(mi scuso per la formattazione, ma non sono riuscito a fare di meglio con l'editor... )
Poseidone e il cavalluccio marino
Il collezionista è uscito prima dell’alba.
Non appena si è allontanato dalla costa dell’isola, ha posato con delicatezza la rete in acqua, nella speranza di poter raccogliere del buon pesce e, magari, altri animaletti esotici. Gli isolani non si meravigliano più della teca in cui ha esposto crostacei e conchiglie variopinte; chissà se è la volta buona per un corallo o una stella marina.
Altri pescatori sono a lavoro a largo; lui inizia sempre da una profondità più modesta, in modo da poter raschiare il fondo e sperare di raccogliere rarità. L’aurora dai capelli rosa li osserva, anch’ella incuriosita dal gran daffare dei mortali.
La rete si sposta con la barca, gratta i fondali, ma emergono solo granchi e sparuti pesciolini. Il pescatore pensa che ci sia materiale per una buona zuppa, ma nulla da ricordare o da esporre per suscitare la meraviglia degli altri isolani.
È tardi, all’uomo resta solo da ritrarre la rete un’ultima volta per poi ripiegarla e tornare a casa. La meraviglia si palesa sul volto quando nota un cavalluccio marino impigliato tra le maglie. È un esserino rosa pallido percorso da striature salmone che si dipanano dalla schiena; si divincola senza successo, sembra aver paura del proprio destino.
L’uomo arcua le dita nodose, lo afferra e lo cala in un piccolo recipiente colmo d’acqua marina; ha qualcosa di nuovo da mostrare ed è felice mentre riduce la rete a un morbido quadrato che ripone al di sotto della panca.
Giunto a riva, scende dal piccolo natante ma, con un errato colpo di reni, rovescia il contenitore con all’interno il cavalluccio marino. Quest’ultimo, trascinato dall’onda d’acqua, si incaglia in un punto del terreno, faccia a faccia con il sole, inerme e pronto a subire il proprio destino.
Ha ancora molto per cui vivere, mari da attraversare e fondali da visitare, ma al destino non importa se si asciuga mortalmente. Vorrebbe maledire la stirpe degli uomini, ma non ne ha né il tempo né la forza.
D’un tratto si sente sollevare. Forse ha raggiunto il paradiso degli ippocampi ma si ritrova immerso di nuovo in acqua. Acqua limpida, fresca, salata e vitale: chi può aver avuto pietà della sua sorte?
Di fronte a lui, un uomo imponente dalla carnagione olivastra, capelli castani e lineamenti maschili.
«Chiunque tu sia, grazie, mi hai salvato la vita».
Ma come può capirlo? Come può apprezzare la gratitudine della piccola creatura? Di fronte ha un uomo mentre lui è un cavalluccio marino.
«Sono felice che tu stia bene».
La voce dell’uomo è garbata e penetrante; di fianco ai piedi immersi in acqua sale un tridente che si divide in tre punte poco al di sopra delle mani. Come può non aver riconosciuto Poseidone?
«La ringrazio, grande re dei mari», ha capito di poter comunicare con lui.
«Non preoccuparti, non ho fatto nulla. D’altra parte la tua gratitudine mi fa piacere, la prendo come un segno di stima e rispetto».
«Non ho parole per quello che ha fatto per me!»
«Di nulla. Se posso fare qualcosa per te dimmelo, creatura del mio mare».
«Grande re, fratello del padre degli dei...» prende coraggio, «so che l’aver avuto salva la vita è il più grande regalo che possa ricevere, ma vorrei avere l’opportunità di potermi vendicare. Non posso ammettere la tracotanza degli uomini», il cavalluccio marino è parecchio arrabbiato. «Se fossi finito in una zuppa me ne sarei fatto una ragione, ma morire per finire in una teca è un’azione che merita vendetta».
«Il sangue richiama altro sangue e vendicarti ti pone su un piano inferiore rispetto al pescatore...»
«No, grande re! Mi ascolti! Anche lei si ha promesso vendetta agli achei dai lunghi capelli, la prego solo di vendicarmi contro quel subdolo pescatore!»
«La vendetta ti sazierà di dolore altrui ma non ti darà soddisfazione. Ti porterà a perdere il controllo e inebriarti della vendetta stessa, fino a restare orrendi simulacri che si nutrono di sangue e rancore».
