ieri sera ma, sai io volevo…
— Vado a telefonare a mia madre. Me ne vado. Voglio il divorzio!
Andrea andò in bagno. Si preparò per andare a letto, aspettò che lei rassettasse la cucina, che la suocera la venisse a prendere e poi andò a dormire.
Tema: Leggerezze.
Il suo compito era terminato, aveva già avuto il suo compenso e quindi, firmato il certificato di corretto montaggio delle attrezzature e del palco, se avesse voluto, sarebbe potuto ritornare a Roma. Quel paesino non offriva svaghi e non gli andava di restare a sentire la scaletta musicale per l’ennesima volta. E poi c’era Anna che sarebbe rientrata a Roma quella sera. Anna che pianificava tutto, prevedeva tutto ed evitava per lui qualsiasi inconveniente e, che adesso, voleva affrontare il discorso di loro due.
Prima di tornare avrebbe preso volentieri qualcosa da mangiare: il pranzo l’aveva saltato per seguire i lavori d’istallazione. Diede un’occhiata alle bancarelle affilate lungo la via che portava fuori dal paese, per la maggior parte erano banchetti di ciliegie; la primizia venduta a peso d’oro per la sagra che si stava svolgendo.
I negozi di generi alimentari erano chiusi, un unico bar in vista e tutti i tavoli erano occupati. C’erano un ragazzetto e una decina di vecchietti che si alternavano, se alcuni andavano, altri si sedevano; il ragazzo no, lui non si scollava dalla sedia.
Dal palco, posto in piazza Santa Liberata, comunque, si stava godendo lo spettacolo al contrario del paese in festa.
La gente, andava e veniva e col tempo la folla s’ingrossava. Transitava, per lo più, nello spazio tra due piazze. Le signore trovavano posto sulle panchine di travertino poste lungo il perimetro di Largo Belvedere, alcune degustavano ciliegie nei cestini da primizia, altre reggevano in braccio i bambini più piccoli. Sotto i tigli, allineati dietro i sedili di pietra, si andavano radunando giovanotti e padri di famiglia. Superati gli alberi, c’era la panoramica: una balaustra che circondava per tre quarti lo slargo circolare e si lanciava nel vuoto incontro alle nuvole.
Da lì si poteva sorvolare la campagna romana: sulla destra, incastonata sui monti tiburtini, si vedeva Tivoli e, velata dalla caligine di un maggio troppo caldo, Roma appariva scompariva.
I Rockes fecero il loro ingresso dando le spalle al pubblico, sulle prime note di “ma che colpa abbiamo noi” si voltarono, Shel Shapiro si accanì sulle corde della chitarra e ciò provocò un movimento tellurico tra la folla che si accalcò sulle transenne.
Andrea posò di nuovo lo sguardo sui tavoli del bar, il ragazzino stava ancora lì, seduto, il tavolo sgombro e nessuno a fargli compagnia. I Rockes suonavano, ma lui guardava un punto indefinito. “Ma perché non va con gli altri a scatenarsi in mezzo alla folla? Non gli frega proprio niente di tutto questo? E vai a divertirti!” Il ragazzo sembrò ascoltarlo, si alzò, sbadigliò allargando le braccia, fece due passi verso la calca della gente. Andrea, deciso a guadagnare quel tavolino, si fece largo tra la folla di adolescenti e sperava che quello non ci ripensasse e si rimettesse a sedere.
