[Lab5] Broccoli e balaustre
Posted: Sat Oct 01, 2022 4:46 pm
A vederlo sul parapetto della terrazza, con una mano stretta al palo dell’antenna, sembrava fosse lì per vedere meglio il panorama.
Ma Guido Silvestri, su quel parapetto ci era salito per un altro motivo.
A tratti si sporgeva, sospirava e tornava a guardare il sole che scivolava dietro le colline.
La decisione l’aveva presa quando le chiavi dell’auto erano precipitate nel tombino.
Non che fosse una tragedia, i doppioni li aveva in casa, ma sentì quella voce dentro intimargli:«Basta, c’è un limite a tutto».
E dunque perché incaponirsi? Quando una cosa riesce male, meglio tirarci un frego sopra e… già, ricominciare da capo. Magari si potesse. Del resto, per quanto ne sapeva, poteva anche esserci un altrove, un mondo dove credere alle cose e alle persone non fosse necessariamente da coglioni.
Come con Marilina, tanto per dirne una. Le aveva creduto. A tutto aveva creduto. Agli stage ogni fine settimana, a zia Teresa, così tanto in fin di vita da correre al suo capezzale ogni quindici giorni. Al fatto che fosse incinta sebbene non scopassero da quasi due anni.
Anche al commendator Pizzardi aveva creduto. Così paterno e disponibile tanto da invitarlo a pranzo per spiegargli cose fondamentali come il mito del posto fisso, ormai superato, ma soprattutto che l’universo si contrae e si dilata, che anche l’azienda era un piccolo universo, entrato nella prima fase, e che dunque quello era il momento ideale per sperimentare nuove strade “Cogliere al volo, Silvestri, sono occasioni che non si presentano tutti i giorni” gli disse. E lui gli aveva creduto perché non lo stava licenziando, certo che no, lo stava lasciando libero di testare le competenze acquisite.
E poi Diego, l’amico di sempre, broker per passione, così bravo che ci si era comprato la villa e la barca “Perché, caro Guido, giocare in borsa non è questione di fortuna, ma di fiuto e sensibilità” E dunque perché rinunciare? I soldi del mondo erano lì, a portata di mano. Lui avrebbe dovuto solo fidarsi, lasciarlo fare e poi ringraziarlo di tutto il ben di dio che gli avrebbe fatto piovere addosso.
Gli aveva creduto. Anche quando lo chiamò per dirgli che le cose non stavano andando benissimo, ma che era solo questione di tempo e doveva avere pazienza. E continuò a farlo finché, passando da casa sua, vide il cartello Vendesi e il numero di un’agenzia dove gli dissero che era partito e che "Desolati, ma non siamo autorizzati a dirle di più. Lei capisce, questione di privacy".
E alla fine quel tombino. E le chiavi. Scivolate dalle dita, rimaste un momento sulla grata come a guardarlo, e poi giù, senza misericordia. Avrebbe giurato che sorridessero, le stronze.
E allora basta. Se le cose stavano così, meglio darci un taglio. Se non altro per dignità.
All’improvviso un tramestio, un canto di donna.
«Quand il me prend dans ses bras qu'il me parle tout bas je vois la vie en rose…Ah, c’è lei. Ecco perché la porta era aperta».
Guido si voltò di scatto, barcollò, si avvinghiò al palo dell’antenna «Ma che cazz!»
«Oh, mio dio, l’ho interrotta. Mi scusi, non volevo».
«Se ne vada. Deve assolutamente andarsene. Subito!»
«Ma certo che me ne vado, non si agiti. Ritiro il bucato e me ne vado. Non crederà che voglia stare qui a perdere tempo con lei?»
«Guardi che non è giornata!»
«Ah, lo vedo» disse lei e si girò verso i fili dei panni.
«Ho detto che deve andarsene. Ha capito?»
La ragazza si voltò e lo fissò dritto negli occhi «Prima ritiro il bucato e dopo vado».
Guido sentì la mascella serrarsi, smontò come una furia e quasi le fu addosso «Lei non si rende conto!» inveì.
«Oh sì, invece. Mi rendo conto che con le sue scarpacce ha lordato la balaustra. L’abbiamo rifatta un mese fa e guardi come l’ha ridotta» disse lei riponendo nella cesta un paio di mutande «Comunque, non ne facciamo una questione. Torni là sopra e mi ignori. Come se non ci fossi».
«Ma no!»
«Perché no?»
«Perché no punto e basta».
«Era quello che dicevo: punto e basta. Non è qui per questo?»
