Leo

1
«Io sono uno che arriva a cose fatte» disse Leo.
Finalmente libera dalla canicola di un'estate torrida, l'aria era asprigna e densa degli aromi delle prime vendemmie, a cui si aggiungeva quello delle barbabietole, sradicate e stipate sui camion pronti a mettersi in viaggio verso il vicino zuccherificio. Ce n'era già una lunga teoria lungo il sentiero sterrato che portava all'incrocio con la statale.
Qualche nuvola di un bianco lattiginoso si stagliava nel cielo che, non più offuscato dall'umidità, si era fatto di un celeste abbagliante.
Matteo fece scorrere lo Zippo sui jeans e si accese una Muratti. Tossì. Sigarette da donna, che schifo. Sua madre fumava quelle e di tanto in tanto lui ne prendeva in prestito un pacchetto, quando non aveva i soldi per le Marlboro.
«Cioè?» domandò, aspirando un'altra boccata. «Che significa?»
Leo smise di osservare il profilo delle colline lontane e si girò. Il suo pizzetto sale e pepe sfiorò la brace della sigaretta.
«Nel senso che arrivo sempre in ritardo» disse.
Erano così vicini che Matteo poteva contare le sue otturazioni dorate.
Diede altre due boccate, non ci voleva fretta con lui. Avrebbe parlato quando ne avesse avuto voglia, oppure il discorso sarebbe rimasto a metà. Come tante altre volte.
Leo si alzò e scrollò la polvere dai calzoni di tela, di un pastello scolorito dal tempo e dai tanti lavaggi. Era alto e la magrezza gli dava un aspetto segaligno, pareva intagliato nel legno. Si avviò a passi lenti verso il ruscello che, povero di acqua, scorreva ai margini del campo e tracciava il confine con quello dei vicini. Matteo calzò al volo le Superga senza laccetti e si affrettò a seguirlo.
Avevano già percorso qualche centinaio di metri, quando lui riprese a parlare.
«Mi sono innamorato, una volta» disse, mentre estraeva dalla tasca posteriore il pacchetto verde delle Esportazioni senza filtro. «Quando stavo in Paraguay» aggiunse, facendo scivolare fuori una sigaretta tutta contorta.
Matteo aveva un vago ricordo della sua partenza per l'America del Sud, una decina di anni prima. Durante l'adolescenza aveva fantasticato a lungo su quello “zio d'America”, se lo era immaginato circondato da belle donne, al volante di un macchinone americano: una Pontiac o magari una Cadillac. Invece lo aveva visto tornare senza un soldo in tasca e suo padre lo aveva preso a lavorare nei campi soltanto perché avesse un tetto sopra la testa e qualcosa da mettere sotto i denti.
«Lei era bellissima, capelli neri, carnagione olivastra, occhi colore dell'ambra nera. Era la figlia del proprietario della hacienda in cui lavoravo, si chiamava Maria Dolores.»
Uhm, si fa interessante pensò Matteo, mentre al terzo svedese l'altro riusciva finalmente ad accendere la sigaretta.
«La osservavo quando montava a pelo il cavallo preferito o quando arrivava sulla vecchia giardinetta che le aveva regalato il padre, sollevando una nuvola di polvere. C'era confidenza tra noi, ma non tanta perché mi sentissi di confessarle quanto la desideravo. Poi un giorno afferrai il coraggio a quattro mani e le andai incontro per aprirle il cuore. Con un sorriso raggiante sulle labbra lei mi precedette: moriva dalla voglia di dirmi che la domenica precedente aveva conosciuto un chico muy hermoso alla Fiesta di San Isidro. Tre mesi più tardi erano già sposati.»
«Che sfiga!» esclamò Matteo.
Leo si limitò a scrollare le spalle.
Quando riprese il discorso, se di discorso si poteva parlare, erano già vicini ai “quattro pini”, lo spiazzo erboso dove tutte le coppiette del paese si appartavano a pomiciare.
«Ti capita mai di andare nella gelateria della piazza?» chiese.
