[Lab2] A. Heimer
Posted: Fri Jun 17, 2022 11:51 pm
Io.
Spalanco gli occhi d’improvviso.
Ho dormito?
Sì, penso di sì, anche se non ricordo di essermi coricato. In realtà non riesco a rammentare nulla della notte precedente.
Però la ragnatela di torpore che appesantisce le palpebre non lascia dubbi: ho dormito. E l’ho fatto a lungo. Forse tanto a lungo da averne perso la memoria.
No, non è possibile, come posso aver dimenticato una cosa del genere?
Potrei essermi sbronzato, ieri, sì, ma non riesco a crederlo. Non c’è lotta con i postumi dell’alcol, no, è qualche cos’altro.
Qualcosa di esterno, perché io…
Io…
Io?
Chi
sono
io?
Il petto si stringe di paura.
Io sono…
Non lo so.
La mente è vuota. Scruto in ogni angolo ma non c’è nessuno qui dentro. Non c’è nulla.
Sono un guscio disabitato.
Tremo. L’onda di panico mi sommerge.
Sfuggo serrando nuovamente le palpebre. Cancello ogni sensazione dietro al confortevole mantello della loro oscurità.
Stai calmo, mi dico. Respira normalmente e concentrati.
Magari è un incubo, uno di quelli in cui sogni d’essere sveglio.
Adesso apri gli occhi davvero e tutto sarà normale…
Sopra di me roteano silenziose le pale di un ventilatore.
L’occhio segue il loro girovagare lento, costante. Il loro spingere fili d’aria dal soffitto giù verso il letto: soffi appena percepibili nella vampa della stanza.
Una goccia di sudore scivola dalla fronte fino all’orecchio. Indugia un istante e poi corre dietro al collo; lì, tocca il cuscino e svanisce per sempre.
Accolgo la concretezza di queste percezioni come un appiglio tra i flutti, perché non ho idea di dove mi sono risvegliato. Ancora non ho memorie.
Provo paura, ma non come poco fa. Non mi pervade quel panico assoluto. Adesso è come se il mio corpo avesse preso il comando. Mi dice di stare attento, di non fare errori. Mi sussurra pericolo.
E io gli obbedisco.
Perlustro l’ambiente muovendo solo lo sguardo.
La luce è poca ma sembra vibrare nell’aria. Entra a fasci tra i listelli di una persiana serrata, accende i pulviscoli galleggianti.
La finestra è aperta. Le tendine pendono immobili, lasciano passare suoni soffusi di strada, parlottare indistinto. Una risata femminile.
Da lontano, il perpetuo frinire delle cicale. Un ritmo che mi dà conforto, che sa di casa.
Sono a casa, dunque?
Sento di no. Come se vi sia una nota falsa.
Perché non ricordo da dove vengo, né, tantomeno, chi sono.
Il battito accelera spaventato. Anticamera del panico montante: non voglio cedervi.
Mi concentro sul movimento del diaframma, lo rallento. Focalizzo l’attenzione sull’aria che scorre verso i polmoni e poi fuori, attraverso la gola, il naso. Libera.
Non so perché lo faccio, dove e quando abbia imparato, ma questo automatismo funziona. Il corpo si rilassa mentre la mente sembra focalizzarsi, sembra fissare un bersaglio, nitido nel mirino. Come se null’altro esistesse.
Un bersaglio?
Io con un fucile. Il legno duro contro la guancia, l’indice rigido sul grilletto. La tensione prima dello sparo.
Forse è un ricordo.
Sangue.
Balbetto:
-Chi sono io?
E inaspettata giunge una risposta…
Volto rapido la testa a sinistra, da dove è arrivato l’inatteso suono.
Sdraiata su due poltrone, una ragazza.
Non ha risposto alle mie parole, in realtà: dorme. Finisce il suo movimento, accompagnato da sussurri sconnessi, e torna quieta.
La mia guardiana?
Non riesco a distinguere bene il viso ma sembra giovane. Potrebbe avere trent’anni.
