[Lab 4] Eden
Posted: Sun Aug 21, 2022 9:02 am
Assediato da sterpi, rami di palma strappati al maestrale e calcinacci, il vecchio casinò di Porto Gaiano si affacciava al mare.
Eden, lo chiamavano ancora così. Splendido, maestoso, addormentato.
Un edificio liberty abbracciato dal verde, con due torrioni incoronati da cupole dorate, ampie finestre ad arco che correvano lungo i lati e terrazze ornate di statue.
Nato per essere una casa da gioco, era dotato di saloni per ricevimenti e di privé, salottini discreti quanto accoglienti.
Era lì dal 1924, ad attendere l’andirivieni di auto, signore ingioiellate e gentiluomini pronti ad accompagnarle per corridoi e saloni scintillanti di velluti e lampadari di cristallo.
Raduno di bella gente, allegra e vogliosa soltanto di divertirsi.
Eventi mondani. Troppo mondani. E quei privé, che si diceva avessero tappezzerie di damasco dorato, tappeti tessuti con fili d’oro e bagni con rubinetterie dorate.
Era davvero troppo.
Chiunque, con un minimo di senso della decenza non l’avrebbe tollerato.
Per questo l’Eden, ancorché completo di impianti e arredi, non fu mai aperto.
E dunque restò così, sospeso tra dimenticanza provvisoria e suntuoso abbandono.
Restò a farsi scavare dal Tempo. Gli lasciò corrodere cornicioni, infissi e sbocconcellare l'intonaco fino alla carne viva dei mattoni.
Nessuno si arrischierebbe a sostenere che i luoghi siano entità autonome.
Eppure i luoghi nascono, vivono e muoiono come qualsiasi cosa al mondo.
Hanno memoria, anzi sono memoria e dunque, in un modo tutto loro, probabilmente sognano.
Il sogno dell'Eden era banale e al tempo stesso straordinario: diventare se stesso. O almeno somigliargli.
E un giorno accadde.
Arrivarono con due macchine un pomeriggio di marzo del 1972. Costeggiarono il lungomare, fecero il giro dell'isolato e si fermarono davanti all'ingresso principale parlottando, indicando, stendendo carte sul cofano dell'auto.
Una settimana dopo arrivarono anche gli operai.
«Evento spettacolare a Porto Gaiano. Tornerà agli antichi splendori il palazzo che ospitò il casinò più esclusivo del centro Italia.
Nella suggestiva cornice, completamente restaurata, la nota stilista Rebecca Danesi presenterà la sua collezione dal titolo intrigante: ‘Gold to kill’»
Italo Carretti, capo cantiere, alzò un sopracciglio, ripiegò il giornale e accese il mozzicone di Toscanello che teneva in bocca perennemente spento.
«Allora, ci diamo una mossa?» gridò guardandosi intorno.
Si alzò e prese a entrare e uscire dall’edificio, a percorrere i vialetti del parco e a dare istruzioni a muratori, elettricisti e giardinieri.
Al tramonto tutto quel brulicare si fermò.
Italo prese la ricetrasmittente e dette il segnale.
Come per uno sciame di lucciole, a uno a uno si accese il rosa degli oleandri, il bianco dei pitosfori e l’azzurro delle ortensie.
Pini maestosi incoronavano la radura davanti alla scalea dell’ingresso, dove il bianco dei tendaggi ondeggiava dalle arcate, illuminate di luce dorata.
Con un mugugno soddisfatto, Italo raggiunse la terrazza costellata di tavoli rotondi. Nudi e senza sedie, giusto per misurare gli ingombri, domani si sarebbero agghindati di drappeggi, posaterie dorate, cristalli, porcellane e centrotavola.
Oggi no. Oggi erano ancora buoni per panini con cotoletta e cicoria, bottiglie di minerale e cartocci di salumi.
«Ok. Pausa» disse alla ricetrasmittente e un poco alla volta, a piccoli gruppi, arrivarono gli altri.