Guido restò a fissarla con la fronte aggrottata mentre tirava giù calzoni, magliette e federe, lei sì, come se lui non esistesse, come se tutta l’angoscia, il suo oceano di dolore contasse meno di quella macchia sulla camicia.
«Non c’è verso» disse mostrandogliela «Non se ne va manco a cannonate».
«Ma non è così che funziona» bofonchiò.
«Lo so, ci vorrebbe la candeggina, ma non fido. È seta.»
«No, non la camicia!»
«Ah, dice l’altra faccenda. Beh, ha ragione, è un po’ come quando si sta sul water, ci vuole concentrazione. Ma se è per quello, glielo ripeto: tranquillo. Faccia pure quello che deve fare, io non la guardo» disse e continuò a occuparsi del bucato.
Guido Silvestri invece la guardò. Alta, sottile, una nuvola di riccioli corvini, lottava con un lenzuolo che sventolava come una vela in mare aperto.
Irritante, del tutto priva di discrezione. Ma anche incredibilmente carina.
D’un tratto una folata più forte. Il lenzuolo si gonfiò, scivolò dalla corda, di scatto lei alzò il braccio per afferrarlo, ma quello sgusciò fuori dalla manica e finì oltre il parapetto.
Lui restò impietrito. Non riusciva a crederci.
«La prego, mi aiuti» disse lei «è rimasto impigliato all’albero».
«Il… coso?»
«Non il coso, il braccio. È una protesi al titanio e mi costa un botto. Se cade per strada è la fine!» disse trascinandolo a guardare «Vede? È là, in mezzo ai rami. Forse riuscirebbe a recuperalo».
«No, scusi, lei vorrebbe che io…»
«E che le costa? Basta strisciare sul cornicione, aggrapparsi a quel ramo grosso, allungare un braccio ed è fatta».
«Ma è pericoloso!»
Lei sgranò gli occhi «Io non la capisco, sa? Male che vada si sfracella sul marciapiede, che fastidio le darebbe?»
Fu così che Guido Silvestri, più per coerenza che per onore, con il cuore a mille, compì l’impresa.
«Lei è il mio eroe» disse la ragazza tentando di rimettere la protesi al suo posto.
«Per così poco» si schermì lui. E mentre diceva questa scemenza si voltò a guardarla. Lei, che armeggiava e rideva. Rideva di lui, certo. E allora, chissà perché, anche lui cominciò a ridere, come non faceva da tanto, come non ricordava nemmeno si potesse fare.
«Niente. I ganci si sono allentati» disse lei alla fine « È per questo che è volata via. Dovevo portarla a fare la revisione, ma sa come vanno queste cose…»
Lui si strinse nelle spalle
«Eh no, non può saperlo. Insomma non ho trovato mai il tempo».
«Beh, adesso dovrà trovarlo. Non ci sarò sempre io a…»
«Vero. A proposito, non ci siamo presentati: io sono Chiara» disse lei tendendogli la protesi.
«Guido» fece lui stringendo la mano meccanica «E, giuro, non mi era mai capitato».
Risero. E poi restarono per un po’ così, affacciati alla balaustra a guardare la notte che chiacchierava con le luci della città.
«Senti, devo portare la cesta in casa e con un braccio solo…»
«Non c’è problema» disse lui tirandola su.
«Lo vedi che sei il mio eroe? Come ricompensa ti invito a cena. Poi… poi farai quello che vuoi. Che ne dici?»
«Dico che è una trappola. Mi inviti perché dovrò anche cucinare».
«Ma no, è già tutto pronto. Zuppa di broccoli e vino rosso».
«Broccoli?»
«Sì, lo so: tutti dicono che puzzano di scoreggia e li odiano, ma non è vero».
«È verissimo invece. E la cosa più turpe non è tanto il prima, ma il dopo».
«Allora non dovresti nemmeno mangiare fagioli, che invece fanno tanto bene. Dai, vieni».
Cenarono, parlarono e fecero molte altre cose che li resero immensamente felici.
Il mattino dopo Guido si ritrovò solo nel letto, solo in casa.
In cucina, un biglietto poggiato alla caffettiera: “Buongiorno, eroe”.
Fece colazione, una doccia e scese con l’intenzione di comprare il giornale e andare a leggerlo nel parco. Forse avrebbe dato un’occhiata agli annunci delle offerte di lavoro, più probabilmente si sarebbe goduto quella mattinata tiepida, le mamme con le carrozzine e i vecchi che giocavano a scopetta nel chiosco davanti al laghetto. Avrebbe fatto la spesa, cucinato e poi sarebbe salito da Chiara. Per ricambiare l’invito, si disse, ma non era vero. Aveva bisogno di rivedere quegli occhi che sapevano di primavera.