Ma vuoi per l’accorato appello della creatura marina, vuoi per l’insistenza nella richiesta, alla fine viene accontentato. Il disappunto che si legge sul viso di Poseidone è dovuto al desiderio del cavalluccio e al rammarico di averlo esortato a chiedere. Rassegnato, afferra a due mani il tridente e, con un movimento circolare, crea un onda alta più di due metri che si schianta con fragore nel punto dove si trova la creatura.
«Fa’ buon uso della nuova vita».
«Aspetta o re...»
Ma il dio immortale è sparito come la stessa onda che, spezzata e interrotta, si acquieta sulla superficie del mare. Il cavalluccio si sente strano, diverso; cullato dalla corrente marina scopre di avere maggiore consistenza e superficie. Scappa a nuoto e gli viene spontaneo servirsi di due grandi appendici laterali. Non riesce, si schianta sull’acqua e nota che la coda ha una forma che ricorda un pesce, mentre strani fili davanti al viso si inzuppano e lo infastidiscono.
Vinto dalla stanchezza e dall’estraniamento, si aggrappa a uno scoglio e stramazza, supino, sulla roccia. Ripreso fiato, fa appello alla propria volontà e si gira per vedere la propria immagine riflessa sull’acqua.
Lunghi capelli biondi si sciolgono dal viso a lambire l’acqua. La superficie tremola per qualche istante, poi i cerchi concentrici si diradano e spuntano i lineamenti di una ragazza bellissima: occhi verdi come il mare, naso appena pronunciato, guance snelle e una bocca piccola e graziosa. Le mani sono affusolate e le porta a lambire il viso mentre continua a rimirarsi sullo specchio d’acqua.
Cola una goccia dopo l’altra, altri piccoli cerchi deformano il riflesso del cavalluccio marino che si rende conto di essere diventato una sirena. I capelli scarmigliati non minano la perfezione di un viso paragonabile a quello delle dee immortali; potrebbe innamorarsi della propria immagine come Narciso se, nel profondo del cuore, non fosse un cavalluccio marino.
Ma cresce la rabbia e il proprio aspetto divino si incurva alla spinta di un sorriso malevolo; è un attimo aprire bocca, provare a cantare e scoprire di avere una voce melodiosa.
«Vorrei illuminarti l’anima... nel blu dei giorni tuoi più fragili, io ci sarò... come una musica... come domenica...»
Si lancia sull’acqua, felice. Schizzi di spuma bagnano le rocce mentre lui, a pancia in su, ride e si serve delle braccia per lanciare altra acqua. Questa gli ricade in viso, come pioggia sugli occhi chiusi e su un’insolita espressione di maliziosa beatitudine.
È il momento di imparare a nuotare in quel corpo nuovo. In modo spontaneo, sul dorso, un braccio rotea prima dell’altro; vede che si muove con leggerezza e insolita velocità; al suo passaggio, lascia indietro una scia di bianca spuma, ma non sembra affaticarsi, piuttosto si sente bene, si rilassa.
Supera pesciolini, orizzonti, barche…
Vede una piccola isola, di fianco a lui; in controluce, figure oscure si muovono sulla superficie con schiamazzi e gesti. Il cavalluccio marino si ferma, inabissa la propria coda e resta a galleggiare sull’acqua servendosi delle braccia. Non riesce a mettere a fuoco le figure ma sente voci che lo richiamano. Voci femminili, come la sua.
«Cavalluccio vien da noi / non fermarti sulle onde; / in seguito ti puoi / vendicar di gente immonde».
«Chi siete?» Si avvicina.
«Siamo qui da tanto tempo, / attiriamo i viaggiatori / con canto soave e lento / tributiamo grandi onori...», inizia una di loro.
«Poi, però, parte l’inganno: / li adagiamo sugli allori, / ma mentre loro da noi stanno / li facciamo tutti fuori!» Termina un’altra.
«Quindi voi siete sirene: / io ero un cavalluccio / ... non mi viene la rima, mi dite come fate?»
«Ti abituerai. Conosciamo la tua storia, resta con noi».
È arrivato a riva; una di loro gli tende la mano e lo invita a issarsi sugli scogli. Veli di nuvole offuscano la luce solare, il chiarore è meno oppressivo e il cavalluccio si rende conto del luogo. Le sirene non sono come lui, hanno il viso slavato, scheletrico, capelli radi, braccia e mani ridotte a pelle e ossa; la coda, infine, è ricoperta di alghe e densa di ferite e punti marci.
