[Lab2] Un uomo fortunato
Posted: Sat Jun 18, 2022 5:32 pm
Dovrei dire che per me è stato facile, ma non è così. Non è mai stato così. Quello che per gli altri era normale, anzi, dovuto, io dovevo lavorare il doppio per averlo; qualcosa non andava. Alla fine della strada dovrebbe essere logico impazzire, ma ho constatato che anche su questo qualcuno aveva dei dubbi su di me, li hanno sempre avuti. Non che io sia un uomo degno di nota, non ho mai fatto niente di rilevante. Ma qualcosa ho fatto. Bastava vedere i miei occhi fin da bambino: tristi, scuri, su un volto con un sorriso sofferente, come presentendo l’infelicità perpetua. Eppure ho vissuto, non posso negarlo. Sì, ma come ho vissuto? Non saprei da dove cominciare, ma se mi chiedete di paludi putride piene di morti sotto un sole infuocato, io so cosa sono da sempre: le ho vissute nel mio cortile di bambino. E se mi chiedete di tutte le città e le guerre del mondo io le ho viste da bambino; se mi chiedete di eroi e rinnegati io li ho impersonati da piccolo innocente, con i miei soldatini di plastica che comandavo nel fango nero delle aiuole irrigate degli aranci. Soffrivo con le mie mani bianche immerse nel terreno nero, bagnato e profumato di morte. Avrei voluto vivere anche l’amore, la pace, la felicità, ma le loro visioni e poi le loro realizzazioni sono state precluse dalla mia vita. Eppure ero ingenuo e pensavo di poter cambiare il mondo. Quando la vita mi ha portato davvero nelle paludi a vedere morire gli uomini intorno a me, su quel dolore c’ero già passato. Un mare di uomini con uniformi color sabbia, coperti di sudore e sangue, uomini che non erano più, che erano vissuti assieme a me, e io che ero stato felice di aver vissuto con loro. Ma non era più un gioco visionario da bambino vivere nei cortili da soldato dispersi nel mondo, con la consapevole attesa sotto il sole durante l’educazione alla morte, l’educazione alla guerra vincitrice, alla madre di tutte le battaglie. Dopo non riuscivo a togliermi il loro sangue di dosso, avrei voluto urlare e pregare, ma avevo scordato tutte le parole. L’unica preghiera possibile era il silenzio della strage, non perché Dio non meritasse invocazione, ma perché avevo capito di non comprenderlo.
Ci volle molto tempo per riprendermi. Lavarono il sangue degli altri dalla mia pelle, ma non poterono togliere il dolore che avevo dentro fin da quando ero nato. Discussero su di me, li sentivo quando pensavano che dormissi in quel letto d’ospedale per reduci. È un eroe? Lo decoriamo? Ha subito danni permanenti? È opportuno?
Un giornalista venne a trovarmi e mi fece un mare di domande, per mesi. La mia stranezza si credeva dovuta ai traumi della guerra, scrisse un libro su di me, ebbe successo. Non lo lessi mai. Comunque a quel punto ero diventato popolare mio malgrado. Il giornalista si occupò della mia reintegrazione nella vita civile. Intervenne anche il governo. Mi fecero avere una casa, mi diedero una rendita, mi levarono la patente perché non ero più mentalmente in grado di guidare un’auto. Quando ero un soldato utile per morire potevo guidare qualunque mezzo in terra, in acqua e in cielo; ora che non servivo più non ero buono a guidare neanche un monopattino. Mi dissero che dovevo avere una donna, ma per finta, e mi diedero una donna finta, cioè vera ma allevata nelle loro scuderie: un’eroina di non so cosa con le labbra enormi che non riuscivano mai a chiudersi. Si chiamava Olga, poveretta. E tutti vissero felici e contenti verrebbe da dire. Era uno spettacolo penoso nell’insensata gioia generale. Per fortuna sapevo di non avere diritto nemmeno a quella parvenza di malsana felicità. A Olga non importava niente di me e a me non importava niente di lei. Si viveva assieme per modo di dire, la casa dove abitavamo era piena di telecamere che registravano la nostra vita per il divertimento della gente e l’arricchimento degli organizzatori. Penso che a quel punto sia iniziata la mia fine. Per giorni mi chiusi a riccio, evitando qualunque contatto con Olga che faceva il possibile per coinvolgermi sotto le telecamere. Io la evitavo, rimpiangendo di non essere morto con i miei compagni, di non essere diventato fango di palude sotto il sole. Venne convocata una riunione nella casa. Pezzi grossi: il giornalista, direttori di televisione, uomini del governo e un generale dell’esercito per cercare di convincermi a essere gentile con Olga, che le cose sarebbero potute andare bene per la mia vita futura, anche nel mondo dello spettacolo o della politica. Sapevo che il mondo era dolore e che io lo provavo da sempre dentro di me; sapevo che taluni uomini erano immuni al dolore dei loro simili, che lo sfruttavano e aumentavano a loro vantaggio, sia per le ricchezze che per il piacere che gli procurava questa insana sensazione. Ma non potevo sopportare il loro sorriso mentre me lo dicevano. Ecco, a questo punto posso affermare che diventai davvero pazzo, dissi che l’avrei sottoscritto, anche per evitare ulteriore lavoro a chi mi stava intorno, ma rifiutarono ridendo.
