Marco Cantacuzena. 45 anni, sacerdote cattolico scomunicato, vive di carità e sporadiche ripetizioni. Dotato di una vasta cultura eterogenea, ribelle a qualunque autorità umana, per lui di origine malvagia. Frequenta antiche cattedrali e biblioteche, dove si spaccia per ricercatore. In effetti cerca da sempre una “sua” verità.
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‒ Mi aiuterai?
Marco aprì gli occhi all’improvviso. Era sdraiato su una stuoia dall’odore acre e un ragazzo stava al suo fianco. Infastidito che qualcuno gli stesse vicino si mise seduto, sollevando nel muoversi una moltitudine di mosche e avvertendo un odore di sporcizia emanare dal suo corpo e da quello del ragazzo. Marco si accorse di indossare calzari di cuoio grossolano e consumato con lacci intrecciati ai piedi, una corta tunica macchiata, una cintura semislacciata ai fianchi. Guardò la piccola stanza, un buco senza finestre, solo un piccolo uscio chiuso da una tenda purpurea stracciata, dalla quale filtrava la luce del sole.
Guardò il ragazzo che si alzava, completamente nudo, mentre cingeva i fianchi con un perizoma e indossava una toga bianca bordata di porpora, la toga praetexta degli adolescenti. Come si voltò verso di lui vide che aveva appesa al collo una grossa bulla di pessima fattura, di piombo dorato.
Si mise una mano in testa. “Nel mio tempo a trovarmi così mi linciano”.
Ma sapeva bene che non era il suo tempo. Sospirò.
‒ Ti ho stancato? ‒ chiese premuroso il ragazzo.
‒ No… tu… chi sei?
Il ragazzo sorrise. Non era molto alto, aveva capelli neri lunghi e un sorriso perfetto.
‒ Vedo che hai gradito il vino greco! ‒ disse indicando alcune grosse zucche e una brocca buttate in un angolo.
‒ Lucius. Ti chiami… Lucius.
‒ Meno male! Non facevi che chiamarmi…
‒ Basta! Usciamo!
Oltre la tenda la luce abbacinò Marco. Si coprì il volto e come si riabituò alla luce vide una sequenza di cubicoli di mattoni che davano in affitto a chi capitava. Fuori dei fuochi accesi, donne in abiti multicolori che cucinavano, bambini nudi e sporchi che giocavano nella polvere. Scesero una scalinata dove bivaccavano mendicanti e si immisero in un largo spiazzo trafficato da moltitudini di persone di tutte le razze, a piedi, su carri carichi di mercanzie che si fermavano davanti a tende con banchi di frutta, ortaggi, cianfrusaglie varie intasando il cammino, inveendo, minacciando, urlando e ridendo. Un gregge di capre puzzolenti passava davanti a loro guidato da alcuni uomini, mentre una mandria di bovi provenienti dal foro Boario passava placido, muggendo e defecando liberamente, inondando l’aria del forte odore di paglia fermentata.
Marco sorrise e pensò: “Ma dove sono?” Poi alzò lo sguardo e sorrise ancora.
Accidenti se era vero! Poco più avanti si ergeva una enorme costruzione ovale a piani rivestita di marmo bianco, ogni piano ricco di arcate occupate ognuna da una statua colorata con vividi colori. L’anfiteatro Flavio pronto per i giochi inaugurali. A un lato si ergeva una piattaforma mobile, sorretta da alti sostegni, poco distante un’enorme statua che raffigurava il dio Sole, un tempo Nerone.
Camminarono in quella direzione. Lucius aveva fretta, andava avanti tenendo una mano di Marco e ogni tanto si voltava come se avesse paura di perderlo.
E Marco si ricordava o meglio: ricordava quello che il suo alter ego Marcus, di cui aveva preso provvisoriamente il posto, sapeva.
Lucius era un ragazzo della Suburra, Marco lo aveva intuito in quanto quella parlata era stata oggetto di studi da parte sua, per quanto gli studiosi non concordassero mai sulla pronuncia esatta. Ora la sentiva a viva voce e non avrebbero mai immaginato le sorprese. Lui riusciva a parlarlo bene, faceva parte dei “poteri” accordati dai Controllori. Gli bastava sentire poche parole. Ma per gli studi, tutto da rifare. Il problema di Lucius era serio. Aveva un fratello maggiore di nome Flegias, che in seguito a debiti e truffe era stato condannato alla damnatio ad ludum per tre anni. Il tempo era quasi finito, Lucius era riuscito a sopravvivere combattendo nell’arena, ma Lucius voleva liberarlo prima della scadenza, perché aveva un presentimento.