«Quella dei fratelli Mandolesi? E chi non c'è mai stato? Vengono anche da fuori, in certi orari si fa la fila per entrare.»
«Già, già: proprio quella.»
Leo si accese un'altra sigaretta e riprese a passeggiare con il ritmo indolente di sempre. Questa volta Matteo era davvero incuriosito; non riusciva a cogliere il nesso tra l'ereditiera paraguaiana e la gelateria del borgo, ma voleva saperne di più. Non ebbe bisogno di chiedere però, perché lo zio si rimise in carica. Era così che definiva tra sé e sé quel suo strano modo di parlare a scatti che gli ricordava certi giocattoli di latta dell'infanzia, azionati mediante una carica a molla. Tu davi tre o quattro giri e quelli si mettevano in moto; parevano destinati a procedere all'infinito e invece qualche istante più tardi si bloccavano di colpo.
«Papà ti ha mai raccontato che avrei potuto essere il padrone della gelateria? Be', uno dei padroni in realtà.»
«No! Cosa stai dicendo?»
«Io, Dante e Riccardo, i due Mandolesi, eravamo soliti giocare la schedina del Totocalcio al sabato sera. Ci trovavamo al tabacchi della Luisa prima di cena e buttavamo giù le nostre otto colonne, in società. Un sabato arrivai in ritardo, loro non mi avevano aspettato: dal momento che tardavo avevano fatto una giocata più semplice, solo quattro colonne, ed erano andati a casa. Ci furono una decina di “tredici” in tutto quella settimana e uno era il loro. Con la vincita comprarono il negozio e anche la palazzina dove abitano tuttora.»
Matteo lo fissò con gli occhi sgranati, incerto se credergli. Ma Leo non ne aveva bisogno: parlava per sé, non per chi gli stava accanto.
«E così è capitato altre volte... sono arrivato sempre in ritardo agli appuntamenti della vita, quelli importanti.»
«Il destino...» buttò lì Matteo.
Leo sputò un po' di tabacco, poi alzò il capo per osservare una nuvola che aveva coperto il sole.
«Il destino? No, ho visto passare troppi treni e non mi sono mai trovato nel posto giusto al momento giusto. Non è sfortuna, quando ti succede così spesso.»
«E cosa allora?»
Leo si voltò a guardarlo, forse per la prima volta in tutto il pomeriggio. Lo fissò con quegli occhi grigio-verde che avevano sempre un velo di tristezza.
«Sono io a essere sbagliato, non vado a tempo con la vita. Tutto qui, non c'è altro da spiegare.»
Matteo sorrise, lo zio gli era simpatico, ma certe volte non sapeva proprio come prenderlo.
Una volta gli aveva raccontato una storia di una rapina in banca a cui si era trovato ad assistere, forse in Uruguay. Il colpo non era andato a buon fine perché un cassiere era riuscito ad allertare la polizia e i malviventi si erano ritrovati prigionieri all'interno della banca con sei ostaggi. Leo era uno di loro. Le trattative con il negoziatore erano andate avanti per ore e i rapinatori avevano liberato gli ostaggi a uno a uno, finché era rimasto soltanto lo zio. Era stato lui a convincerli ad arrendersi, quando era ormai notte fonda.
Matteo era rimasto affascinato da quell'avventura e l'aveva raccontata a tutti in paese.
Un paio di mesi più tardi, mentre stavano pescando nel laghetto vicino alla fattoria, Leo gli aveva rivelato che era la trama di un libro.
«Vuoi dire che non era vero nulla?» era insorto lui, scandalizzato.
«Non ho mai avuto un conto in una banca, io» gli aveva risposto, slanciando il petto in avanti. «Mi meraviglio che tu abbia pensato che io possa avere avuto qualcosa da spartire con quei ladroni.»
«Ma zio, l'ho raccontato a tutti! Che figura ci faccio?»
«Ti hanno creduto?»
«Sì, certo!»
«Allora devi esserne fiero: hai narrato una bella storia e li hai fatti divertire.»