Luigi si stava annoiando a morte, rimuginava; ne aveva le scatole piene ma suo padre era stato chiaro, “ tu non ti muovi dal bar, se scopro che sei andato in giro ti rovino.” Per la rabbia strinse i pugni e gettò uno sguardo verso gli odiati cantanti. All’improvviso qualcuno sbucò tra la folla. Restò immediatamente colpito, affascinato dall’eleganza di quell’uomo: indossava un completo di lino bianco, portava i calzoni un po' corti sopra le caviglie abbronzate e i mocassini di cuoio lucido avevano lo stesso colore della cintura. Luigi, avrebbe potuto fargli largo, c’era spazio per fare un piccolo passo indietro, ma restò fermo, era ipnotizzato quando il tipo gli passò davanti, così vicino che respirò la scia del suo profumo. Gli gli ficcò gli occhi negli occhi mentre quello lo superava, e lo guardava ancora quando quello si girò, gli fece l’occhiolino, afferrò la sedia ancora calda e si lasciò andare sulla seduta.
Luigi distolse lo sguardo, aveva le guance in fiamme. “Che gli è preso a quello, ma che è scemo? Me fa l’occhietto, me fa. Ce manca solo che me piano pe’ frocio.” Fece due passi verso il palco ma tornò subito indietro e si diresse in panoramica, “ Magari da là se sentono de meno, ‘sti rompiscatole. Ma ‘st’altr’anno col cavolo che... L’animaccia loro e pure del sindaco”
Andrea ordinò e intanto non perdeva di vista quel giovane che si spostava da un punto all’altro della piazza. Ogni tanto andava in panoramica, dava uno sguardo alle luci di Roma o a quelle seriche e gialle di Tivoli, poi tornava verso il palco, serio e imbronciato. Che cosa lo trattenesse lì, ad ascoltare il concerto, con quell’aria di fottersene completamente della gente e della musica, Andrea non riusciva a capirlo e a non pensarci. La sua curiosità era tanta che restò fino alla fine della perfomance dei Rockes.
La luna piena illuminava la campagna, l’argento sciolto brillava sui campi coltivati e sugli uliveti. Andrea stava ammirando il panorama, ma con la coda dell’occhio non perdeva di vista il ragazzo che era tornato a sedersi sul parapetto della balconata. Il concerto era finito, si sentivano solo qualche bestemmia e qualche risata dei ragazzi che smontavano il palco, e alcuni ubriachi che inveivano contro qualsiasi cosa. Andrea si avvicinò al ragazzo.
— Sei di qui? Vivi in questo paese?
— Sì, abito là, sopra al bar.
— Abiti qui! Hai dovuto ascoltare il concerto per forza, altrimenti non saresti mai venuto vero? Io mi chiamo Andrea —
— Sono Luigi, i Rockes non mi piacciono. Li fanno sempre qui i cantanti, tutti gli anni davanti casa mia. Mio padre affida il bar a suo fratello, per non sentirli si ubriaca e dorme fino la mattina dopo. Lui vuole che io controlli mio zio, ma lui mi passa diecimilalire se mi tolgo di torno, così, io sto qui fuori e accontento tutti e due, ma l’anno prossimo avrò la macchina, quel giorno me ne andrò a Roma.
— Ti piace Roma?
— credo di sì, non ci sono mai stato. —
—Ti piacerebbe andarci stanotte? in una mezz’ora ci siamo.
— Oh, che ti sei messo in testa! Guarda che io con gli uomini non ci vado. —
— Nemmeno io! Sono sposato, guarda. — Gli mostrò l’anulare, fece schioccare la lingua sui denti mentre scuoteva la testa e gli disse, — andiamo va’ che stasera t’insegno a volare.
La Tiburtina era un nastro di velluto lucido in mezzo alla campagna. Quando i primi palazzi della capitale si chiusero a nascondere loro il cielo, Andrea gli chiese:
— Che cosa vuoi vedere? Il Colosseo?
— L’altare della patria, voglio vedere piazza Venezia.
Nel tragitto, Luigi indicava tutto quello che riusciva a catturare con lo sguardo: le insegne dei negozi, le chiese, le fontane, le rovine… davanti alla guardia d’onore, alla cancellata artistica e alla gente, che pure a quell’ora se ne andava a spasso, Luigi ritrovò la favella.
— non sono mai stato al mare. — Andrea scoppiò a ridere.
