Dentro la pelle
Posted: Wed Apr 14, 2021 8:40 pm
commento
Edward stringeva fra le sue la mano della madre, era pallida e ossuta, la pelle semitrasparente lasciava intravedere le vene che, come sottili fili bluastri, si intrecciavano l'uno con l'altro. Il respiro di Augusta era faticoso, un rantolo che le scuoteva il petto magro e incavato. Fuori la neve scendeva silenziosa, in casa l'unico rumore che si udiva era l'ansito rasposo della donna. Quando di colpo cessò Edward si chinò su di lei, la chiamò forte, le scosse le spalle, la sollevò fra le braccia, ma Augusta pendeva inerte come una bambola di pezza. Con il fiato tagliato dai singhiozzi Edward la adagiò di nuovo sul letto, le pettinò i capelli grigi e sottili in una treccia, le giunse le mani in grembo e solo alla fine le mise il capo sul seno e pianse fino a perdere la voce.
Quando giunse l'estate Edward non se ne curò, non partecipò alla festa di coloro che erano tornati dal fronte carichi di racconti sulle loro prodezze militari e sentimentali. Nei rari viaggi che faceva a Plainfield ascoltava con le orecchie ferite dal disgusto le storie dei reduci che avevano lasciato in Italia cuori infranti e grembi colmi.
Quando tornava nella sua remota fattoria parlava a sua madre, ne sentiva la voce ogni momento. Eppure lei non c'era più, giaceva sotto due metri di terra nel cimitero del paese. E lui era solo, solo come un cane con la rogna.
La solitudine gli pesava addosso come un cappotto di cemento. I pochi vicini che lo assumevano per badare ai figli mentre loro erano al lavoro gli rivolgevano la parola solo per lo stretto indispensabile.
Nemmeno i bambini bastavano a lenire il vuoto che Edward aveva dentro. Aveva sempre trovato più facile parlare con loro che con gli adulti: a cinque o sei anni le anime erano ancora candide, pure, non traviate dal mondo e dalle sue sozzure. Il linguaggio dei bambini era semplice, chiaro, pulito, nessun doppio senso, nessuna malizia, nessun sotterfugio.
Sua madre lo diceva sempre che il mondo rovinava le creature di Dio, tutti erano condannati a perdersi, a essere dannati. Edward temeva che, senza sua madre a guidarlo, anche lui sarebbe caduto nelle spire della tentazione e quante volte ci era andato vicino, salvato solo dal pronto intervento di Augusta e dalle sue mani svelte?
Le stagioni vennero e andarono, Edward continuò ad arrangiarsi come aveva sempre fatto, con lavori saltuari e malpagati, tanto per vivere gli bastava poco: sua madre diceva sempre che il lusso è padre del vizio. A Edward lei mancava quanto il giorno in cui era morta, gli mancavano le sue raccomandazioni, le sue abitudini, tutto, non riusciva a vivere senza di lei. Un giorno, mentre passeggiava nei campi ebbe una folgorazione: doveva diventare sua madre, solo così si sarebbe salvato.
Edward attese l'autunno, avrebbe sfruttato le lunghe ore di buio per iniziare la propria impresa. Una sera d'ottobre prese la pala e s'incamminò verso il cimitero, gironzolò fra le tombe, le scarpe affondavano nella terra infradiciata dalle piogge dei giorni precedenti. Con la torcia illuminava le lapidi di pietra finché un nome non lo colpì: Chastity Warren. Sì, quella donna sarebbe stata perfetta.
Scavò in silenzio e con metodo fino a scoprire la bara di assi marcite. Della povera Chastity non era rimasto molto, a dire il vero, solo un mucchio di ossa ripulite dai vermi e dagli insetti. Edward prese in mano il teschio e lo ripulì dal terriccio, sotto la luce della torcia riluceva di un delicato color biancastro. In un momento decise che sarebbe stato benissimo sopra la testiera del letto.
Più di un anno dopo, Edward era coricato e pronto per la notte, con orgoglio carezzò il paralume che gettava una debole luce rosata nella stanza. Ci era voluto tempo per lavorare la pelle: aveva dovuto tagliarla via dalle ossa e fragile com'era ne aveva sprecata parecchia prima di prenderci la mano. Quando era riuscito a ottenerne una quantità decente, l'aveva ammorbidita e lavata per darle una consistenza più levigata, l'aveva sbiancata nel cloro per conferirle un colore più naturale e solo alla fine l'aveva conciata. Molti esperimenti erano falliti per errori di formulazione, ma ormai era sulla strada giusta.
Conservava la frutta in una casseruola ricavata dal torso di una vecchia signora, da cui aveva ricavato anche le ossa usate come gambe per una seggiola; una donna più giovane aveva fornito il necessario per la seduta e lo schienale.
Edward sospirò al pensiero delle chiacchiere che erano iniziate a Plainfield: un paio di visitatori inopportuni erano entrati in casa prima che lui avesse il tempo di uscire sul portico e, dal vestibolo, avevano intravisto un paio delle creazioni che teneva in cucina. Oltretutto nelle ultime due incursioni al cimitero non aveva coperto bene le tracce, era stanco e aveva peccato di pigrizia. Avrebbe dovuto essere prudente e attendere; sua madre diceva sempre che la pazienza è una delle virtù dei santi: aspettando avrebbe espiato il proprio peccato.