‒ Non chiedermi come l’ho saputo. Ti prego: non chiedermelo!
Marco ricordava che così aveva piagnucolato Lucius al suo alter ego Marcus.
Mano a mano che mentalmente acquisiva cognizione della vita di Marcus, Marco apprendeva. E cominciò a provare paura. Non era certo invulnerabile come viaggiatore temporale, poteva anche essere ucciso. Sarebbe stato Marcus a morire, questo non avrebbe influito con la sua vita nel XXI secolo e nel suo tempo e in tutti i tempi e mondi paralleli. Ma non voleva provare quell’esperienza.
Il padrone e addestratore, di Flegias era Napeo, uno dei più infami lanistae di Roma, un uomo ricco e corrotto oltre ogni limite. Al termine dei tre anni di damnatio ad ludum, Flegias avrebbe potuto tornare in semilibertà, servendo per altri due anni Napeo in compiti leggeri. Ma Napeo odiava i gladiatori e amava solo i ragazzi. Lucius si era avvicinato a Napeo per sapere e a Marcus per aiutarlo a riscattare il fratello. Come poteva aiutarlo Marcus?
‒ Ave senatore Marcus! Le venationes sono iniziate. Faccio chiamare i tuoi schiavi?
‒ Grazie centurione, li raggiungo io.
‒ Il ragazzo è con te?
‒ È con me.
Il centurione accennò un lieve sorriso e li fece passare.
Ora Marco conosceva la strada, pur non avendola mai percorsa. Scese un labirinto di scale e piccoli corridoi chiusi con finestre alte da cui proveniva la luce e le urla del pubblico. Alcuni soldati che prestavano servizio di ronda lo guardarono dubbiosi, ma altri lo riconobbero e salutarono, anzi lo accompagnarono dentro una sorta di tabernae interna da dove uscirono alcuni schiavi che si inchinarono a Marco. Ordinò acqua calda per lui e il ragazzo, entrarono in uno stanzino dove l’acqua era tenuta calda da fuochi posti sotto i pavimenti, si lavarono e furono portati loro panni puliti. Marco indossò due tuniche, una intima subucula, sopra la quale mise la tunica exteriora e un lungo mantello bordato da una striscia color porpora che drappeggiò un po’ impacciato, i suoi movimenti incerti furono attribuiti a stanchezza. Anche a Lucius fu data una toga praetexta adeguata alla sua condizione di adolescente. Ce n’erano diverse nella tabernae.
‒ Non credo tu abbia voglia di vedere le venationes adesso. I gladiatori entrano nel pomeriggio. Possiamo mangiare qualcosa se vuoi ‒ disse Marco.
‒ Sì. Ho fame. Ti ringrazio.
Alcuni schiavi avevano già messo in un forno della carne fresca di agnello, dopo che era stata appena bollita in acqua speziata, mentre toglievano piccole forme di formaggio fresco da canestri ricolmi di vinacce per conservarli e friggevano nel lardo fave fresche con miele.
Lucius mangiò con voracità delle fette di formaggio e del pane di farina bianca, raro per lui, bevendo idromele tenuto in fresco dentro una grande cassa posta in un cunicolo buio con paglia e ghiaccio.
Marco fece chiamare un centurione. Gli offrì del vino di Falerno fresco, che bevve con gusto. Ne offrì anche agli altri legionari.
‒ Devo parlare con il lanistae Napeo ‒ disse Marco.
‒ Sta ancora nella caserma Quinta. Ti possiamo accompagnare passando per le gallerie.
‒ Vi ringrazio. Ma assaggiate questa torta di carne tritata e fichi secchi. Mettete un po’ di garum, che favorisce la sete. Fate con comodo.
I soldati mangiarono e bevvero con gusto. Poi fecero strada al senatore.
Voleva venire anche Lucius, ma Marco lo dissuase bonariamente.
Calarono nei sotterranei discendendo lunghe sequenze di scalini e stretti pendii lastricati con cura. Alle pareti stavano appese delle protuberanze di ferro con una bolla in cima che emanava una luce calda. Marco avrebbe voluto indagare sull’origine di quelle luci, ma non c’era tempo. Solo lui le guardava, i soldati non ci facevano caso. Quelle luci facevano parte della loro quotidianità. Sbucarono in uno stanzone buio, una sorta di stalla. Alcuni uomini sbucarono dal nulla, ma vedendo il senatore con i legionari fecero un leggero inchino.
‒ In cosa posso esserti utile, nobile senatore Marcus?
Napeo era un essere infimo e maleodorante. Marco riconobbe che era lo stesso odore che aveva avvertito in Lucius quella mattina e che aveva permeato in lui. Ebbe un brivido.