Poi all’improvviso capii. Come se mi si fosse conficcato un diamante nel cervello, sparato da un cecchino pietoso. Adesso tutto era chiaro, limpido, assoluto. Qualcuno mi aveva programmato fin da bambino quando giocavo nel cortile. Ricordai il dolore, le notti insonni pensando ai miei soldatini di plastica che affondavano nel fango, con le loro belle uniformi, gli zaini, le borracce, i fucili tenuti in mano per l’assalto. Le mie piccole mani li avevano uccisi sul serio. Dovevo diventare anche io un soldatino con l’uniforme color sabbia, affinché qualcuno giocasse a far affondare nel fango anche me, con tutti gli altri soldatini in carne e ossa.
Perché non avevo potuto avere un’altra vita? Ad esempio essere amico di Rembrandt ― poi lo divenni ― mentre dipingeva la sua Ronda di notte. Volevo chiedergli d'insegnarmi la sua sensibilità, la sua maestria nel rappresentare quei soldati barocchi in tempo di pace che uscivano dalla loro caserma nella notte rischiarata dalla luna di Amsterdam, mentre la sua amata moglie Saskia stava lentamente morendo nella sua stessa casa. Quale forza gli aveva permesso di fare questo? Poi me lo disse. Non era pazzo. Aveva sofferto molto. Come io avevo sofferto a giocare ai soldati, a diventare un soldato, a scoprire che altri giocavano anche con me. Tutti giochiamo in un gioco degli incastri? Volevo saperlo, ma il generale mi ordinò di non dire sciocchezze e di obbedire. La mia programmazione non fu sufficiente a farmi obbedire. Sono un essere superiore a quanto pare. È presto detto. Andai in cucina, presi un coltello grande e bilanciato come un machete e tornai nel salotto della riunione, dove stavano ancora ridendo per le mie osservazioni. Cominciai con il generale, che presupponevo addestrato come me, ma era solo un funzionario con lo stipendio da sultano. Poi attaccai gli altri. Non lo nego, fu una mattanza. Vidi il giornalista uscire da un angolo con le mani alzate. Gli chiesi con quale mano scrivesse. Vomitò. Immaginando che usasse entrambe le mani al computer sollevai il machete e con due mosse gliele amputai entrambe. Molto più facile che tagliare le canne di bambù in esercitazione. Vidi Olga, bianca e pietrificata dal terrore, boccheggiare con le sue labbra. Mi sentii magnanimo e divino. Avrei voluto dirle:
― Va’ e non peccare più ― ma mancava qualcosa: ― E sgonfiati le labbra ― ma non mi sembrava di buon gusto infierire su un rifiuto umano a uno stadio superiore al mio e lasciai perdere. Grondante sangue mi sedetti su una poltrona. Irruppe una torma di giovanotti profumati, divise da circo, occhiali neri avvolgenti, pistole spianate. La strage era andata in diretta in tutto il mondo, un successo.
A quel punto iniziò una nuova fase della mia vita. Dopo una pletora d'interrogazioni, visite di luminari, avvocati e altra gente che si guadagnava da vivere con uomini come me, finalmente fui rinchiuso in un carcere di massima sicurezza in attesa di processo, ma mi fecero capire che non ne sarei uscito mai più. Leggendo il mio foglio matricolare si accorsero che ero stato addestrato a squartare un uomo anche a mani nude. Isolamento perpetuo, diurno e notturno. Non mi posso lamentare. Ho una cella con una finestra in alto, doccia e servizi igienici dentro, un letto, un tavolino e una sedia imbullonati al pavimento. L’ora d’aria è ogni giorno in un cortile dalle mura altissime, sopra il quale il cielo è solo per me. Nessuno viene nel mio cortile. Come da bambino. Pensano che sia una punizione per me l’isolamento perpetuo? È quello che ho cercato tutta la vita per paura di vivere in questo mondo. E ho paura di odiare, ho paura di amare. Non voglio essere amato. Mi hanno dato carta e matita per scrivere, può essere importante; le parole scritte hanno una loro magia, aiutano, consentono di oltrepassare il tempo, lo spazio, la paura.
Ora non ho paura, ma anche se la perfezione non è degli uomini io so come fare. Passo ore a guardare e toccare le pareti della mia cella, vedo screpolature, macchie, muffe, tonalità di colore e di ombre diverse a seconda della luce del sole che sale e scende dalla mia finestra. Ci vedo un mondo di terre e di mari nuovi che non basterà una vita a raccontare tutto. Quando scende la notte sto ancora rimuginando, rivedendo tutti i viaggi e gli incontri che faccio ogni giorno in luoghi meravigliosi con persone buone, magnifiche e operose. Entro in tutti i porti, in tutte le capitali, in tutti i palazzi e cattedrali del mondo conosciuto e sconosciuto; ho parlato con tutti e tutti hanno parlato con me. E ogni giorno salpo in nuove terre, e rivedo i miei compagni morti, il mio equipaggio, gli uomini di Ulisse e io sono con loro. Dobbiamo vivere, vedere, scoprire, amare. Sì anche amare, ho deciso: sono cambiato. Oltre Antartide! Quante cose da scoprire ogni giorno! Sono un uomo fortunato. Vivo in un mondo perfetto, sono in pace ora. Sono tornato il bambino che avrei dovuto essere. Ma non gioco più ai soldatini.