Più o meno come me.
Sorrido.
Un altro ricordo. La casa, il fucile, l’età.
E io sono…
Sono…
No, maledizione, ancora niente.
Vorrei urlare di rabbia. Vorrei afferrare per il collo la ragazza e costringerla a dirmi tutto. Scuoterla con tale forza da farle confessare quel che mi hanno fatto.
Ho l’impulso di farlo, quasi irrefrenabile, ma nuovamente il corpo sa controllare la mente e impone calma.
Nulla d’avventato deve essere fatto, il pericolo è grande e non posso farmi sopraffare.
Sì, nella rete di frammenti che provano a emergere, trovo l’urgenza di uno scopo. Ancora mi sfugge quale sia, ma preme sulla mia volontà dicendomi fuggi!
Sono seduto sul letto.
La schiena madida di sudore. Dov’ero sdraiato, l’alone della mia sindone.
Non distolgo gli occhi dall’addormentata, mentre cauto appoggio un piede sul pavimento. La piastrella è fresca, piacevole, e la ragazza ha lineamenti dolci e armonici.
È bellissima.
Tra i braccioli delle due poltrone, sta rannicchiata. Lunghe gambe rosee, quasi bianche sul tessuto scuro. Pantaloncini da ginnastica e una canotta. Neri, come i suoi lunghi capelli.
Ne fisso il viso, cerco memoria di lei ma è solo una sensazione. Come se sapessi, ma il ricordo fosse appena fuori dalla vista, lì, in un angolo cieco.
Senza distogliere lo sguardo, mi rizzo in piedi.
Le gambe rispondono fiacche, la schiena si raddrizza lentamente.
L’intero corpo reagisce cauto, pauroso.
Non capisco cosa succede. Perché questa debolezza?
Alzo un braccio, porto la mano nel campo visivo e rimango stupefatto.
La pelle è molle sui tendini del dorso, le vene risaltano orribili. È magra, maculata. Secca.
È la mano di un vecchio, ma non è possibile.
Mi guardo intorno frenetico, devo capire.
Al di là del letto c’è un vecchio armadio a sei ante di legno scuro, quasi nero. È lavorato a intarsi e scanalature, con un lungo specchio appeso all’anta centrale. Uno specchio a figura intera.
Devo vedere.
Gambe non mie mi fanno avanzare. Sono rigide, doloranti, parte di un corpo estraneo.
Cosa mi hanno fatto?
Sono appoggiato con entrambe le mani allo specchio. Tra i riflessi delle braccia, mi guardo con occhi che non sono i miei. Osservo da un volto scavato e sconosciuto, un corpo ossuto dentro una ridicola canotta bianca e boxer troppo abbondanti.
Non sono io…
non
sono
io!
Mi volto lentamente verso la mia guardiana dormiente, il contenitore di carne in cui mi trovo freme di rabbia.
Io ho poco meno di trent’anni, io non sono questo.
Me lo hanno fatto loro. Loro mi hanno intrappolato qui.
Faccio due passi verso la ragazza e ciascuno genera nuova consapevolezza.
Questa casa che sento mia, le cicale che mi cullano: adesso so che è tutto falso! Sono fantasmi d’altri tempi. Abitazioni che non esistono più, animali estinti.
La mia mente in questo corpo così debole, la memoria anestetizzata, sono la prigione perfetta. Una tecnologia costosa ma conosciuta.
Brucio di furore.
Raggiungo le due poltrone. Nonostante la fiacchezza del corpo, sono convinto di poter sopraffare la ragazza ed eliminarla.
Posso afferrare il suo collo e spillarne via l’ultimo respiro. Vendicarmi.
Bramo farlo, ma temo che altri guardiani possano intervenire e impedirmi la fuga. Invece io devo scappare, perché se mi hanno fatto questo è per cancellare qualcosa che ho scoperto. Se mi avessero ucciso, avrebbero attirato l’attenzione della mia fazione, quindi hanno provato a neutralizzarmi così.
