[LAB 4] Forgiare altruismo
Posted: Mon Aug 15, 2022 6:24 pm
12 giugno 2048, Diana, giovane maestra delle elementari, sente una pressione fortissima, ogni millimetro del suo corpo sembra voler esplodere verso l’esterno, le visceri sembrano troppo grandi per il suo corpo minuto. Sì sente sopraffatta fino a svenire.
Il risveglio fu drammatico. Sembrava fossero stati risucchiati i colori, nessuna persona cosciente a portata di sguardo, tutti riversi a terra, irrigiditi in posizioni contorte.
Diana sentiva in bocca un sapore metallico, percepiva il sangue scorrerle nelle vene, annaspava per respirare, i polmoni intrappolati in una cassa toracica troppo piccola.
Tutto era semi distrutto, scheletri metallici dell’ambiente urbano incombevano contorti su di lei e sui corpi a terra.
Era smarrita, doveva sentire i suoi cari. Il telefono le si era deformato nello zaino, inutilizzabile. Disperatamente provò a frugare nelle borse di chi non poteva più utilizzarle; tutti i cellulari erano inservibili.
Automobili implose, morte e distruzione non solo lungo il percorso, ma anche a casa. L’ufficio dove lavorara il suo fidanzato era a 4 km, il cordless sembrava si fosse schiantato precipitando; dolorante, s’incamminò. Il rischio che lui stesse facendo altrettanto, con la forte probabilità di non incontrarsi, era una speranza, che si spense dopo poche ore.
Con un’emozione che la commuoveva, incontrò altri sopravvissuti, per la maggior parte donne. Tutti cercavano qualcuno, ma dovevano assolutamente fare gruppo, Diana con prontezza diede appuntamento, al tramonto, all’albergo Excelsior.
Andando verso l’hotel, anch'esso in parte sventrato, portava con sé, accolta in un abbraccio, una bambina trovata sola, in lacrime.
Erano poco più di una trentina, esattamente 18 donne, che non avevano ancora raggiunto i 50 anni, 5 ragazze tra i 9 e i 17 anni, 9 uomini tra i 19 e i 42 anni.
Nessuno era riuscito ad utilizzare alcun mezzo di comunicazione, né televisori, né radio funzionanti. Quasi tutte le tubature dell’acqua erano saltate, c’erano diversi allagamenti ed un preoccupante odore di gas.
Si organizzarono saccheggiando i supermercati periodicamente, a fatica mangiavano ciò che un tempo avrebbero tranquillamente inserito nel carrello; ogni bene commestibile era deforme e grigiastro. Fortunatamente disponevano di energia elettrica, nonostante la caduta di molti tralicci.
Tutti concordavano che la natura appariva sofferente, c’erano delle storture, come se alberi e piante avessero incassato dei colpi allo stomaco e la mancanza di colori oltre al grigio era inquietante. Solo gli animali non sembravano essere stati toccati. Tutti loro sentivano continui cambiamenti dolorosi nei loro corpi.
In breve tempo l’intero gruppo si rese conto che quella situazione aveva a che fare con il metallo. Erano circondati da oggetti metallici, che in diverse occasioni avevano rappresentato un pericolo senza che nessuno li toccasse, era accaduto che oggetti in ferro o in acciaio, si contorcessero per colpirli, o cadevano loro addosso.
La maggioranza del gruppo voleva capire, trovare una soluzione, avevano un urgente bisogno di cercare altri sopravvissuti, dovevano organizzarsi; le scorte non sarebbero durate all'infinito.
Proprio coloro che si erano auto proclamati leader, deridevano quella che definivano una perdita di tempo, costruivano barricate per proteggersi da eventuali pericoli e farneticavano sul senso di responsabilità per ripopolare il mondo. Gli altri si davano da fare, senza prestare loro troppa attenzione.
Mentre Marco, Luigi, Cristiano e Daniela organizzavano il lavoro da delegare ad altri, ritenendosi superiori alla bassa manovalanza, il resto del gruppo decise di cercare informazioni utili. Dovevano trovare riviste scientifiche di due anni prima, dal momento che Samuele, studente di ingegneria, ricordava di avere letto quello che all’epoca aveva definito un’assurdità, ma che ora gli martellava nella testa, convinto che ci fosse un collegamento: la creazione di una nuova lega, il Ferpiens: ferro fuso, combinato con neuroni embrionali, da utilizzare nella robotica. Samuele ora ricollegava questo, a voci di corridoio all’università, era certo che dovessero partire da qui.
