Quattro uomini e una fata
Posted: Wed Apr 28, 2021 8:01 pm
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Quando l’auto dell’impresa funebre si fermò, gli uomini si guardarono e senza dire una parola scesero come se la miseria di quelle case fosse anche la loro. Il palazzo stava in piedi, ma sembrava senza più voglia, aveva le rughe di una donna che ormai si era lasciata vincere dal tempo. I panni stesi di ogni colore si alzavano al vento, parevano vele ancorate in un porto senza mare. Sul muro all’ingresso del palazzo popolare c’era una scritta che qualcuno aveva provato a cancellare, ma che prontamente era stata riscritta: “prima o poi mi ammazzo o vi ammazzo”. Entrarono nel cortile ed era come affrontare un percorso ad ostacoli, si camminava facendo attenzione ad evitare passeggini e biciclette.
La portinaia, una donna sui quarantacinque anni, uscendo dalla guardiola indicò ai quattro la scala B quinto piano. Il più anziano tra loro la ringraziò con misurata gentilezza. La casa non aveva l’ascensore, i gradini erano consumati e il colore del corrimano ormai scomparso, si intravedevano scritte con un pennarello , scarabocchi, sigle e un cuore rosso con dentro due lettere.
Avanzando uno dei quattro disse sottovoce: - Qui scordatevi mance.
Il gruppo annuì stirando un sorriso.
- Speriamo, vista l’altezza dei gradini, che non sia un carico pesante.
Intanto che salivano scherzavano, la morte per loro era un ufficio di tutti i giorni.
-Hai visto capo come ti guardava ?
Lui rise e aggiunse:- Quando ero giovane vi posso assicurare che ho provato di persona l’interesse delle portinaie per i pantaloni e per quello che c’è dentro.
Tutti risero, ma Gino, arrivati davanti alla porta, comandò di tornare ad indossare la giusta maschera e prima di arrivare alla porta passò in rivista la sua squadra: Carlo, quello alto, era sempre inappuntabile, a Giuseppe invece andava sempre controllata la cravatta e Dino aveva la scarpa sinistra sporca di polvere e la barba da fare. Se fosse per Gino solo Carlo sarebbe entrato, gli altri non avevano un minimo di stile.
- Appena finiamo di lavorare Giuseppe vatti a tagliare i capelli e tu Dino radi meglio la barba.
Giuseppe annuì con la testa e Dino si toccò la guancia come se non si fosse accorto della barba cresciuta.
-Cosa diamine hanno in testa i giovani?- sussurrò tra sé Gino - Ai miei tempi se non ti presentavi perfetto ti mandavano a vestire i morti.-
Con delicatezza suonò il campanello poi attese con gli altri dietro. Venne ad aprirgli un uomo anziano ancor solido al quale non uscirono molte parole. In quella casa, come spesso accade dove vivono degli anziani, tutto raccontava di un tempo distante, così lontano da quello tecnologico che circola nel presente. Oltre il muro di vecchie stampe e fotografie appese un piccolo bagno e una stanza semichiusa. Il vecchio li precedette aprendo la porta: entrarono solo Gino e Giuseppe, gli altri attesero essendo la stanza troppo stretta per sostare tutti insieme. Sul letto con un vestito modesto composta da morta c’era Ada, sua moglie da quarant’anni .
Gino sapeva che il silenzio in certe situazioni vale un milione di parole. Il vecchio sospirava con gli occhi umidi. Ognuno dei quattro usava il suo corredo di parole ormai collaudate per dare un qualcosa di simile ad un conforto. Domani sarebbe stato un giorno di nuvole scure, di muti pensieri e di un secco freddo che avrebbe avuto per lui le stesse labbra gelate di Ada. Il vecchio lo sapeva, lo aveva già visto per sua madre, per suo padre e per tanti altri suoi amici: il momento peggiore sarebbe stato, con il passare dei mesi, sostenere il compromesso di dover vivere solo con l’incessante presenza dei ricordi.