Ma se fuggo, forse i miei potranno recuperare le informazioni e forse, persino, rimettermi in un corpo adeguato…
Chiudo la porta della camera.
Dall’altro lato, la ragazza dorme ancora, ignara di dovermi la vita. Spero di non pentirmene, in futuro.
Mi guardo intorno.
La nuova stanza è illuminata dal sole. Anche qui hanno ricostruito il passato e sembra di essere in un museo. Il divano di stoffa verde, polverosa. Un tappeto floreale un po’ consunto, illuminato in un angolo dal fascio di luce dalla finestra e, costante, il rumore della strada e il frinire delle cicale.
Un tavolo scuro con quattro sedie. Al centro, un ricamo bianco con sopra una fruttiera decorata a limoni gialli.
Tutto come da manuale, sono bravi.
Ma non c’è nessuno.
Sorrido, si sentono troppo sicuri. Mi sottovalutano e io ne approfitterò.
Due porte si affacciano sulla stanza, identiche tra loro.
Mi avvicino alla prima.
Appoggio la mano sulla maniglia, fredda al tatto.
D’improvviso la vista si annebbia. È un attimo, ma capisco di essere più debole di quanto credessi. Devo fare in fretta, uscire da questa prigione e capire dove mi trovo. Ricordare finalmente.
La maniglia si abbassa silenziosa e socchiudo la porta di quel tanto che basta a far capolino.
C’è buio al di là, e un ritmico russare.
Ecco dov’è la seconda guardia.
Devo andarmene, fuggire.
E sto per farlo, quando noto una pistola su un ampio scrittoio.
La mia vendetta, la mia difesa.
Scivolo nella stanza. Dalla finestra filtra abbastanza luce da distinguere librerie colme e un uomo che dorme su un divano. Indossa la divisa degli altri.
I pedi appiccicano sul parquet mentre m’intrufolo, ma è un suono talmente lieve che raggiungo l’arma senza che lui si accorga di me.
So cosa devo fare.
Mi avvicino al divano e sollevo la pistola verso il soldato. Sono così debole che il braccio trema per il peso del ferro, ma da questa distanza non posso sbagliare.
Curvo l’indice sul grilletto…
D’improvviso s’accende la luce.
Sulla soglia la ragazza. Sapevo che me ne sarei pentito.
Eppure, non sembra avere armi e il suo sguardo è terrorizzato, non aggressivo.
Parla, ma non posso sentirla. Le orecchie sono colme del suono d’uno spezzarsi. Come l’aprirsi di lunghe crepe sul giaccio, o su uno specchio.
Il suo volto.
Trovo parte di me in lei.
Perché io…
Frammenti dello specchio s’infrangono nella mia mente.
L’uomo in divisa si è svegliato e anche lui mi parla spaventato.
C’è di me anche in lui.
Perché loro…
Io…
Infine, crolla.
Sfibrato dall’intreccio di crepe, lo specchio frana a terra.
E dietro, io.
Io che so chi sono, infine.
E mio figlio nella divisa da poliziotto, e mia nipote sulla soglia.
Io, noi, e la malattia che mi consuma la mente.
Che inesorabile uccide il presente e mi fa vivere nel passato, o, peggio, come ora, credere di essere l’eroe creato dalla mia penna. Dalla mia fantasia.
La malattia che a volte mi libera e, per poco tempo, mi lascia essere chi sono davvero.
Come ora.
Disperarmi per ciò che ero e per il peso che sono per chi mi ama…
Con orrore vedo la pistola tra le dita.
So ciò che stavo per fare a mio figlio, o ad Aurora, nel mio caos mentale…
Piango.
Non è vita.
Io
non
voglio
essere
questo.
Ruoto l’arma e la punto alla mia gola.
Non più, non più!
Abbasso le palpebre…
Io.
Apro gli occhi all’improvviso.
Mi guardo attorno, non capisco dove sono.