Si incamminò per il cortile e, per la prima volta, si accorse di quanto somigliasse a un giardino, di quanto fossero colorate le aiuole, accoglienti le panchine e allegra la fontana col puttino ciccione che brandiva un delfino come fosse una clava.
Sull’ultima panchina, subito prima del cancello, vide la sagoma tondeggiante della signora Lucia, intenta a sferruzzare, ma in realtà a controllare il viavai del condominio.
«Buongiorno. Tutto bene?» le disse sorridendo. Non l’aveva mai fatto prima, per l’urto che gli davano quelli che ritengono la vita degli altri un affare di cui occuparsi. Ma quel giorno era diverso. Diverso lui, diverso il suo sguardo sul mondo, che adesso gli appariva illuminato di pace e serenità. Tutto, comprese mosche, zanzare, tombini e la signora Lucia.
Fece per andarsene, ma un dubbio lo colse. Tornò indietro e si sedette accanto alla donna.
«Senta, lei che sa tutto» la sentì gorgogliare come un piccione compiaciuto «la signorina Chiara, quella dell’attico» la vide inarcare le sopracciglia e stringere le labbra «a che ora rientra di solito?»
«Ma come, non lo sa?»
«Evidentemente no».
«Un bruttissimo incidente. Ha lottato come una leonessa, ma non ce l’ha fatta».
E allora la sentì. Quella stretta al petto, che veniva da lontano, dalle sere d’estate davanti ai falò sulla spiaggia, quando era il momento delle Storie di paura. Il morso di un’ansia fatta di niente, di sogni e bugie.
Una fra tutte, la sua preferita: la dama bellissima che ospitava gli infelici e restituiva loro la voglia di vivere, lei, che viva non lo era più da due secoli almeno.
«E quando…?»
«Ieri, povera figlia» disse la signora Lucia e riprese a sferruzzare «Che peccato, una così bella ragazza».
Guido si alzò e si incamminò verso il cancello.
Avrebbe dovuto sentirsi disorientato, spaurito, almeno triste. Invece no.
Forse perché quella sera avrebbe preparato zuppa di broccoli e vino rosso e sarebbe andato a goderseli in terrazza. Poggiato a quella balaustra, a guardare la notte che chiacchierava con le luci della città.
Ma Guido Silvestri, su quel parapetto ci era salito per un altro motivo.
A tratti si sporgeva, sospirava e tornava a guardare il sole che scivolava dietro le colline.
La decisione l’aveva presa quando le chiavi dell’auto erano precipitate nel tombino.
Non che fosse una tragedia, i doppioni li aveva in casa, ma sentì quella voce dentro intimargli:«Basta, c’è un limite a tutto».
E dunque perché incaponirsi? Quando una cosa riesce male, meglio tirarci un frego sopra e… già, ricominciare da capo. Magari si potesse. Del resto, per quanto ne sapeva, poteva anche esserci un altrove, un mondo dove credere alle cose e alle persone non fosse necessariamente da coglioni.
Come con Marilina, tanto per dirne una. Le aveva creduto. A tutto aveva creduto. Agli stage ogni fine settimana, a zia Teresa, così tanto in fin di vita da correre al suo capezzale ogni quindici giorni. Al fatto che fosse incinta sebbene non scopassero da quasi due anni.
Anche al commendator Pizzardi aveva creduto. Così paterno e disponibile tanto da invitarlo a pranzo per spiegargli cose fondamentali come il mito del posto fisso, ormai superato, ma soprattutto che l’universo si contrae e si dilata, che anche l’azienda era un piccolo universo, entrato nella prima fase, e che dunque quello era il momento ideale per sperimentare nuove strade “Cogliere al volo, Silvestri, sono occasioni che non si presentano tutti i giorni” gli disse. E lui gli aveva creduto perché non lo stava licenziando, certo che no, lo stava lasciando libero di testare le competenze acquisite.
E poi Diego, l’amico di sempre, broker per passione, così bravo che ci si era comprato la villa e la barca “Perché, caro Guido, giocare in borsa non è questione di fortuna, ma di fiuto e sensibilità” E dunque perché rinunciare? I soldi del mondo erano lì, a portata di mano. Lui avrebbe dovuto solo fidarsi, lasciarlo fare e poi ringraziarlo di tutto il ben di dio che gli avrebbe fatto piovere addosso.