Per ultimo Nicola Mancino. Diciannove anni spesi male tra sale giochi e biliardi. Buttato fuori a calci dal padre e a calci spinto fino in cantiere. "Se vuoi mangiare, guadagnatelo". Tenne il punto per una settimana, ma quelli lo trattavano da coglione, lui che passava la nottata in bisca e faceva il duro, la mattina non riusciva a tenere gli occhi aperti e la cazzuola in mano.
Fu un giovedì dopo una nottata di pioggia. Dette la colpa al bagnato. Il Piastrella lo riprese per un braccio. Lo tenne per qualche secondo a penzolare nel vuoto e urlare con gli occhi di fuori, poi lo tirò su e lo sbatté a terra come uno straccio "La prossima volta ti lascio andare di sotto. La notte si dorme, hai capito stronzetto?"
Aveva capito. Vedere il mondo da quella prospettiva gli aveva chiarito tutto.
Da allora, ogni primo giovedì del mese portava La Teglia.
La ordinava il giorno prima, passava a ritirarla da Pippo AmorDiBrace e poi faceva festa con gli altri come fosse il suo compleanno.
Doveva essere così anche quel giorno.
Scese dall'auto e vide il Piastrella che si sbracciava dalla balaustra «Corrì Nicò, è successo un casino!»
Dette uno sguardo d'addio alla Teglia e fece per attraversare.
In quel momento la sentì. Subito dopo la vide. L'ambulanza lo evitò per un pelo e inchiodò davanti al cancello. I portelloni si aprirono e quattro tute arancioni corsero dentro.
«Che succede?»
«Una modella» fece il Piastrella «S'è buttata.»
«Come buttata?»
«Si è affacciata dal terzo piano, è montata sul davanzale e poi è saltata giù».
In quel momento un infermiere li urtò «Lasciare libero, grazie» disse spingendo una barella.
Nicola dette un'occhiata e lo riconobbe «Italo!» fece cercando di andargli dietro.
«Niente, non è niente» disse quello tentando di alzare la testa mentre l'avevano già caricato.
«Fatemici parlare!» fece Nicola afferrando il braccio di un infermiere.
«Non adesso» disse quello, salì e chiuse il portellone con un tonfo.
L'ambulanza se ne andò urlando e lampeggiando mentre, dalla stessa parte, un'altra arrivava. Entrarono con la barella e uscirono poco dopo. Portavano un corpo coperto da un lenzuolo e ripartirono senza sirena e senza lampeggianti.
«Deve essere quella che si è buttata» fece il Piastrella cupo «Se l'hanno coperta, vuol dire che è andata.»
«Sì, ma che c'entra Italo?» chiese Nicola.
Il Piastrella lo guardò con un mezzo sorriso «La sfiga. Stava li sotto e l'ha preso in pieno.»
«Vuoi dire che gli è caduta addosso?»
L'altro annuì.
«E che si è fatto? Lo sai? Ci hai parlato?»
L'altro si strinse nelle spalle «Stai tranquillo, quelle non pesano niente. Avrà solo una frattura, massimo due.»
Nicola salì le scale ed entrò.
Lei era lì.
Seduta per terra, solo un telo attorno ai fianchi e il corpo completamente ricoperto di vernice dorata, parlava al cellulare «Questa roba è veleno, ti dico! Prende il cervello e ti fa impazzire!»
Nicola non riusciva a smettere di guardarla.
Lei alzò la testa e lo squadrò «Sì, siamo tutte d’oro, va bene?» disse torva.
In quel momento si udì un calpestio dalle scale «Greta!» la donna scendeva a passi svelti «Ti stiamo aspettando da mezz'ora» la raggiunse, la afferrò per un braccio e la mise in piedi.
«Signora Danesi, io non posso...»
«Tu non puoi cosa? Lavorare?» ringhiò
«La pelle, signora. Brucia!»