«Ma qual è il motivo di questa bugia?»
«Volevo essere sicuro che fosse un buon romanzo. Per che altro se no?»
Si avviarono verso casa, Leo davanti e lui dietro.
Le giornate si erano accorciate in fretta, come sempre quando finisce l'estate. Una lieve brezza faceva stormire gli arbusti che contornavano il sentiero.
Lo zio si bloccò all'improvviso e si voltò verso di lui. Lo fissava, nei suoi occhi il verde aveva preso il sopravvento sul grigio.
«E tu?» gli chiese.
«Io cosa?»
«Tu, sei di quelli che arrivano in tempo agli appuntamenti?»
Matteo sorrise, poi si lasciò sfuggire un risolino breve, un po' sforzato.
«Oh, ma che ne posso sapere io? Ho sedici anni, zio.»
«Ah, no: così non va bene. Tu confidi troppo nel destino, è un errore.»
«Ma di che parli? Non ti riesco a seguire.»
«Tu pensi: ho sedici anni, un giorno conoscerò una ragazza di cui m'innamorerò, faremo una famiglia, avrò un bel lavoro... Quando verrà il tempo, quando sarà il momento giusto... Non è così, forse?»
«Ma... Non so, sì, penso che sia così in effetti. Cosa c'è di male?»
«Quella ragazza, per esempio, come si chiama? La figlia del ragioniere...»
«Arianna, dici? Ma che c'entra adesso lei?»
Matteo sentì di essere arrossito e si odiò.
«Vedi? Sei diventato rosso, l'avevo capito che ti piaceva. Potrebbe essere lei il tuo destino, forse potresti innamorartene e seguirla in città, perché stai sicuro che lei non passerà tutta la vita in questo borgo sperduto in mezzo alla campagna.»
«Ma, zio!»
«Oppure no. Forse non sarà lei, ma non è questo che ha importanza: ciò che conta è che il destino, come lo chiami tu, devi anticiparlo. Devi andargli incontro, fargli vedere che ci sei, che lo stai aspettando. Non devi aspettare che ti passi davanti, capisci?»
Matteo chinò il capo, non sapeva cosa rispondere. Leo gli mise due dita sotto il mento e lo costrinse a risollevarlo.
«Non lasciare che i treni passino davanti a te, ragazzo. Nessuno di noi sa quanti ne vedrà sfrecciargli davanti durante la vita, possono essere tanti, può anche essere uno solo. E se così fosse bisogna essere pronti a saltarci su al volo, capito?»
Matteo fece segno di sì, forse soltanto perché voleva che quel discorso finisse.
Quando sospinsero l'uscio di casa il sole era già sparito dietro le colline.


«Leo, porta il tè al nonno e guarda che abbia disteso la coperta sulle gambe, altrimenti prenderà freddo.»
La voce proveniva dall'interno della vecchia casa padronale, probabilmente sua figlia pensava che la porta fosse chiusa o forse credeva che fosse anche debole d'udito, chissà. Ci sentiva ancora bene invece, erano solo quelle maledette gambe che non gli davano più retta.
La zazzera bionda del piccolo Leo sbucò dalla porta e il ragazzino gli venne incontro tenendo la tazza con entrambe le mani. L'appoggiò sul tavolinetto di vimini e si sedette accanto a lui. Una lucertola attraversò frettolosa lo stretto patio e sparì tra i sassi del cortile.
«Mi racconti una fiaba, nonno?»
Matteo gli sorrise e fece segno di sì con il capo.
«C'era una volta, tanti anni fa, un signore molto alto e magro che viveva da queste parti. Era un tipo solitario e la gente pensava che non ci fosse tutto con la testa.»
«Come il vecchio Tonino della Gualconda?»
Era un poveraccio che viveva della carità pubblica e si trascinava per le strade del villaggio con addosso un impermeabile bisunto e in testa un berretto da capostazione che nessuno sapeva dove avesse trovato. Ti guardava con un sorriso sdentato e chiedeva a tutti l'ora.