Gli aveva creduto. Anche quando lo chiamò per dirgli che le cose non stavano andando benissimo, ma che era solo questione di tempo e doveva avere pazienza. E continuò a farlo finché, passando da casa sua, vide il cartello Vendesi e il numero di un’agenzia dove gli dissero che era partito e che "Desolati, ma non siamo autorizzati a dirle di più. Lei capisce, questione di privacy".
E alla fine quel tombino. E le chiavi. Scivolate dalle dita, rimaste un momento sulla grata come a guardarlo, e poi giù, senza misericordia. Avrebbe giurato che sorridessero, le stronze.
E allora basta. Se le cose stavano così, meglio darci un taglio. Se non altro per dignità.
All’improvviso un tramestio, un canto di donna.
«Quand il me prend dans ses bras qu'il me parle tout bas je vois la vie en rose…Ah, c’è lei. Ecco perché la porta era aperta».
Guido si voltò di scatto, barcollò, si avvinghiò al palo dell’antenna «Ma che cazz!»
«Oh, mio dio, l’ho interrotta. Mi scusi, non volevo».
«Se ne vada. Deve assolutamente andarsene. Subito!»
«Ma certo che me ne vado, non si agiti. Ritiro il bucato e me ne vado. Non crederà che voglia stare qui a perdere tempo con lei?»
«Guardi che non è giornata!»
«Ah, lo vedo» disse lei e si girò verso i fili dei panni.
«Ho detto che deve andarsene. Ha capito?»
La ragazza si voltò e lo fissò dritto negli occhi «Prima ritiro il bucato e dopo vado».
Guido sentì la mascella serrarsi, smontò come una furia e quasi le fu addosso «Lei non si rende conto!» inveì.
«Oh sì, invece. Mi rendo conto che con le sue scarpacce ha lordato la balaustra. L’abbiamo rifatta un mese fa e guardi come l’ha ridotta» disse lei riponendo nella cesta un paio di mutande «Comunque, non ne facciamo una questione. Torni là sopra e mi ignori. Come se non ci fossi».
«Ma no!»
«Perché no?»
«Perché no punto e basta».
«Era quello che dicevo: punto e basta. Non è qui per questo?»
Guido restò a fissarla con la fronte aggrottata mentre tirava giù calzoni, magliette e federe, lei sì, come se lui non esistesse, come se tutta l’angoscia, il suo oceano di dolore contasse meno di quella macchia sulla camicia.
«Non c’è verso» disse mostrandogliela «Non se ne va manco a cannonate».
«Ma non è così che funziona» bofonchiò.
«Lo so, ci vorrebbe la candeggina, ma non fido. È seta.»
«No, non la camicia!»
«Ah, dice l’altra faccenda. Beh, ha ragione, è un po’ come quando si sta sul water, ci vuole concentrazione. Ma se è per quello, glielo ripeto: tranquillo. Faccia pure quello che deve fare, io non la guardo» disse e continuò a occuparsi del bucato.
Guido Silvestri invece la guardò. Alta, sottile, una nuvola di riccioli corvini, lottava con un lenzuolo che sventolava come una vela in mare aperto.
Irritante, del tutto priva di discrezione. Ma anche incredibilmente carina.
D’un tratto una folata più forte. Il lenzuolo si gonfiò, scivolò dalla corda, di scatto lei alzò il braccio per afferrarlo, ma quello sgusciò fuori dalla manica e finì oltre il parapetto.
Lui restò impietrito. Non riusciva a crederci.
«La prego, mi aiuti» disse lei «è rimasto impigliato all’albero».
«Il… coso?»
«Non il coso, il braccio. È una protesi al titanio e mi costa un botto. Se cade per strada è la fine!» disse trascinandolo a guardare «Vede? È là, in mezzo ai rami. Forse riuscirebbe a recuperalo».
«No, scusi, lei vorrebbe che io…»
«E che le costa? Basta strisciare sul cornicione, aggrapparsi a quel ramo grosso, allungare un braccio ed è fatta».
«Ma è pericoloso!»
Lei sgranò gli occhi «Io non la capisco, sa? Male che vada si sfracella sul marciapiede, che fastidio le darebbe?»
Fu così che Guido Silvestri, più per coerenza che per onore, con il cuore a mille, compì l’impresa.
«Lei è il mio eroe» disse la ragazza tentando di rimettere la protesi al suo posto.
«Per così poco» si schermì lui. E mentre diceva questa scemenza si voltò a guardarla. Lei, che armeggiava e rideva. Rideva di lui, certo. E allora, chissà perché, anche lui cominciò a ridere, come non faceva da tanto, come non ricordava nemmeno si potesse fare.