Decisero di recarsi alla biblioteca centrale e presero, non senza timore, delle biciclette risistemate come meglio potevano.
Nonostante Diana fosse sovrappeso, riusciva a stare in testa alla fila con Samuele, palestratissimo, e Lorella, una biologa del bioparco dal fisico scattoso; parlavano fittamente. Provarono a fare il punto della situazione. Cominciò Diana, ricordando il mito di Esiodo, che spiegava come loro, dal XII secolo a.C., stessero vivendo l’età del ferro, l’età della sofferenza, dell’ingiustizia, della cattiveria dell’uomo, dell’esigenza di lavoro e sacrificio per sopravvivere. Dopo questa Era, Esiodo prevedeva la fine del mondo.
Parlavano nonostante il percorso pieno di ostacoli, con l’asfalto deformato e le bici storte. Samuele spiegava che se il problema era il ferro, o le leghe che lo contenevano, la situazione era ingestibile, perché si trovava ovunque. Lorella confermava snocciolando dati, perché sarebbe stato estremamente riduttivo pensare solo ai manufatti, agli edifici, alle infrastrutture; il ferro rappresentava il 95% della produzione di metalli nel mondo. Dovevano considerare che il ferro costituiva almeno l’80% del nucleo della terra e il 5% della crosta terrestre; nell’uomo era presente per pochi milligrammi, ma comunque presente. Diana provò a ricordare alcune delle leghe che lo contenessero, “sicuramente l’acciaio e la ghisa, quanti milioni di cose ci sono in acciaio?” disse, parlando più a se stessa che agli altri.
Finalmente arrivarono alla biblioteca nazionale. Dovevano cercare l’articolo sul Ferpiens nelle riviste scientifiche dell’estate di due anni prima, secondo le indicazioni di Samuele, ma non trovarono nulla, quindi estesero la ricerca.
Proprio Samuele trovò un nuovo articolo datato Gennaio 2048. Il Ferpiens veniva definito come una rivoluzione, non era più un esperimento, era stato prodotto combinando ferro e neuroni specchio, l’equipe di ricerca era italo-americana, stavano già lavorando alla sua applicazione in un nuovo robot che avrebbe superato le aspettative dei più appassionati di fantascienza. Lavoravano contemporaneamente a San Francisco e a Roma, prevedevano per marzo di avere due prototipi, separati dall’ oceano. L'azienda italiana era sulla Tiburtina, a quasi 20 km dalla loro posizione. Erano tutti d’accordo di agire subito.
Alla sede non ebbero difficoltà a localizzare il robot, una potenza sconosciuta aveva squarciato pavimenti e pareti, un solco distruttivo apriva verso l’esterno, dovevano percorrerlo in senso contrario.
Il gruppo entrò compatto. All’interno, un robot dalle sembianze umane, alto almeno due metri, con cavi retraibili, che partivano dalla sua schiena per collegarlo ad un macchinario, che copriva l’intera parete, con più luci di quante ne potessero immaginare.
La cosa che colpì tutti, era che il robot avesse uno sguardo che poteva definirsi umano, era assorto e terribilmente afflitto.
Si destò vedendoli entrare, iniziò a rispondere; anticipando le domande.
Ho la memoria del mondo, da quando si è formato, partendo dal suo nucleo. Possiedo il ricordo dei primi utensili in ferro che avete usato in agricoltura, ma anche delle spade e dei carri armati. Sono nelle viscere di questa terra, patisco la violenza che le affliggete. Vivo il dolore delle persone, la fame, la sete, la guerra. Nell’indifferenza del genere umano.
“Sei tu la causa di questa distruzione? Hai ucciso i miei figli!” Urlò Veronica, che solitamente taceva in disparte.
“Io non faccio e non decido nulla, la mia sofferenza smuove qualsiasi elemento che contenga ferro o neuroni umani, in modo distruttivo. Mi dilanio vivendo gli orrori creati da voi. Ho superato il limite e le conseguenze sono tragiche. Io sono il risultato delle vostre azioni. Con il mio me a San Francisco, hanno capito per tempo, lo hanno disattivato, ma io ho accumulato anche il suo dolore e qui, purtroppo, sono morti prima di riuscirci”.