Ada era morta nel sonno senza dare nessuna avvisaglia, Arturo l’aveva scossa e poi le aveva urlato.
-Svegliati poltrona, il caffè stamattina l’ho fatto io.
Nel presente la testa girava come se fosse sull’Himalaya senza ossigeno, ma ora il tempo della vita lo obbligava a risolvere i problemi pratici. Le carte da firmare per l’agenzia, parlare e rispondere alla gente che si accalcava per dire le stesse cose che non voleva più sentire. Se avesse potuto sarebbe scappato dissolvendosi come in un sogno. La morte è un tale affanno per i vivi, obbligati a fermarsi e a interrogarsi: il tempo della morte fa sospendere le sicurezze la gente prova a dire o meglio a pensare, ma tutto risulta complicato come parlare sottacqua.
- L’ho già detto al telefono i soldi ve li do un po’ alla volta, appena arriva la pensione.
-Non si preoccupi ho già parlato con il titolare, so già tutto- Gino cerca di parlare e di distrarlo- E’ sempre vissuto qui?
-Sempre, ma un tempo era molto meglio, ora i padroni se ne fregano, affittano a chiunque, case da due locali ci vanno dentro in sei o sette e tutto va in malora.
Gino annuì. - I tempi cambiano e non sempre in meglio.
Nel frattempo suonò il campanello: erano Carmela, la portinaia, con altre vicine che venivano a dare l’ultimo saluto. Erano donne anziane e una si rivolse a Gino facendosi prima il segno della croce.
- Conosco il signor Arturo e la signora Ada da trent’anni, che dispiacere sono sempre stati insieme. Un’altra a bassa voce sussurrò: - Era proprio una brava donna.- Pregavano ognuna muovendo in silenzio le labbra, Carmela le mise un rosario al collo, le diede un bacio sulla guancia e si allontanò. Il piccolo corteo in meno di quindici minuti si dileguò, davanti alla morte le parole paiono non restare ferme. Ogni persona che esce o che entra si raccoglie nel tempo della morte, è l’unico momento di autentica verità dove per un attimo i piccoli inganni quotidiani non funzionano.
Giuseppe e Dino erano usciti per dar spazio ad altre persone della casa che venivano a trovare Ada. Carmela è anche lei fuori, si accende una sigaretta per poi subito dopo due boccate spegnerla. -Pover’uomo ora è proprio solo. Guardando verso il basso si sentivano dei ragazzini scarmigliati vociare.
Carmela dall’alto li sgridò: - Fate silenzio, abbiate rispetto qui c’è un morto- poi con fare da maresciallo aggiunse- Quando scendo li aggiusto io.
Giuseppe e Dino la guardarono mentre con fare militare imponeva il silenzio con il dito a due extracomunitari che parlavano ad alta voce .
Gino uscì e li guardò con fare serio: Giuseppe e Dino non ebbero bisogno di sentir le sue parole, bastò vedere nei suoi occhi la disapprovazione. Era tempo di finire il loro lavoro. I quattro si radunarono in quella piccola stanza, la gente uscì, il momento era giunto. La bara aperta sembrava un abisso nero in cui Ada doveva sprofondare. Arturo ebbe uno strappo al cuore quando sentì i bulloni girare per sigillare la cassa. Quando tutto fu pronto, Arturo esitò, parve non ancora pronto a lasciare quel centro di gravità con il quale aveva condiviso le innumerevoli sabbie mobili della vita. L’onnipresente Carmela lo prese sottobraccio e provò a confortarlo. Lui parve sul momento rassegnarsi a lasciarla andare.
Quando i quattro furono pronti a caricarsi sulle spalle Ada, Arturo mosse una richiesta: -La voglio portare anch’io la mia Ada.
Gino cercò di dissuaderlo, ma Arturo si mise ad ostacolo sulla porta d’ingresso.
-E’ mia moglie, non la lascio da sola, lei non lo vorrebbe.
-Le scale sono strette, bisogna avere perizia ed essere affiatati, non è cosa semplice, noi lo facciamo come mestiere- provò a dire Gino.