«Non dire sciocchezze. È oro. Una sfoglia d’oro purissimo. Metallo nobile, mai sentito? Tra cinque minuti ti voglio in sartoria. E se ti trovo un’altra volta al telefono, puoi anche tornartene a casa. Sono stata chiara, signorina Uber?» Girò la testa e vide Nicola «Tu?»
Non dovette aggiungere altro, che quello era già fuori.
La sartoria era un salone al primo piano illuminato da immensi finestroni ad arco. Vi si accedeva da un camminamento rialzato scandito da inaspettati palchetti con ringhiere di ferro battuto. Addossate al muro di fondo, adesso c'erano scaffalature e ovunque tavoli ingombri di tessuti, rastrelliere e macchine da cucire. Davanti alle vetrate una serie di pedane rialzate dove modelle dorate si lasciavano stringere, accorciare, adattare gli abiti. In fondo, una grande scrivania di legno scuro e una poltrona Frau.
Rebecca Danesi entrò e si fermò in mezzo alla stanza.
«Qunto è successo ci ha colpito duramente» disse con tono grave «Quella povera ragazza...»
«Aveva un nome» disse una voce.
Rebecca si guardò intorno furente.
«Caroline. Si chiamava Caroline» disse la voce.
Rebecca strinse le labbra. Sapeva chi aveva parlato: Alma Trebbiani. Gliel'avrebbe fatta pagare.
«Certo, la povera Caroline ci mancherò molto. Ma tutto questo non può e non deve fermarci. Solo ventiquattro ore e poi tutto il nostro lavoro sarà sotto gli occhi del mondo. Non c'è tempo per debolezze o crolli nervosi. Il mondo vuole la perfezione. Io voglio la perfezione! La perfezione assoluta.»
«Allora dovevi assumere le sante del paradiso» borbottò Alma.
«Cosa hai detto?» gridò Rebecca. Attraversò la sala quasi di corsa, si avventò sulla donna e la strattonò come un pupazzo «Ripeti quello che hai detto!»
Alma si divincolò «Signora!» disse guardandola dritta in faccia «Sono mesi che lavoriamo come schiave senza un attimo di sosta. Mangiamo, dormiamo qualche ora su una brandina e ricominciamo da capo. E adesso anche la vernice! È tossica!»
«Ma quale tossica! L’oro non ha mai fatto male a nessuno!
«Le ragazze ce l’hanno addosso da giorni!»
«Deve fare presa. O preferiresti vederla cadere a pezzi in passerella?»
«Vomitano, signora» disse Alma e poi alle altre «Ditelo, ditelo che vomitate sangue!».
«Stupida sartina, prendi le tue cose e sparisci. Ora!»
La fissò per un attimo poi andò a sedersi dietro la scrivania, inforcò un paio di occhiali, aprì il portatile e con questo dichiarò chiusa la faccenda.
Alma Trebbiani si tolse il polsino con le spille, dette uno sguardo in giro pieno di commiserazione e uscì.
Nel salone calò il silenzio.
Dal suo tavolo, Rebecca alzò la testa, lanciò un'occhiata minacciosa e subito cento mani ripresero a stringere, accorciare, adattare, tra il ticchettio ronzante delle macchine da cucire e l'andirivieni frusciante di rastrelliere con abiti che scivolano su corpi impossibili.
Quella notte Greta Uber ebbe un arresto respiratorio.
Il mattino dopo, alle dieci e trenta, Helene Jones entrò in coma.
«Ragazzine idiote, imbottite di schifezze» borbottò tra sé Rebecca Danesi.
La kermesse fu un successo di pubblico e stampa.
Il giorno dopo Italo Carretti, sulla sedia a rotelle come su un trono, diresse lo smantellamento.
Le luci si spensero per non riaccendersi mai più e l’Eden tornò nel silenzio, a sognare quello che avrebbe potuto essere.