Erano tutti atterriti, il robot continuò
“È l’intera umanità ad essere colpevole, chi non è carnefice è spettatore, o si volta dall’altra parte, pensando che non lo riguardi. Io soffro in modo lacerante, il resto avviene a prescindere dalla mia volontà”.
Intervenne Lorella “ma il dolore di questa distruzione, il nostro dolore, come resisti?”
Il robot rispose guardandola “ho provato l’angoscia di miliardi di persone nel presente e nella memoria dalla notte dei tempi, questa distruzione darà nuova vita alla natura. A confronto il vostro dolore è nulla”.
Intervenne Diana “perché non siamo morti tutti?”
“Sono rimaste in vita gran parte delle persone che seguivano una terapia per tenere sotto controllo i valori del ferro. Siete meno di un milione nel mondo e nonostante tutto, ancora non capite. Tutti presi dalla vostra misera quotidianità, permettete che accadano le peggiori nefandezze”.
Fu nuovamente Diana a parlare “costruiremo un mondo migliore, non commetteremo gli stessi sbagli”.
Il robot sembrò accasciarsi, tutto rimbombava, tutti i presenti sentirono dolore nelle viscere. Samuele vide un grande pulsante rosso con la scritta EMERGENCY; doveva provarci e bloccare quella coscienza artificiale.
Fu un attimo, non potevano crederci. Con estrema semplicità aveva disattivato il robot, già non sentivano più quella terribile pressione interna, che non li risparmiava mai.
Dovevano riunirsi con gli altri sopravvissuti e iniziare una nuova Era, senza sbagliare questa volta.
Al ritorno Marco, il più giovane dei sedicenti capi, li accolse paonazzo, gli occhi rossi, scioccato. “Non siamo i soli sopravvissuti, un ragazzo è venuto al campo, era disperato, affamato, zoppicava, chiedeva aiuto” disse tutto d’un fiato, per poi continuare “gli altri hanno cominciato ad urlargli di andarsene, che non avevamo abbastanza per noi, lui ha provato ad avanzare verso le riserve d'acqua. Gli hanno tirato delle pietre. Lo hanno ucciso. Avrà avuto 14 anni al massimo”
Il risveglio fu drammatico. Sembrava fossero stati risucchiati i colori, nessuna persona cosciente a portata di sguardo, tutti riversi a terra, irrigiditi in posizioni contorte.
Diana sentiva in bocca un sapore metallico, percepiva il sangue scorrerle nelle vene, annaspava per respirare, i polmoni intrappolati in una cassa toracica troppo piccola.
Tutto era semi distrutto, scheletri metallici dell’ambiente urbano incombevano contorti su di lei e sui corpi a terra.
Era smarrita, doveva sentire i suoi cari. Il telefono le si era deformato nello zaino, inutilizzabile. Disperatamente provò a frugare nelle borse di chi non poteva più utilizzarle; tutti i cellulari erano inservibili.
Automobili implose, morte e distruzione non solo lungo il percorso, ma anche a casa. L’ufficio dove lavorara il suo fidanzato era a 4 km, il cordless sembrava si fosse schiantato precipitando; dolorante, s’incamminò. Il rischio che lui stesse facendo altrettanto, con la forte probabilità di non incontrarsi, era una speranza, che si spense dopo poche ore.
Con un’emozione che la commuoveva, incontrò altri sopravvissuti, per la maggior parte donne. Tutti cercavano qualcuno, ma dovevano assolutamente fare gruppo, Diana con prontezza diede appuntamento, al tramonto, all’albergo Excelsior.
Andando verso l’hotel, anch'esso in parte sventrato, portava con sé, accolta in un abbraccio, una bambina trovata sola, in lacrime.
Erano poco più di una trentina, esattamente 18 donne, che non avevano ancora raggiunto i 50 anni, 5 ragazze tra i 9 e i 17 anni, 9 uomini tra i 19 e i 42 anni.
Nessuno era riuscito ad utilizzare alcun mezzo di comunicazione, né televisori, né radio funzionanti. Quasi tutte le tubature dell’acqua erano saltate, c’erano diversi allagamenti ed un preoccupante odore di gas.