«Cosa vi è successo?»
Ritrae la mano e resta sospeso in acqua. Quale differenza con il proprio aspetto giovanile: il viso candido, le braccia rosa, le mani morbide e la coda di un verde lucente. Che sia l’effetto della vendetta descritto da Poseidone? L’isolotto stesso, inoltre, è cosparso di un tappeto di putrida vegetazione, ossa e carne putrefatta.
Non ha tempo per riflettere, da quelle parti passa una piccola nave; c’è un essere umano a bordo, ha un aspetto emaciato, sembra vinto da mille fatiche. Le sirene lo guardano e iniziano a cantare.
«Aristone che vieni dal mare / fermati un po’ presso di noi; / siamo creature vogliose di amare / gentili e amorevoli con gli eroi...»
«Tu che torni dall’Ilio lontana / stanco nel corpo e nella mente; / riposati da tanta fatica vana, / qui da noi dolor non si sente...»
Il cavalluccio si meraviglia di come l’uomo riprende vigore e rema come mai prima. A velocità sostenuta impatta sullo scoglio; l’imbarcazione, rosa dall’acqua marina, quasi si sgretola e l’incauto uomo si schianta, mentre un osso aguzzo gli penetra nella coscia. Sangue esce dalle stanche vene, ma non si accorge di nulla; ha gli occhi aperti fino all’ultimo e le guance sorridenti esposte alle nodose mani delle adescatrici.
La vita abbandona presto Aristone, il sangue si mescola allo strato putrido e il corpo andrà a decomporsi e a unirsi agli altri. Le sirene smettono di cantare, ridono e si rallegrano dell’ennesima vittoria per loro e Ade.
Il cavalluccio è disgustato dalla scena; con lo sguardo fisso sulle membra morte dell’uomo si chiede quale mente possa essere così assetata di sangue per attirare un essere vivente e provocarne la fine. Poi si ricorda del collezionista e della lenta agonia a cui era stato sottoposto prima di diventare una sirena. Arriccia le labbra, gonfia le guance e manda fuori uno sbuffo d’aria.
«È quello che merita, l’uomo, nella propria natura malvagia».
Una sirena toglie la mano dal corpo di Aristone e la tende al cavalluccio, ancora assorto nei suoi pensieri. Dalla mano cadono lembi di pelle e ci sono macchie di sangue.
«Vieni con noi...» esce dalla bocca sdentata dell’essere.
Il ribrezzo nel toccare la mano protesa passa nel ricordare il collezionista.
«Gli esseri umani devono essere puniti».
Afferra la mano e si siede sullo scoglio. La coda lucente si macchia del sangue di Aristone, ma non gli importa: è soddisfatto della propria scelta. Alcune cose volano davanti agli occhi, si fermano e gli offuscano la vista. Le toglie con una mano e scopre che si tratta di fili gialli; la stessa mano gli sembra più magra e consunta di prima, riesce a vedere le vene e le nocche delle dita. Non ci fa caso, butta tutto e scruta l’orizzonte con interesse per il proprio scopo.
Forse era destino che diventasse sirena; passasse da quelle parti anche il collezionista, sarebbe felice di ucciderlo e mescolarlo agli altri. Ride e si unisce alle colleghe mentre altri capelli cadono e si adagiano a pelo d’acqua, portati via dalla corrente.
Nei giorni che seguono, Alpenore, un giovane esule troiano, perde la vita in modo simile. Poi il tebano Eumeo e il suo equipaggio, poi l’anziano Tebaide e il giovane Munippo. E altri ancora, attirati dalla voce delle sirene e dal canto del cavalluccio marino. Quest’ultimo, consumato dalla vendetta, non è più dissimile dalle altre donne ed evita di riflettersi sul velo d’acqua, per non vedere i propri cambiamenti. Abituato alle membra degradate, alla coda ferita, alle infezioni e ai resti umani, prosegue e si unisce alla vita delle altre.
La voce è la stessa, canta per ricordare la propria identità, canta per vivere quella vita maledetta, canta per attirare incauti esseri umani.
«La nebbia agli irti colli / piovigginando sale / e sotto il maestrale / urla e biancheggia il mare!»
«Una nave si avvicina!» Viene scosso da un’altra sirena.
«Sono tanti!» Un’altra ancora lo ferma.
«È Odisseo con la nave che gli è rimasta!»
«Andiamo!»