Qualcuno dice che certe notti, dalle finestre, si intravede un luccichio dorato.
Ma si sbaglia di certo.
Eden, lo chiamavano ancora così. Splendido, maestoso, addormentato.
Un edificio liberty abbracciato dal verde, con due torrioni incoronati da cupole dorate, ampie finestre ad arco che correvano lungo i lati e terrazze ornate di statue.
Nato per essere una casa da gioco, era dotato di saloni per ricevimenti e di privé, salottini discreti quanto accoglienti.
Era lì dal 1924, ad attendere l’andirivieni di auto, signore ingioiellate e gentiluomini pronti ad accompagnarle per corridoi e saloni scintillanti di velluti e lampadari di cristallo.
Raduno di bella gente, allegra e vogliosa soltanto di divertirsi.
Eventi mondani. Troppo mondani. E quei privé, che si diceva avessero tappezzerie di damasco dorato, tappeti tessuti con fili d’oro e bagni con rubinetterie dorate.
Era davvero troppo.
Chiunque, con un minimo di senso della decenza non l’avrebbe tollerato.
Per questo l’Eden, ancorché completo di impianti e arredi, non fu mai aperto.
E dunque restò così, sospeso tra dimenticanza provvisoria e suntuoso abbandono.
Restò a farsi scavare dal Tempo. Gli lasciò corrodere cornicioni, infissi e sbocconcellare l'intonaco fino alla carne viva dei mattoni.
Nessuno si arrischierebbe a sostenere che i luoghi siano entità autonome.
Eppure i luoghi nascono, vivono e muoiono come qualsiasi cosa al mondo.
Hanno memoria, anzi sono memoria e dunque, in un modo tutto loro, probabilmente sognano.
Il sogno dell'Eden era banale e al tempo stesso straordinario: diventare se stesso. O almeno somigliargli.
E un giorno accadde.
Arrivarono con due macchine un pomeriggio di marzo del 1972. Costeggiarono il lungomare, fecero il giro dell'isolato e si fermarono davanti all'ingresso principale parlottando, indicando, stendendo carte sul cofano dell'auto.
Una settimana dopo arrivarono anche gli operai.
«Evento spettacolare a Porto Gaiano. Tornerà agli antichi splendori il palazzo che ospitò il casinò più esclusivo del centro Italia.
Nella suggestiva cornice, completamente restaurata, la nota stilista Rebecca Danesi presenterà la sua collezione dal titolo intrigante: ‘Gold to kill’»
Italo Carretti, capo cantiere, alzò un sopracciglio, ripiegò il giornale e accese il mozzicone di Toscanello che teneva in bocca perennemente spento.
«Allora, ci diamo una mossa?» gridò guardandosi intorno.
Si alzò e prese a entrare e uscire dall’edificio, a percorrere i vialetti del parco e a dare istruzioni a muratori, elettricisti e giardinieri.
Al tramonto tutto quel brulicare si fermò.
Italo prese la ricetrasmittente e dette il segnale.
Come per uno sciame di lucciole, a uno a uno si accese il rosa degli oleandri, il bianco dei pitosfori e l’azzurro delle ortensie.
Pini maestosi incoronavano la radura davanti alla scalea dell’ingresso, dove il bianco dei tendaggi ondeggiava dalle arcate, illuminate di luce dorata.
Con un mugugno soddisfatto, Italo raggiunse la terrazza costellata di tavoli rotondi. Nudi e senza sedie, giusto per misurare gli ingombri, domani si sarebbero agghindati di drappeggi, posaterie dorate, cristalli, porcellane e centrotavola.
Oggi no. Oggi erano ancora buoni per panini con cotoletta e cicoria, bottiglie di minerale e cartocci di salumi.
«Ok. Pausa» disse alla ricetrasmittente e un poco alla volta, a piccoli gruppi, arrivarono gli altri.