Si organizzarono saccheggiando i supermercati periodicamente, a fatica mangiavano ciò che un tempo avrebbero tranquillamente inserito nel carrello; ogni bene commestibile era deforme e grigiastro. Fortunatamente disponevano di energia elettrica, nonostante la caduta di molti tralicci.
Tutti concordavano che la natura appariva sofferente, c’erano delle storture, come se alberi e piante avessero incassato dei colpi allo stomaco e la mancanza di colori oltre al grigio era inquietante. Solo gli animali non sembravano essere stati toccati. Tutti loro sentivano continui cambiamenti dolorosi nei loro corpi.
In breve tempo l’intero gruppo si rese conto che quella situazione aveva a che fare con il metallo. Erano circondati da oggetti metallici, che in diverse occasioni avevano rappresentato un pericolo senza che nessuno li toccasse, era accaduto che oggetti in ferro o in acciaio, si contorcessero per colpirli, o cadevano loro addosso.
La maggioranza del gruppo voleva capire, trovare una soluzione, avevano un urgente bisogno di cercare altri sopravvissuti, dovevano organizzarsi; le scorte non sarebbero durate all'infinito.
Proprio coloro che si erano auto proclamati leader, deridevano quella che definivano una perdita di tempo, costruivano barricate per proteggersi da eventuali pericoli e farneticavano sul senso di responsabilità per ripopolare il mondo. Gli altri si davano da fare, senza prestare loro troppa attenzione.
Mentre Marco, Luigi, Cristiano e Daniela organizzavano il lavoro da delegare ad altri, ritenendosi superiori alla bassa manovalanza, il resto del gruppo decise di cercare informazioni utili. Dovevano trovare riviste scientifiche di due anni prima, dal momento che Samuele, studente di ingegneria, ricordava di avere letto quello che all’epoca aveva definito un’assurdità, ma che ora gli martellava nella testa, convinto che ci fosse un collegamento: la creazione di una nuova lega, il Ferpiens: ferro fuso, combinato con neuroni embrionali, da utilizzare nella robotica. Samuele ora ricollegava questo, a voci di corridoio all’università, era certo che dovessero partire da qui.
Decisero di recarsi alla biblioteca centrale e presero, non senza timore, delle biciclette risistemate come meglio potevano.
Nonostante Diana fosse sovrappeso, riusciva a stare in testa alla fila con Samuele, palestratissimo, e Lorella, una biologa del bioparco dal fisico scattoso; parlavano fittamente. Provarono a fare il punto della situazione. Cominciò Diana, ricordando il mito di Esiodo, che spiegava come loro, dal XII secolo a.C., stessero vivendo l’età del ferro, l’età della sofferenza, dell’ingiustizia, della cattiveria dell’uomo, dell’esigenza di lavoro e sacrificio per sopravvivere. Dopo questa Era, Esiodo prevedeva la fine del mondo.
Parlavano nonostante il percorso pieno di ostacoli, con l’asfalto deformato e le bici storte. Samuele spiegava che se il problema era il ferro, o le leghe che lo contenevano, la situazione era ingestibile, perché si trovava ovunque. Lorella confermava snocciolando dati, perché sarebbe stato estremamente riduttivo pensare solo ai manufatti, agli edifici, alle infrastrutture; il ferro rappresentava il 95% della produzione di metalli nel mondo. Dovevano considerare che il ferro costituiva almeno l’80% del nucleo della terra e il 5% della crosta terrestre; nell’uomo era presente per pochi milligrammi, ma comunque presente. Diana provò a ricordare alcune delle leghe che lo contenessero, “sicuramente l’acciaio e la ghisa, quanti milioni di cose ci sono in acciaio?” disse, parlando più a se stessa che agli altri.
Finalmente arrivarono alla biblioteca nazionale. Dovevano cercare l’articolo sul Ferpiens nelle riviste scientifiche dell’estate di due anni prima, secondo le indicazioni di Samuele, ma non trovarono nulla, quindi estesero la ricerca.