‒ Nel degnarti, se non ti chiedo troppo, di ascoltarmi. Voglio parlarti. Io e te.
Si discostarono un poco dagli altri, in un angolo della caserma Quinta dove si tenevano gli allenamenti.
I legionari osservavano divertiti tutte le smorfie di Napeo mentre parlava con il senatore, il suo levare le mani al cielo, come a chiamare gli dei a testimoni, i suoi inchini. Lo videro anche prendere avidamente una borsa di cuoio, mentre Marco gliene mostrava un’altra che però infilava sotto la toga.
‒ Voglio vedere solo lui ‒ disse Marco alla fine.
Napeo fece un cenno ai suoi uomini che si allontanarono e tornarono poco dopo con un uomo di circa venticinque anni, vestito di una corta tunica grigia e caligae da soldato.
Marco gli si avvicinò, facendo cenno agli altri di allontanarsi.
‒ Ti ho riscattato Flegias. So che stai per finire la tua condanna. Non devi più combattere nell’arena. Puoi venire con me.
Flegias lo guardava con sospetto. ‒ Perché fai questo? Io non ti conosco, nobile senatore.
‒ Me lo ha chiesto tuo fratello Lucius.
Lo sguardo di Flegias divenne duro. ‒ E lui cosa ti ha dato per avere questo favore? Non ha niente se non se stesso.
‒ Non ho voluto niente da lui. Ma deve vivere con qualcuno che lo protegga.
Flegias sporse il piede e tracciò dei segni sulla terra della caserma Quinta.
Una croce. Il cuore di Marco accelerò i battiti.
‒ Sei… cristiano?
‒ Sono io che faccio questa domanda.
‒ Si. Lo sono. Anche tu?
‒ Ho conosciuto qualcuno. Si rifiutava di uccidere nell’arena e non capivo perché morivano senza combattere. Facevano e dicevano cose che non conoscevo, che non capivo. Forse ora capisco.
‒ Cosa…
‒ Che possono esistere uomini come te. Ti credo. Anche se sei un senatore di un imperatore pagano.
Cosa voleva dire? Marco avrebbe voluto fare mille domande, ma non c’era tempo.
‒ Vieni con me, Flegias.
L’uomo scosse la testa.
‒ Devo andare nell’arena. Un’ultima volta.
‒ Non ne hai bisogno. Ti ho riscattato. Ti aiuterò te e tuo fratello. Sei libero.
‒ Si. Ora sono davvero libero senatore Marcus. E ti ringrazio. Dimmi una cosa ora.
‒ Domandami.
‒ Se tu sei cristiano, puoi battezzarmi? So che ci vuole l’acqua, abbiamo una fontana alla caserma Quinta.
Si avvicinarono alla fontana. Marco era stato scomunicato nel XXI secolo, ma era sempre un cristiano e qualunque cristiano può amministrare il battesimo. Lui era più indicato di altri.
La fontana era alta, Marco e Flegias si misero fuori vista. I legionari chiacchieravano fra loro, Napeo parlava con alcuni dei suoi uomini. Flegias si inginocchiò. Marco prese dell’acqua e l’asperse sul capo del gladiatore pronunciando: ‒ Ego te baptizo in nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti.
‒ Amen ‒ disse Flegias, rialzandosi con una luce nuova negli occhi.
‒ Proteggi mio fratello. Che nessuno gli faccia del male.
Marco e Licius entrarono negli spalti nel pomeriggio, nei primi posti riservati al Senato e alle Vestali. Dietro di loro stavano gli equites, poi le classi intermedie fino a salire alle piccionaie, dove urlava il popolo.
Faceva caldo, c’era il sole e sopra il l’anfiteatro era comparso un tetto di immense tende a strisce gialle e marroni, che attenuavano il caldo.
Gli spalti erano stati cosparsi di acqua purificata con zafferano, per rinfrescare e attenuare il tanfo di sangue delle venationes del mattino. Anche l’arena era stata ripulita.
Cominciarono i primi combattimenti. Licius era taciturno. Marco non aveva osato rivolgergli la parola se non per cose futili.
Durante un intervallo Marco si avvicinò all’orecchio del ragazzo.
‒ Non sempre il denaro compra ogni cosa. Devi sapere che io non sono lo stesso che… che stava con te questa notte. Non ero io. Ti prego di credermi.
‒ Lo so ‒ disse Licius senza volgergli lo sguardo.
‒ Come lo sai?
‒ Ho avuto una visione. Ma non volevo credere. Per questo sono andato a casa tua, senatore. So le cose che ti piacciono.
‒ Che visione?