Per ultimo Nicola Mancino. Diciannove anni spesi male tra sale giochi e biliardi. Buttato fuori a calci dal padre e a calci spinto fino in cantiere. "Se vuoi mangiare, guadagnatelo". Tenne il punto per una settimana, ma quelli lo trattavano da coglione, lui che passava la nottata in bisca e faceva il duro, la mattina non riusciva a tenere gli occhi aperti e la cazzuola in mano.
Fu un giovedì dopo una nottata di pioggia. Dette la colpa al bagnato. Il Piastrella lo riprese per un braccio. Lo tenne per qualche secondo a penzolare nel vuoto e urlare con gli occhi di fuori, poi lo tirò su e lo sbatté a terra come uno straccio "La prossima volta ti lascio andare di sotto. La notte si dorme, hai capito stronzetto?"
Aveva capito. Vedere il mondo da quella prospettiva gli aveva chiarito tutto.
Da allora, ogni primo giovedì del mese portava La Teglia.
La ordinava il giorno prima, passava a ritirarla da Pippo AmorDiBrace e poi faceva festa con gli altri come fosse il suo compleanno.
Doveva essere così anche quel giorno.
Scese dall'auto e vide il Piastrella che si sbracciava dalla balaustra «Corrì Nicò, è successo un casino!»
Dette uno sguardo d'addio alla Teglia e fece per attraversare.
In quel momento la sentì. Subito dopo la vide. L'ambulanza lo evitò per un pelo e inchiodò davanti al cancello. I portelloni si aprirono e quattro tute arancioni corsero dentro.
«Che succede?»
«Una modella» fece il Piastrella «S'è buttata.»
«Come buttata?»
«Si è affacciata dal terzo piano, è montata sul davanzale e poi è saltata giù».
In quel momento un infermiere li urtò «Lasciare libero, grazie» disse spingendo una barella.
Nicola dette un'occhiata e lo riconobbe «Italo!» fece cercando di andargli dietro.
«Niente, non è niente» disse quello tentando di alzare la testa mentre l'avevano già caricato.
«Fatemici parlare!» fece Nicola afferrando il braccio di un infermiere.
«Non adesso» disse quello, salì e chiuse il portellone con un tonfo.
L'ambulanza se ne andò urlando e lampeggiando mentre, dalla stessa parte, un'altra arrivava. Entrarono con la barella e uscirono poco dopo. Portavano un corpo coperto da un lenzuolo e ripartirono senza sirena e senza lampeggianti.
«Deve essere quella che si è buttata» fece il Piastrella cupo «Se l'hanno coperta, vuol dire che è andata.»
«Sì, ma che c'entra Italo?» chiese Nicola.
Il Piastrella lo guardò con un mezzo sorriso «La sfiga. Stava li sotto e l'ha preso in pieno.»
«Vuoi dire che gli è caduta addosso?»
L'altro annuì.
«E che si è fatto? Lo sai? Ci hai parlato?»
L'altro si strinse nelle spalle «Stai tranquillo, quelle non pesano niente. Avrà solo una frattura, massimo due.»
Nicola salì le scale ed entrò.
Lei era lì.
Seduta per terra, solo un telo attorno ai fianchi e il corpo completamente ricoperto di vernice dorata, parlava al cellulare «Questa roba è veleno, ti dico! Prende il cervello e ti fa impazzire!»
Nicola non riusciva a smettere di guardarla.
Lei alzò la testa e lo squadrò «Sì, siamo tutte d’oro, va bene?» disse torva.
In quel momento si udì un calpestio dalle scale «Greta!» la donna scendeva a passi svelti «Ti stiamo aspettando da mezz'ora» la raggiunse, la afferrò per un braccio e la mise in piedi.
«Signora Danesi, io non posso...»
«Tu non puoi cosa? Lavorare?» ringhiò
«La pelle, signora. Brucia!»