Perché stringo una pistola?
Io…
Chi
sono
io?
Spalanco gli occhi d’improvviso.
Ho dormito?
Sì, penso di sì, anche se non ricordo di essermi coricato. In realtà non riesco a rammentare nulla della notte precedente.
Però la ragnatela di torpore che appesantisce le palpebre non lascia dubbi: ho dormito. E l’ho fatto a lungo. Forse tanto a lungo da averne perso la memoria.
No, non è possibile, come posso aver dimenticato una cosa del genere?
Potrei essermi sbronzato, ieri, sì, ma non riesco a crederlo. Non c’è lotta con i postumi dell’alcol, no, è qualche cos’altro.
Qualcosa di esterno, perché io…
Io…
Io?
Chi
sono
io?
Il petto si stringe di paura.
Io sono…
Non lo so.
La mente è vuota. Scruto in ogni angolo ma non c’è nessuno qui dentro. Non c’è nulla.
Sono un guscio disabitato.
Tremo. L’onda di panico mi sommerge.
Sfuggo serrando nuovamente le palpebre. Cancello ogni sensazione dietro al confortevole mantello della loro oscurità.
Stai calmo, mi dico. Respira normalmente e concentrati.
Magari è un incubo, uno di quelli in cui sogni d’essere sveglio.
Adesso apri gli occhi davvero e tutto sarà normale…
Sopra di me roteano silenziose le pale di un ventilatore.
L’occhio segue il loro girovagare lento, costante. Il loro spingere fili d’aria dal soffitto giù verso il letto: soffi appena percepibili nella vampa della stanza.
Una goccia di sudore scivola dalla fronte fino all’orecchio. Indugia un istante e poi corre dietro al collo; lì, tocca il cuscino e svanisce per sempre.
Accolgo la concretezza di queste percezioni come un appiglio tra i flutti, perché non ho idea di dove mi sono risvegliato. Ancora non ho memorie.
Provo paura, ma non come poco fa. Non mi pervade quel panico assoluto. Adesso è come se il mio corpo avesse preso il comando. Mi dice di stare attento, di non fare errori. Mi sussurra pericolo.
E io gli obbedisco.
Perlustro l’ambiente muovendo solo lo sguardo.
La luce è poca ma sembra vibrare nell’aria. Entra a fasci tra i listelli di una persiana serrata, accende i pulviscoli galleggianti.
La finestra è aperta. Le tendine pendono immobili, lasciano passare suoni soffusi di strada, parlottare indistinto. Una risata femminile.
Da lontano, il perpetuo frinire delle cicale. Un ritmo che mi dà conforto, che sa di casa.
Sono a casa, dunque?
Sento di no. Come se vi sia una nota falsa.
Perché non ricordo da dove vengo, né, tantomeno, chi sono.
Il battito accelera spaventato. Anticamera del panico montante: non voglio cedervi.
Mi concentro sul movimento del diaframma, lo rallento. Focalizzo l’attenzione sull’aria che scorre verso i polmoni e poi fuori, attraverso la gola, il naso. Libera.
Non so perché lo faccio, dove e quando abbia imparato, ma questo automatismo funziona. Il corpo si rilassa mentre la mente sembra focalizzarsi, sembra fissare un bersaglio, nitido nel mirino. Come se null’altro esistesse.
Un bersaglio?
Io con un fucile. Il legno duro contro la guancia, l’indice rigido sul grilletto. La tensione prima dello sparo.
Forse è un ricordo.
Sangue.
Balbetto:
-Chi sono io?
E inaspettata giunge una risposta…
Volto rapido la testa a sinistra, da dove è arrivato l’inatteso suono.
Sdraiata su due poltrone, una ragazza.
Non ha risposto alle mie parole, in realtà: dorme. Finisce il suo movimento, accompagnato da sussurri sconnessi, e torna quieta.
La mia guardiana?
Non riesco a distinguere bene il viso ma sembra giovane. Potrebbe avere trent’anni.