«No, Tonino è matto davvero.»
Per forza, si disse, uno che è stato partorito da una donna con un nome simile che altra fine avrebbe potuto fare? D'accordo che questa è una terra dove i nomi assurdi si sprecano, ma Gualconda...
«E allora nonno, che cosa aveva fatto quell'uomo?»
«Ah, sì. Ecco, lui era solo un po' strano: parlava di rado, ma ogni tanto faceva certi discorsi senza senso e gli abitanti del paese ridevano di lui o scuotevano il capo quando lo vedevano passare, come fanno con Tonino.»
«Invece lui non era così?»
«No, era un uomo che aveva viaggiato tanto, in posti molto lontani. Forse là era normale parlare come faceva lui.»
«Lontano quanto? Più di Bologna?»
«Molto, molto di più.»
Il bimbo spalancò gli occhioni color verde acquamarina.
«Più di Roma?»
«Sì, ancora di più.»
Sua figlia si affacciò sulla porta, asciugandosi le mani sul grembiule. Aveva il viso arrossato, una ciocca biondastra era sfuggita dal fermacapelli e le ricadeva sulla guancia.
«Leo, vieni in casa e lascia riposare il nonno!»
Lui la fissò, con un'ombra di dispiacere sul visino.
«Dai, la merenda è pronta» insistette lei. «Ti ho fatto la cioccolata con la panna.»
Era un argomento decisivo: nessuna curiosità poteva tenergli testa. Leo scattò verso la porta, ma prima di sparire all'interno si girò verso di lui.
«Nonno, come si chiamava quell'uomo?»
«Si chiamava... Non me lo ricordo più, è passato troppo tempo.»

Il tè si era quasi raffreddato del tutto. Meglio così, non gli era mai piaciuto bollente.
Era sera, ormai. Un velo di umidità si alzava dal terreno e una nebbiolina sottile iniziava ad avvolgere i campi. Lontano, nella vallata, le prime luci si erano già accese.
Era il suo mondo, un panorama che osservava da più di settant'anni.
Si possono prendere i treni senza mai spostarsi da un luogo? si chiese, osservando una mosca che era venuta a posarsi sul tavolino.












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Re: Leo

2
Ciao Marcello
E come si fa a commentare un racconto dell’ottimo Marcello? (Che non conosco gran che, tanto meno lui conosce me, ma so che scrive libri, gialli mi pare, ecc. ecc.). Però ci provo, e Marcello mi perdonerà eventuali (temo inevitabili) ingenuità.
Un bel racconto, con un bel ritmo, con uno stile impeccabile. (*)
L’inizio rimanda a un’atmosfera di inizio anni ‘70, credo; secondo quello che ricordo di quel periodo. Ma non c’entra, divago (è solo nostalgia).
Era alto e la magrezza gli dava un aspetto segaligno, pareva intagliato nel legno
(segaligno è “color segale”, o sinonimo di “magro”, ma allora è un surplus).
le Superga senza laccetti
(esistevano negli anni ’60?)
(Molto carina l’osservazione sullo zio che)
si rimette in carica
.
grigio-verde
(è giusto, perché “grigioverde” vorrebbe dire “militare”)
«Mi meraviglio che tu abbia pensato che io possa avere avuto qualcosa da spartire con quei ladroni.»
(non mi è chiaro: in quanto ostaggio, cosa avrebbe avuto da spartire?)
«Volevo essere sicuro che fosse un buon romanzo.
(quindi Leo scriveva libri?)
Che posso dire? Un bel ricordo (siamo quasi coetanei). Molte cose sottintese e lasciate immaginare (artificio narrativo che mi piace molto: ad esempio Matteo che ricorda benissimo Leo, ma a Leo il nipote dice di non ricordare; o che Leo scriveva).