‒ Licius prese la mano di Marco e con il dito vi tracciò una croce.
Senza fiato Marco tracciò a sua volta una croce nel palmo di Licius.
Il segno fu interpretato da qualcuno che guardava come un normale segno d’affetto.
‒ Sei cristiano? ‒ chiese sottovoce Marco.
‒ No. Ma questa mattina sapevo che eri un altro. Però speravo che mi avresti aiutato. Ma so anche che non è colpa tua. E so che mi lascerai. Non sei di questa Terra. Sei di un’altra Terra tu. Lo so.
Marco avrebbe voluto rimanere a Roma per sempre. Questo non era più un viaggio nel passato come a Disneyland, era una tortura indicibile.
Entrarono nell’arena dalla quale venivano portati via i cadaveri dei gladiatori morti nei giochi precedenti un sannita e un reziario.
Il sannita era armato pesante, indossava un enorme elmo che gli copriva tutto il viso, con una griglia davanti agli occhi e un’aquila scolpita sulla testa. Portava una spada e un grande scudo quadrato. Le gambe foderate da un’armatura protettiva.
Il reziario aveva il volto scoperto, una spalla e un braccio imbottiti, come pure le gambe, per attutire i colpi, un tridente e una rete.
Il reziario era Flegias.
I due gladiatori cominciarono a girarsi intorno, a studiarsi. Appartenevano a due caserme gladiatorie diverse.
Il combattimento appassionava, perché c’era disparità in entrambi verso l’avversario, con predominanza del sannita verso il reziario, che si compensava però con l’esperienza e l’astuzia di entrambi.
Dopo alcune giravolte come di danza il pubblico, che non è mai paziente, cominciò a rumoreggiare. Il reziario fece volteggiare diverse volte la rete sopra il sannita, che la evitava alzando lo scudo e dimenandosi, fino a distrarsi per un attimo per una finta mossa e trovandosi coperto dalla rete come un pesce. La folla si levò in piedi gioiosa, inebriata dal sangue che stava per scorrere inevitabilmente, impaziente di vederne altro e altro ancora.
Il sannita, disperato, non riusciva a liberarsi, sdraiato a terra, più si muoveva più la rete lo avvinghiava. Gettò l’arma e sollevò il braccio verso la folla per chiedere la grazia. La folla si alzò in piedi urlando, il pollice in alto.
‒ Lo graziano ‒ mormorò Marco.
‒ No. Pollice alto vuol dire spada sguainata: uccidi. Pollice giù: metti la spada nel fodero. Non uccidere. Flegias deve uccidere. Oggi non lo farà.
Dal palco imperiale si vide l’imperatore Tito sollevare a sua volta il pollice, d’accordo con la folla
Flegias gettò il tridente e si inginocchiò giungendo le mani, il viso rivolto al cielo. La folla esplose in un immenso boato di rabbia. Nell’arena entrarono di corsa degli uomini armati di gladio. Si avvicinarono a Flegias. Uno di essi alzò il gladio verso l’imperatore che sollevò il pollice. La spada calò su Flegias.
Prima che qualcuno potesse fermarlo Licius si calò dal muro che lo separava dall’arena. Alla sua età era facile fare quel balzo. Andò urlando verso suo fratello, si buttò su di lui abbracciandolo. Lo strattonarono violentemente, ma non si muoveva. La folla rideva divertita. Lo colpirono alla testa con i manici dei gladii. Qualcuno gli affondò la spada sul fianco. Era un inutile ragazzo della plebe, non contava niente, non bisognava chiedere a nessuno per ucciderlo, specie se disturbava lo spettacolo. Subito portarono via i corpi.
Marco si fece accompagnare da un centurione nel luogo dove portavano i corpi, un sotterraneo. In una fila di morti, in un angolo scuro intriso di sangue c’era Licius, poco lontano dal fratello. Respirava ancora, ma stava morendo.
‒ Mettimi… vicino a Flegias ‒ disse con un filo di voce.
Marco lo prese in braccio e lo avvicinò al fratello. Licius sorrise appena, la bocca piena di sangue.
‒ Tuo fratello era cristiano. È morto per questo. Tu conosci i cristiani?
‒ Si ‒ disse con un filo di voce il ragazzo.
‒ Vuoi diventare cristiano e andare da tuo fratello?
‒ Si.
Marco vide una fontana dove bevevano i gladiatori, che scorreva in continuazione. Andò a raccogliere acqua limpida nel palmo della mano e lo versò sulla testa insanguinata di Licius.
‒ Ego te baptizo… in nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti.
‒ Amen ‒ disse Licius sorridendo dolcemente. Reclinò il capo.