—Però, una volta sono stato a Tivoli, ma non conta, ci sono andato a trovare mio nonno all’ospedale. Io e mio padre siamo andati alla stazione con l’asino di Gervasio, al ritorno ce la siamo fatta a piedi.
— Deve essere stato emozionante! Un’avventura.
— Non mi prendere in giro, al paese tutti i commercianti possiedono la macchina, solo i contadini vanno con l’asino, ma se devono andare alla stazione pagano qualcuno e si fanno accompagnare. Mio padre è rimasto così indietro che certe volte al bar… Pensi che possiamo andarci adesso? Al mare dico.
Andrea non rispose subito. Gli tornarono alla mente i giorni recenti passati a Ostia con Anna. Anna, che se n’era andata da una settimana. — Ti voglio bene — le aveva detto, ma lei si era messa a piangere ancora di più. Lui l’aveva consolata, l’aveva abbracciata, ma Le carezze e i baci non erano servite a fermare le sue lacrime. Lei si era addormentata singhiozzando e lui era uscito a fare due passi. Quando era tornato, lei stava facendo la valigia. — Vado da mia madre, — gli disse. — Affronteremo il problema al mio ritorno a Roma. Adesso non ce la faccio, devo capire cosa ci sta succedendo.—
“Non sento la terra sotto i piedi amore mio. Io non lo so cos’è che vorresti tu, Anna. Io so cos’è la libertà di amare, vorrei essere libero di volerti bene e basta, senza limiti.”
— No, Luigi. È molto tardi, ti riporto a casa.
Le luci di Sant’Angelo erano sbiadite dall’aurora. In prossimità del cimitero, Luigi chiese di fermare la macchina.
— Scendo qui, potrei incontrare qualcuno che mi conosce, mio padre mi ammazza se scopre cosa ho fatto stanotte. — Aprì lo sportello, scese e si chinò per salutare l’amico.
— lasciala qui, — disse Andrea.
— Che cosa? — Luigi si guardò addosso spaesato.
— Quella cassa da morto che ti porti sulle spalle, è anche il posto giusto non trovi? — Disse rivolto verso il cancello del camposanto. — Diglielo a tutti che stanotte sei stato a Roma, è stato bello no? Chissene importa di quello che pensa la gente e tuo padre.
— Già, chissene importa. Parli bene tu! Tra poche ore ricomincia l’inferno per me. Il bar, esiste soltanto il bar per lui.
— E tu? vuoi fare il barista per tutta la vita?
— Odio il bar. Io voglio viaggiare.
— Allora trova il modo, qualunque modo.
— Ci proverò. Grazie per il passaggio. Non ci vedremo più, vero?
— Non si può mai dire.
— Allora ci vediamo, a presto!
— Ciao, e mi raccomando, i sogni vanno acchiappati al volo.
Andrea girò la chiave ed entrò in casa, lei era in piedi, appoggiata allo stipite della porta della sala da pranzo, in lacrime. Lui si avvicinò, ma l’abbraccio restò vuoto. Lei si girò verso la stanza: Il tavolo era apparecchiato per due, al centro, le dalie e due candele consumate. Andrea capì, riuscì soltanto a dire:
— Mi dispiace.
— Dove sei stato! sono le sei del mattino. — Tra i singhiozzi arrivarono i soliti rimproveri: sei sempre il solito superficiale, non ti preoccupi mai di noi che ti vogliamo bene, mia madre aveva ragione, non dovevo tornare…
— Il fatto, Anna, è che Luigi non aveva mai visto Roma, veramente nemmeno il mare ma…
— chi diavolo è Luigi?
— Oh, un amico, l’ho conosciuto ieri sera ma, sai io volevo…
— Vado a telefonare a mia madre. Me ne vado. Voglio il divorzio!
Andrea andò in bagno. Si preparò per andare a letto, aspettò che lei rassettasse la cucina, che la suocera la venisse a prendere e poi andò a dormire.