«Non dire sciocchezze. È oro. Una sfoglia d’oro purissimo. Metallo nobile, mai sentito? Tra cinque minuti ti voglio in sartoria. E se ti trovo un’altra volta al telefono, puoi anche tornartene a casa. Sono stata chiara, signorina Uber?» Girò la testa e vide Nicola «Tu?»
Non dovette aggiungere altro, che quello era già fuori.
La sartoria era un salone al primo piano illuminato da immensi finestroni ad arco. Vi si accedeva da un camminamento rialzato scandito da inaspettati palchetti con ringhiere di ferro battuto. Addossate al muro di fondo, adesso c'erano scaffalature e ovunque tavoli ingombri di tessuti, rastrelliere e macchine da cucire. Davanti alle vetrate una serie di pedane rialzate dove modelle dorate si lasciavano stringere, accorciare, adattare gli abiti. In fondo, una grande scrivania di legno scuro e una poltrona Frau.
Rebecca Danesi entrò e si fermò in mezzo alla stanza.
«Qunto è successo ci ha colpito duramente» disse con tono grave «Quella povera ragazza...»
«Aveva un nome» disse una voce.
Rebecca si guardò intorno furente.
«Caroline. Si chiamava Caroline» disse la voce.
Rebecca strinse le labbra. Sapeva chi aveva parlato: Alma Trebbiani. Gliel'avrebbe fatta pagare.
«Certo, la povera Caroline ci mancherò molto. Ma tutto questo non può e non deve fermarci. Solo ventiquattro ore e poi tutto il nostro lavoro sarà sotto gli occhi del mondo. Non c'è tempo per debolezze o crolli nervosi. Il mondo vuole la perfezione. Io voglio la perfezione! La perfezione assoluta.»
«Allora dovevi assumere le sante del paradiso» borbottò Alma.
«Cosa hai detto?» gridò Rebecca. Attraversò la sala quasi di corsa, si avventò sulla donna e la strattonò come un pupazzo «Ripeti quello che hai detto!»
Alma si divincolò «Signora!» disse guardandola dritta in faccia «Sono mesi che lavoriamo come schiave senza un attimo di sosta. Mangiamo, dormiamo qualche ora su una brandina e ricominciamo da capo. E adesso anche la vernice! È tossica!»
«Ma quale tossica! L’oro non ha mai fatto male a nessuno!
«Le ragazze ce l’hanno addosso da giorni!»
«Deve fare presa. O preferiresti vederla cadere a pezzi in passerella?»
«Vomitano, signora» disse Alma e poi alle altre «Ditelo, ditelo che vomitate sangue!».
«Stupida sartina, prendi le tue cose e sparisci. Ora!»
La fissò per un attimo poi andò a sedersi dietro la scrivania, inforcò un paio di occhiali, aprì il portatile e con questo dichiarò chiusa la faccenda.
Alma Trebbiani si tolse il polsino con le spille, dette uno sguardo in giro pieno di commiserazione e uscì.
Nel salone calò il silenzio.
Dal suo tavolo, Rebecca alzò la testa, lanciò un'occhiata minacciosa e subito cento mani ripresero a stringere, accorciare, adattare, tra il ticchettio ronzante delle macchine da cucire e l'andirivieni frusciante di rastrelliere con abiti che scivolano su corpi impossibili.
Quella notte Greta Uber ebbe un arresto respiratorio.
Il mattino dopo, alle dieci e trenta, Helene Jones entrò in coma.
«Ragazzine idiote, imbottite di schifezze» borbottò tra sé Rebecca Danesi.
La kermesse fu un successo di pubblico e stampa.
Il giorno dopo Italo Carretti, sulla sedia a rotelle come su un trono, diresse lo smantellamento.
Le luci si spensero per non riaccendersi mai più e l’Eden tornò nel silenzio, a sognare quello che avrebbe potuto essere.
Qualcuno dice che certe notti, dalle finestre, si intravede un luccichio dorato.
Ma si sbaglia di certo.