Più o meno come me.
Sorrido.
Un altro ricordo. La casa, il fucile, l’età.
E io sono…
Sono…
No, maledizione, ancora niente.
Vorrei urlare di rabbia. Vorrei afferrare per il collo la ragazza e costringerla a dirmi tutto. Scuoterla con tale forza da farle confessare quel che mi hanno fatto.
Ho l’impulso di farlo, quasi irrefrenabile, ma nuovamente il corpo sa controllare la mente e impone calma.
Nulla d’avventato deve essere fatto, il pericolo è grande e non posso farmi sopraffare.
Sì, nella rete di frammenti che provano a emergere, trovo l’urgenza di uno scopo. Ancora mi sfugge quale sia, ma preme sulla mia volontà dicendomi fuggi!
Sono seduto sul letto.
La schiena madida di sudore. Dov’ero sdraiato, l’alone della mia sindone.
Non distolgo gli occhi dall’addormentata, mentre cauto appoggio un piede sul pavimento. La piastrella è fresca, piacevole, e la ragazza ha lineamenti dolci e armonici.
È bellissima.
Tra i braccioli delle due poltrone, sta rannicchiata. Lunghe gambe rosee, quasi bianche sul tessuto scuro. Pantaloncini da ginnastica e una canotta. Neri, come i suoi lunghi capelli.
Ne fisso il viso, cerco memoria di lei ma è solo una sensazione. Come se sapessi, ma il ricordo fosse appena fuori dalla vista, lì, in un angolo cieco.
Senza distogliere lo sguardo, mi rizzo in piedi.
Le gambe rispondono fiacche, la schiena si raddrizza lentamente.
L’intero corpo reagisce cauto, pauroso.
Non capisco cosa succede. Perché questa debolezza?
Alzo un braccio, porto la mano nel campo visivo e rimango stupefatto.
La pelle è molle sui tendini del dorso, le vene risaltano orribili. È magra, maculata. Secca.
È la mano di un vecchio, ma non è possibile.
Mi guardo intorno frenetico, devo capire.
Al di là del letto c’è un vecchio armadio a sei ante di legno scuro, quasi nero. È lavorato a intarsi e scanalature, con un lungo specchio appeso all’anta centrale. Uno specchio a figura intera.
Devo vedere.
Gambe non mie mi fanno avanzare. Sono rigide, doloranti, parte di un corpo estraneo.
Cosa mi hanno fatto?
Sono appoggiato con entrambe le mani allo specchio. Tra i riflessi delle braccia, mi guardo con occhi che non sono i miei. Osservo da un volto scavato e sconosciuto, un corpo ossuto dentro una ridicola canotta bianca e boxer troppo abbondanti.
Non sono io…
non
sono
io!
Mi volto lentamente verso la mia guardiana dormiente, il contenitore di carne in cui mi trovo freme di rabbia.
Io ho poco meno di trent’anni, io non sono questo.
Me lo hanno fatto loro. Loro mi hanno intrappolato qui.
Faccio due passi verso la ragazza e ciascuno genera nuova consapevolezza.
Questa casa che sento mia, le cicale che mi cullano: adesso so che è tutto falso! Sono fantasmi d’altri tempi. Abitazioni che non esistono più, animali estinti.
La mia mente in questo corpo così debole, la memoria anestetizzata, sono la prigione perfetta. Una tecnologia costosa ma conosciuta.
Brucio di furore.
Raggiungo le due poltrone. Nonostante la fiacchezza del corpo, sono convinto di poter sopraffare la ragazza ed eliminarla.
Posso afferrare il suo collo e spillarne via l’ultimo respiro. Vendicarmi.
Bramo farlo, ma temo che altri guardiani possano intervenire e impedirmi la fuga. Invece io devo scappare, perché se mi hanno fatto questo è per cancellare qualcosa che ho scoperto. Se mi avessero ucciso, avrebbero attirato l’attenzione della mia fazione, quindi hanno provato a neutralizzarmi così.