«Niente. I ganci si sono allentati» disse lei alla fine « È per questo che è volata via. Dovevo portarla a fare la revisione, ma sa come vanno queste cose…»
Lui si strinse nelle spalle
«Eh no, non può saperlo. Insomma non ho trovato mai il tempo».
«Beh, adesso dovrà trovarlo. Non ci sarò sempre io a…»
«Vero. A proposito, non ci siamo presentati: io sono Chiara» disse lei tendendogli la protesi.
«Guido» fece lui stringendo la mano meccanica «E, giuro, non mi era mai capitato».
Risero. E poi restarono per un po’ così, affacciati alla balaustra a guardare la notte che chiacchierava con le luci della città.
«Senti, devo portare la cesta in casa e con un braccio solo…»
«Non c’è problema» disse lui tirandola su.
«Lo vedi che sei il mio eroe? Come ricompensa ti invito a cena. Poi… poi farai quello che vuoi. Che ne dici?»
«Dico che è una trappola. Mi inviti perché dovrò anche cucinare».
«Ma no, è già tutto pronto. Zuppa di broccoli e vino rosso».
«Broccoli?»
«Sì, lo so: tutti dicono che puzzano di scoreggia e li odiano, ma non è vero».
«È verissimo invece. E la cosa più turpe non è tanto il prima, ma il dopo».
«Allora non dovresti nemmeno mangiare fagioli, che invece fanno tanto bene. Dai, vieni».
Cenarono, parlarono e fecero molte altre cose che li resero immensamente felici.
Il mattino dopo Guido si ritrovò solo nel letto, solo in casa.
In cucina, un biglietto poggiato alla caffettiera: “Buongiorno, eroe”.
Fece colazione, una doccia e scese con l’intenzione di comprare il giornale e andare a leggerlo nel parco. Forse avrebbe dato un’occhiata agli annunci delle offerte di lavoro, più probabilmente si sarebbe goduto quella mattinata tiepida, le mamme con le carrozzine e i vecchi che giocavano a scopetta nel chiosco davanti al laghetto. Avrebbe fatto la spesa, cucinato e poi sarebbe salito da Chiara. Per ricambiare l’invito, si disse, ma non era vero. Aveva bisogno di rivedere quegli occhi che sapevano di primavera.
Si incamminò per il cortile e, per la prima volta, si accorse di quanto somigliasse a un giardino, di quanto fossero colorate le aiuole, accoglienti le panchine e allegra la fontana col puttino ciccione che brandiva un delfino come fosse una clava.
Sull’ultima panchina, subito prima del cancello, vide la sagoma tondeggiante della signora Lucia, intenta a sferruzzare, ma in realtà a controllare il viavai del condominio.
«Buongiorno. Tutto bene?» le disse sorridendo. Non l’aveva mai fatto prima, per l’urto che gli davano quelli che ritengono la vita degli altri un affare di cui occuparsi. Ma quel giorno era diverso. Diverso lui, diverso il suo sguardo sul mondo, che adesso gli appariva illuminato di pace e serenità. Tutto, comprese mosche, zanzare, tombini e la signora Lucia.
Fece per andarsene, ma un dubbio lo colse. Tornò indietro e si sedette accanto alla donna.
«Senta, lei che sa tutto» la sentì gorgogliare come un piccione compiaciuto «la signorina Chiara, quella dell’attico» la vide inarcare le sopracciglia e stringere le labbra «a che ora rientra di solito?»
«Ma come, non lo sa?»
«Evidentemente no».
«Un bruttissimo incidente. Ha lottato come una leonessa, ma non ce l’ha fatta».
E allora la sentì. Quella stretta al petto, che veniva da lontano, dalle sere d’estate davanti ai falò sulla spiaggia, quando era il momento delle Storie di paura. Il morso di un’ansia fatta di niente, di sogni e bugie.
Una fra tutte, la sua preferita: la dama bellissima che ospitava gli infelici e restituiva loro la voglia di vivere, lei, che viva non lo era più da due secoli almeno.
«E quando…?»
«Ieri, povera figlia» disse la signora Lucia e riprese a sferruzzare «Che peccato, una così bella ragazza».
Guido si alzò e si incamminò verso il cancello.
Avrebbe dovuto sentirsi disorientato, spaurito, almeno triste. Invece no.
Forse perché quella sera avrebbe preparato zuppa di broccoli e vino rosso e sarebbe andato a goderseli in terrazza. Poggiato a quella balaustra, a guardare la notte che chiacchierava con le luci della città.