Dal punto di vista compositivo, l’unica perplessità è: nel finale, chi non si è mai mosso sembra sicuramente Matteo. Ma, e se fosse stato Leo? ;)

(*) anche se qua e là qualche "abuso di virgole" mi è saltato all'occhio. Probabilmente perché ho appena finito un racconto lungo, e mi sono dovuto sforzare ad applicare le regole con il massimo impegno. Nel tuo caso, le poche “violazioni” passano inosservate, e sono praticamente irrilevanti. Comunque poi ci sono gli/le editors ;). Però un esempio te lo faccio:
Lo fissava, nei suoi occhi il verde aveva preso il sopravvento sul grigio.
Matteo chinò il capo, non sapeva cosa rispondere.
La voce proveniva dall'interno della vecchia casa padronale, probabilmente sua figlia pensava che la porta fosse chiusa…
Una volta mi hanno insegnato una regola secondo cui le proposizioni principali non vanno messe sullo stesso piano, separandole con una virgola; ma distanziate nel tempo (e allora ci vuole un punto e virgola o un punto), oppure una va subordinata all’altra. Aveva anche un nome, questa regola, ma l’ho dimenticato. Poi nel parlato (nei discorsi diretti) la regola si ignora tranquillamente, perché nel parlato effettivamente non c’è. E prima o poi il parlato scivola nello scritto (non sempre).

Re: Leo

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@Gianfranco P perdonami, mi accorgo solo ora del tuo commento.. Ho ancora l'abitudine del WD, dove facendo un intervento eri automaticamente nell'elenco di chi seguiva la discussione e ti arrivavano le notifiche; qui invece devi sottoscrivere l'argomento se le vuoi ricevere :facepalm:
Innanzitutto grazie mille per il commento, sono felice che il racconto che ti sia piaciuto.
Qualche risposta:
L’inizio rimanda a un’atmosfera di inizio anni ‘70,
ma anche primi anni Sessanta: mio papà era capofabbrica all'Eridania in quel periodo e durante la campagna saccarifera io ero sempre incollato alla finestra a osservare i camion e i trattori che trasportavano le barbabietole :)
(esistevano negli anni ’60?)
oh, sì: esistevano già, hanno iniziato a produrle negli anni venti
«Mi meraviglio che tu abbia pensato che io possa avere avuto qualcosa da spartire con quei ladroni.»
(non mi è chiaro: in quanto ostaggio, cosa avrebbe avuto da spartire?)
qui evidentemente c'è qualcosa che non funziona, perché ricordo che anche sul WD qualcuno mi aveva fatto la stessa obiezione: i "ladroni" per Leo sono i banchieri e anche i funzionari; lui non aveva mai messo piede in una banca e quindi si meraviglia che il ragazzo abbia potuto credere che la storia fosse vera. Dovrò metterci attenzione, se e quando lo revisionerò.
«Volevo essere sicuro che fosse un buon romanzo.
(quindi Leo scriveva libri?)
No, era semplicemente un romanzo che aveva letto; lo dice prima: mentre stavano pescando nel laghetto vicino alla fattoria, Leo gli aveva rivelato che era la trama di un libro. Leo è un po' eccentrico... Probabilmente poco abituato a leggere, s'inventa quella storia solo per verificare che la trama del romanzo sia veritiera. Però mi hai dato uno spunto: revisionandolo potrei dire che il libro l'aveva scritto lui. Mi piace l'idea ;)
Una volta mi hanno insegnato una regola secondo cui le proposizioni principali non vanno messe sullo stesso piano, separandole con una virgola; ma distanziate nel tempo (e allora ci vuole un punto e virgola o un punto), oppure una va subordinata all’altra
Sì, hai ragione: esisteva e io la rispetto ancora quasi sempre. Qui invece mi sono adeguato alla moda imperante, che ha quasi abolito l'uso del punto e virgola. L'ho fatto anche per non spezzare troppo le frasi e dare un andamento più colloquiale al racconto.
Grazie infinite, il tuo commento mi è stato utilissimo e lo sarà ancora di più quando in futuro revisionerò il racconto.
E scusa ancora per la risposta tardiva, del tutto involontaria.
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