Proprio Samuele trovò un nuovo articolo datato Gennaio 2048. Il Ferpiens veniva definito come una rivoluzione, non era più un esperimento, era stato prodotto combinando ferro e neuroni specchio, l’equipe di ricerca era italo-americana, stavano già lavorando alla sua applicazione in un nuovo robot che avrebbe superato le aspettative dei più appassionati di fantascienza. Lavoravano contemporaneamente a San Francisco e a Roma, prevedevano per marzo di avere due prototipi, separati dall’ oceano. L'azienda italiana era sulla Tiburtina, a quasi 20 km dalla loro posizione. Erano tutti d’accordo di agire subito.
Alla sede non ebbero difficoltà a localizzare il robot, una potenza sconosciuta aveva squarciato pavimenti e pareti, un solco distruttivo apriva verso l’esterno, dovevano percorrerlo in senso contrario.
Il gruppo entrò compatto. All’interno, un robot dalle sembianze umane, alto almeno due metri, con cavi retraibili, che partivano dalla sua schiena per collegarlo ad un macchinario, che copriva l’intera parete, con più luci di quante ne potessero immaginare.
La cosa che colpì tutti, era che il robot avesse uno sguardo che poteva definirsi umano, era assorto e terribilmente afflitto.
Si destò vedendoli entrare, iniziò a rispondere; anticipando le domande.
Ho la memoria del mondo, da quando si è formato, partendo dal suo nucleo. Possiedo il ricordo dei primi utensili in ferro che avete usato in agricoltura, ma anche delle spade e dei carri armati. Sono nelle viscere di questa terra, patisco la violenza che le affliggete. Vivo il dolore delle persone, la fame, la sete, la guerra. Nell’indifferenza del genere umano.
“Sei tu la causa di questa distruzione? Hai ucciso i miei figli!” Urlò Veronica, che solitamente taceva in disparte.
“Io non faccio e non decido nulla, la mia sofferenza smuove qualsiasi elemento che contenga ferro o neuroni umani, in modo distruttivo. Mi dilanio vivendo gli orrori creati da voi. Ho superato il limite e le conseguenze sono tragiche. Io sono il risultato delle vostre azioni. Con il mio me a San Francisco, hanno capito per tempo, lo hanno disattivato, ma io ho accumulato anche il suo dolore e qui, purtroppo, sono morti prima di riuscirci”.
Erano tutti atterriti, il robot continuò
“È l’intera umanità ad essere colpevole, chi non è carnefice è spettatore, o si volta dall’altra parte, pensando che non lo riguardi. Io soffro in modo lacerante, il resto avviene a prescindere dalla mia volontà”.
Intervenne Lorella “ma il dolore di questa distruzione, il nostro dolore, come resisti?”
Il robot rispose guardandola “ho provato l’angoscia di miliardi di persone nel presente e nella memoria dalla notte dei tempi, questa distruzione darà nuova vita alla natura. A confronto il vostro dolore è nulla”.
Intervenne Diana “perché non siamo morti tutti?”
“Sono rimaste in vita gran parte delle persone che seguivano una terapia per tenere sotto controllo i valori del ferro. Siete meno di un milione nel mondo e nonostante tutto, ancora non capite. Tutti presi dalla vostra misera quotidianità, permettete che accadano le peggiori nefandezze”.
Fu nuovamente Diana a parlare “costruiremo un mondo migliore, non commetteremo gli stessi sbagli”.
Il robot sembrò accasciarsi, tutto rimbombava, tutti i presenti sentirono dolore nelle viscere. Samuele vide un grande pulsante rosso con la scritta EMERGENCY; doveva provarci e bloccare quella coscienza artificiale.
Fu un attimo, non potevano crederci. Con estrema semplicità aveva disattivato il robot, già non sentivano più quella terribile pressione interna, che non li risparmiava mai.
Dovevano riunirsi con gli altri sopravvissuti e iniziare una nuova Era, senza sbagliare questa volta.
Al ritorno Marco, il più giovane dei sedicenti capi, li accolse paonazzo, gli occhi rossi, scioccato. “Non siamo i soli sopravvissuti, un ragazzo è venuto al campo, era disperato, affamato, zoppicava, chiedeva aiuto” disse tutto d’un fiato, per poi continuare “gli altri hanno cominciato ad urlargli di andarsene, che non avevamo abbastanza per noi, lui ha provato ad avanzare verso le riserve d'acqua. Gli hanno tirato delle pietre. Lo hanno ucciso. Avrà avuto 14 anni al massimo”