«Odisseo di Laerte figlio / vieni qui con noi, / non fare un altro miglio / più ingegnoso degli eroi!»
«Sull’isola nostra / ritempra la tua anima, / lascia che ti mostra / ...» il cavalluccio marino perde il filo, «come si sta bene... e prima o poi imparerò a fare le rime».
«Odisseo di mille imprese /», l’altra sirena gli lancia un’occhiataccia, «condividi il tuo sorriso / un solo anno oppure un mese / nel nostro paradiso».
Il cavalluccio non è convinto delle loro parole, ma sa che la forza delle sirene sta nella voce e continua a cantare con loro. Notano che c’è qualcosa di strano, l’uomo si agita, si dimena, ma è legato all’albero maestro e l’equipaggio sembra insensibile al loro canto. La nave passa, il canto si intensifica, gli improperi di Odisseo sono urla strazianti disperse dal vento.
La nave supera lo scoglio delle sirene e sparisce all’orizzonte.
Le urla dell’eroe acheo scemano, resta solo il rumore del mare.
Le sirene si acquietano: hanno fallito.
La prima ad andarsene è Partenope. Lascia l’isolotto diretta chissà dove; depressa, nuota tra le onde come non faceva da sempre, decisa a ricominciare da zero. L’acqua salmastra la depura dalla malvagità. Anche le altre abbandonano lo scoglio e spariscono tra le correnti.
Per ultimo resta il cavalluccio marino. Guarda il riflesso nell’acqua: si è trasformato in quello che odia. Il viso dolce e rosa è ora un teschio ricoperto da grinze marroni, con pochi capelli color paglia; dalle cavità oculari spuntano grandi occhi che sembrano tenersi per miracolo. Anche le mani sono solo magre appendici poste alla fine di polsi sporgenti dai quali spuntano frammenti d’osso. Non ultima, una coda tappezzata da punti in cancrena.
È solo: re di uno stuolo di resti umani e ricordi lontani. Il ricordo dell’espressione beata delle incaute vittime, il ricordo del viso angelico e della chioma bionda da far invidia alle dee immortali. Non c’è più nulla.
Ha avuto migliaia di vendette, tutte nell’attesa del mai arrivato collezionista. Quante vite e quante famiglie ha spezzato, quante mogli piangono i mariti, quante madri piangono i figli... la sua anima e la sua insoddisfazione si mescolano alla morte di cui vive la piccola isola e il cavalluccio marino si sente svuotato, lontano dal proprio desiderio di vita e dal proprio desiderio di vendetta.
La ricerca del collezionista lo ha reso collezionista.
Fosse morto quel giorno, a quest’ora riposerebbe in pace.
Gli sembra di sentire lo stupore dei bambini nel vedere un cavalluccio marino in una teca di vetro; fosse morto avrebbe perso il corpo salvando l’anima, mentre ora ha il corpo ma non l’anima.
Rotola e si trova faccia a faccia con il terreno. Infila il braccio destro tra un mucchio di ossa; si ferisce ma non sente dolore, non c’è sangue, solo orrore. Trova lembi di vestiti, stracci, frammenti di bisacce e oggetti che richiamano a singole identità costrette in quella fossa comune.
Infine, un pugnale.
Si volta di nuovo verso il mare, supera alcune rocce sporgenti e si trascina in acqua. Uno scoglio, in particolare, è di poco inclinato e solo lambito dalle dolci onde: il cavalluccio si ritrae indietro e, con un ultimo sforzo, si distende su di esso.
Il cielo è azzurro, puro, privo delle macchie che ora sente dentro di lui. Deciso, conficca il pugnale nel petto e preme con forza nella speranza di chiudere gli occhi per sempre.
Nel distendere il braccio destro scivola dalla roccia e finisce in acqua, in balia delle correnti.
...
Sulle coste di un’isola vicina, il collezionista ritrae l’ultima rete della giornata.
La pesca non è stata decorosa ma, tra le maglie, trova un pugnale di bronzo con intarsiature d’argento, di fattura cretese. La meraviglia sale nel vedere, di fianco a questo, un grazioso cavalluccio marino.
Decide di raccoglierlo e di custodirlo in una teca. Sente già lo stupore degli altri abitanti del villaggio e le storie dei bambini nell’ammirare quella creatura esotica.
«Gli dei danno, gli dei tolgono, ma i mortali decidono delle proprie azioni».
Con quella sentenza, Poseidone torna nel proprio regno.