Ma se fuggo, forse i miei potranno recuperare le informazioni e forse, persino, rimettermi in un corpo adeguato…
Chiudo la porta della camera.
Dall’altro lato, la ragazza dorme ancora, ignara di dovermi la vita. Spero di non pentirmene, in futuro.
Mi guardo intorno.
La nuova stanza è illuminata dal sole. Anche qui hanno ricostruito il passato e sembra di essere in un museo. Il divano di stoffa verde, polverosa. Un tappeto floreale un po’ consunto, illuminato in un angolo dal fascio di luce dalla finestra e, costante, il rumore della strada e il frinire delle cicale.
Un tavolo scuro con quattro sedie. Al centro, un ricamo bianco con sopra una fruttiera decorata a limoni gialli.
Tutto come da manuale, sono bravi.
Ma non c’è nessuno.
Sorrido, si sentono troppo sicuri. Mi sottovalutano e io ne approfitterò.
Due porte si affacciano sulla stanza, identiche tra loro.
Mi avvicino alla prima.
Appoggio la mano sulla maniglia, fredda al tatto.
D’improvviso la vista si annebbia. È un attimo, ma capisco di essere più debole di quanto credessi. Devo fare in fretta, uscire da questa prigione e capire dove mi trovo. Ricordare finalmente.
La maniglia si abbassa silenziosa e socchiudo la porta di quel tanto che basta a far capolino.
C’è buio al di là, e un ritmico russare.
Ecco dov’è la seconda guardia.
Devo andarmene, fuggire.
E sto per farlo, quando noto una pistola su un ampio scrittoio.
La mia vendetta, la mia difesa.
Scivolo nella stanza. Dalla finestra filtra abbastanza luce da distinguere librerie colme e un uomo che dorme su un divano. Indossa la divisa degli altri.
I pedi appiccicano sul parquet mentre m’intrufolo, ma è un suono talmente lieve che raggiungo l’arma senza che lui si accorga di me.
So cosa devo fare.
Mi avvicino al divano e sollevo la pistola verso il soldato. Sono così debole che il braccio trema per il peso del ferro, ma da questa distanza non posso sbagliare.
Curvo l’indice sul grilletto…
D’improvviso s’accende la luce.
Sulla soglia la ragazza. Sapevo che me ne sarei pentito.
Eppure, non sembra avere armi e il suo sguardo è terrorizzato, non aggressivo.
Parla, ma non posso sentirla. Le orecchie sono colme del suono d’uno spezzarsi. Come l’aprirsi di lunghe crepe sul giaccio, o su uno specchio.
Il suo volto.
Trovo parte di me in lei.
Perché io…
Frammenti dello specchio s’infrangono nella mia mente.
L’uomo in divisa si è svegliato e anche lui mi parla spaventato.
C’è di me anche in lui.
Perché loro…
Io…
Infine, crolla.
Sfibrato dall’intreccio di crepe, lo specchio frana a terra.
E dietro, io.
Io che so chi sono, infine.
E mio figlio nella divisa da poliziotto, e mia nipote sulla soglia.
Io, noi, e la malattia che mi consuma la mente.
Che inesorabile uccide il presente e mi fa vivere nel passato, o, peggio, come ora, credere di essere l’eroe creato dalla mia penna. Dalla mia fantasia.
La malattia che a volte mi libera e, per poco tempo, mi lascia essere chi sono davvero.
Come ora.
Disperarmi per ciò che ero e per il peso che sono per chi mi ama…
Con orrore vedo la pistola tra le dita.
So ciò che stavo per fare a mio figlio, o ad Aurora, nel mio caos mentale…
Piango.
Non è vita.
Io
non
voglio
essere
questo.
Ruoto l’arma e la punto alla mia gola.
Non più, non più!
Abbasso le palpebre…
Io.
Apro gli occhi all’improvviso.
Mi guardo attorno, non capisco dove sono.
Perché stringo una pistola?
Io…
Chi
sono
io?