Gli altri della squadra stavano in silenzio, ma ognuno pensava che stessero perdendo tempo e che il tempo in più certo non sarebbe stato pagato. Carmela provò a portarlo verso la ragione, ma Arturo fu irremovibile, o la bara scendeva con lui o non sarebbe scesa. La paura di Gino era che avesse un cedimento: pareva ancora un uomo forte, ma provato e lui sapeva per esperienza che la sofferenza taglia le gambe.
-Va bene ,faremo come vuole Lei signor Arturo.
Gino guardò i suoi uomini li conosceva e sapeva che chi fosse stato eliminato non sarebbe stato felice, non tanto per il lavoro quanto per il fatto di essere escluso. Gino non voleva problemi sul lavoro, i malumori creano musi lunghi e insofferenze, aveva formato lui la squadra e ne aveva viste già troppe di squadre dissolversi per un ‘inezia. In pochi anni sarebbe andato in pensione e voleva farlo con gente con cui avesse almeno un minimo di rapporto. Per un attimo guarda Carlo, Giuseppe, Dino.
-Lei signor Arturo prenderà il mio posto, io vi precederò. Mi raccomando, deve stare attento a tutti i miei suggerimenti.
Arturo annuì, sommerso da un dolore così forte che ogni cosa detta arrivava rallentata. I tre più l’aggiunto Arturo si misero in posizione e al tre la bara si alza, poi piano si muove per uscire dalla stanza. Usciti sul ballatoio Gino come un vigile dirigeva contando ad alta voce i gradini. Le scale strette sono fatte per i vivi non per portare sulle spalle i morti. Arturo era accanto a Carlo che cercava di fare la cosa giusta caricandosi la parte maggiore del peso: l’anziano sembrava in trance, avanzava con gli occhi chiusi, una foglia schiacciata dal peso dell’inverno. Arrivati nel cortile Gino gli chiese se volesse il cambio, ma lui non rispose scosse solo la testa in senso contrario. Nel cortile molte gente, qualcuno toccò la bara, una donna aveva le mani giunte in segno di preghiera, un’altra dei fiori in mano che Gino rapido raccolse. Da quella casa diroccata che sembrava aver scampato una guerra uscirono tutti per salutare Ada . Arturo aveva gli occhi sofferenti tolti per pudore al pianto, la gente lo voleva aiutare, ma lui li scostò, la morte quel giorno era un affare solo suo.
Si scorgeva nelle trame nel cielo uno spazio di luce, ma Arturo vedeva solo quella cassa di legno deposta con sopra dei fiori.
Finito il lavoro Gino ritornò con la sua squadra: Arturo rimase al cimitero, li aveva voluti ringraziare uno per uno per averlo accontentato e quando Gino lo vide cercare nelle tasche era troppo tardi per fermarlo. Arturo consegnò nascondendo nella mano pochi stropicciati soldi come se fossero diamanti.
Se il tempo della morte rimane nella testa dei vivi diventa un acido che corrode ogni pensiero, istintivamente bisogna riprendere a respirare senza sentire il suono del dolore. I quattro tornando verso casa avvertirono la necessità di ubriacarsi di vita parlando di tutto, di calcio e di donne e perfino di musica. Il tempo della vita risorgeva con la sua divisione di torti e di ingiustizie da restituire, di soldi da mettere da parte, di vacanze da progettare, di bollette da pagare. Arrivati in sede Carlo scappò ad una partita di calcetto con gli amici, Giuseppe doveva incontrarsi con la ragazza e Dino, specialista degli incontri virtuali, aveva pescato una ragazza e stava provando a farla abboccare all’amo con frasi copiate e ricette di cucina. Non è facile per uno che fa il loro mestiere avere una ragazza la superstizione li fa allontanare dal consorzio civile. Le donne appena sanno il lavoro che fanno storcono il naso e allora bisogna dar fiato al mentire come fa Dino che si definisce “libero professionista” e poi sperare che col tempo qualcuna si abitui.
Mentre tutti se ne andarono Gino si bevve un caffè dalla macchinetta della ditta e poi controllò un’ultima volta la macchina: tutto pareva a posto, ma notò un bigliettino su carta povera, lo raccolse e lesse “Signora Tarzi vedova Maini “. Perplesso lo guardò e stava per gettarlo quando un’illuminazione lo colse. In quel fragile palazzo una donna anziana gli si era avvicinata dicendogli: - Io vorrei prenotarmi, posso?
Gino in quel trambusto l’aveva ascoltata a metà: - Prenotarsi per cosa signora?
La donna era seria e mentre in quel cortile si svolgeva una celebrazione popolare lei chiedeva di prenotarsi per una morte come quella della signora Ada.
-E’ stata una bella cerimonia, voglio morire proprio cosi. Capisce la mia scrittura? La portinaia l’avviserà quando la mia vita giungerà al termine.
Diamine non c’era tempo in quel trambusto per un’altra stranezza. Gino aveva annuito salutando con rispetto la vecchina e facendo finta di leggere il biglietto per poi gettarlo nel fondo della sua tasca. Il tutto era durato più o meno forse due minuti. Doveva essere uscito dalla tasca quando se l’era tolta o magari quando aveva preso il pacchetto di sigarette.
Tornando a casa pensò ancora di gettare il biglietto, ma all’ultimo ci ripensò, meglio non scherzare con la morte. Prenotarsi per la morte era certo cosa bizzarra, quella sera avrebbe avuto da raccontare qualcosa di diverso a sua moglie. Stavolta a lei che non voleva sentire parlare del suo lavoro, non avrebbe raccontato di pianti o di dolore, ma di una storia inaspettata. Invece di guardare finire le macerie di una sera come mille altre, avrebbe narrato di un appuntamento promesso a una signora che si era inventata la prenotazione da viva per la morte.
Dopo qualche giorno ripassò da quel quartiere ed entrò nel palazzo. C’era la solita Carmela che battagliava con degli inquilini per la raccolta differenziata. Si accorse subito di lui e con fare da civetta si sciolse i capelli e si avvicinò.
- Quale cattiva notizia la porta qui?
Gino andò subito al punto e chiese della signora anziana, voleva saperne di più, ma lei rispose che a quel nome non corrispondeva nessuno del palazzo e per dimostrarlo tirò fuori l’elenco dei condomini dove nessuno corrispondeva a quel nome.
Uscì ringraziando con un sorriso amaro, con passi insicuri e con in testa la voce di quella piccola donna. Cosa diavolo ci faceva in quel quartiere abbandonato con facce calpestate da vite complicate? Lui che si era abituato a sostare con sulle spalle la morte ora si trovava smarrito sperando di avere qualche notizia su una vecchietta con gli occhiali e la voce sottile che aveva scritto due righe con scrittura incerta per prenotarsi anticipando la morte. Forse era stanco e se l’era immaginata o forse il biglietto era di chissà quale altro cliente. Probabilmente si era confuso. forse era come diceva sua moglie davvero esaurito. Quando si fa un lavoro con la morte l’immaginazione ti aiuta a essere da altre parti mentre sei immerso in un mare salato delle lacrime. Ma se non fosse stata solo una sua fantasia? Se fosse invece la realtà? Gino alzò gli occhi e tra gli scuri delle persiane intravide una luce: magari era lì che abitava, o forse era solo bello pensare cosa stava facendo, mangiava o magari stava facendo i mestieri o litigando da sola con i ricordi. Forse era una fata, di quelle che si dice ogni tanto appaiono: la regina saggia del quartiere, divenuta senza accorgersene anziana che ora spendeva il tempo della vita in un palazzo dalle mille ferite, con anime disorientate, urlanti, che cercavano di sollevarsi da terra, promettendo a tutti meno che a loro stessi di cambiare vita, ma poi rimanevano incollati, immobili, fermi , come una macchia d’ umidità appesa al muro.