Edward pazientò cinque anni prima di agire. Per tutto quel tempo si accontentò di manufatti minori, in attesa di mettere in atto il suo grande progetto. Scartò innumerevoli potenziali donne prima di trovare quella giusta: non doveva essere troppo magra, ma nemmeno troppo grassa, la pelle doveva essere ancora tonica, e poi la voleva sulla cinquantina, un'età di mezzo fra la sua e quella di sua madre.
Di fare quel che aveva in mente su un cadavere sepolto da tempo non se ne parlava, occorreva una donna viva, un corpo cedevole e pulsante. Quando una sera d'autunno vide Mary Hogan uscire dall'unica locanda di Pine Grove capì d'aver fatto bene ad attendere.
Lavorare una pelle fresca fu molto più facile. Per giorni rimase chiuso nel fienile a tagliare, lavare, strofinare, immergere, asciugare e conciare; l'aria era pungente per via del cloro e dell’acido borico, ma gli occhi arrossati e la tosse continua erano un buon prezzo da pagare per tornare nel ventre confortevole di sua madre.
Dopo giorni di fatica Edward diede l'ultimo punto al corsetto che si era cucito, infilò l'ago nel puntaspilli e sollevò la propria opera: il bustino era liscio, morbido, di un bel colore grigio rosa e gli sarebbe stato alla perfezione. Si affrettò a riordinare il piano di lavoro, chiuse il fienile e corse in casa, nel freddo della sua camera mal riscaldata si spogliò e si legò il corsetto sopra il petto magro, si rimirò nello specchio dell'armadio e sentì che sua madre non era mai stata così vicina a lui.
Nei mesi successivi disegnò diversi cartamodelli, voleva un abito intero, qualcosa che lo coprisse dalla testa ai piedi, che lo rendesse Augusta, aveva bisogno d'essere ricoperto di pelle femminile, un bisogno vitale quanto quello dell'ossigeno, ma doveva aspettare ancora; del resto sua madre lo diceva sempre che le tribolazioni sono segno dell'amore di Dio.
Tutti a Plainfield dicevano che Edward fosse stupido, ma lui sapeva di essere intelligente quanto un altro, forse di più; non aveva forse profanato tombe per anni fermandosi prima di essere anche solo sospettato? Non era stato in grado di far sparire qualche vagabondo per tenersi in esercizio (e comunque i vicini lo avevano ringraziato tanto per quella buona carne di cervo) senza mai suscitare un pensiero allo sceriffo? Edward ascoltava le loro chiacchiere, le congetture sulla sorte di Mary Hogan, l'affannarsi delle autorità e nessuno immaginava che parte di Mary fosse addosso a lui, ben nascosta sotto la camicia di flanella a quadrettoni. A volte gli veniva il desiderio di confessare, quanto meno per dar pace alla famiglia di quella donna, ma sapeva che nessuno avrebbe capito, solo sua madre era stata in grado di comprenderlo, così Edward attese che il clamore cessasse.
Quella fredda sera di novembre nevicava e faceva freddo, il vento soffiava forte e sollevava la neve in mulinelli. Edward s'appoggiò al tavolo nel fienile guardando Bernice Warden appesa e squoiata come un cervo, pronta per essere conciata. Una volta terminato con lei non avrebbe avuto più bisogno di uccidere nessuno, la sua pelle sarebbe stata sufficiente per confenzionarsi un abito. Bernice era una donna in carne, ma non obesa, la sua pelle era morbida e setosa; aveva trovato mille scuse per andare nel suo negozio di ferramenta per testarla con sicurezza. Una stretta di mano qua, una al braccio là. Bernice era materna, tutto in lei lo diceva: gli occhiali tondi, gli abiti comodi, i modi gentili specie verso suo figlio Frank. Con lei Edward ---sarebbe rinato. La sua felicità sarebbe stata completa se non avesse dovuto andare ad Almond a prendere della soda caustica. Non riusciva a risolversi a lasciare lì la donna, sentiva la necessità impellente di toccarla, di aprirla e farsi avvolgere da quei metri e metri di pelle rosa, ma il giorno seguente i negozi sarebbero stati chiusi. Non poteva lasciar passare troppo tempo. Con un sospiro di dolore le carezzò le caviglie sottili poi s'avviò verso la vecchia Ford.
Quando tornò, un paio di ore dopo, davanti alla fattoria c'erano tre macchine con i lampeggianti accesi, appena li vide Edward saltò giù dall'auto e iniziò a correre verso il fienile, ma dopo pochi passi lo sceriffo Shiley gli si piazzò davanti, la mano sul calcio della pistola. «Ed, sei nei guai fino al collo...» Edward lo ascoltò appena e tentò di scartare di lato. «Fermo qui, non costringermi a usare la forza,» disse mentre gli afferrava la spalla.
«Arthur, fammi andare da lei, ti prego,» bisbigliò, sentiva il corpo prudergli dal bisogno spasmodico di stringere Bernice.
«Ed, sei stato tu a uccidere Bernice Worden?»
«Sì,» confessò senza esitare. «Dovevo farlo, capisci? Avevo bisogno di loro, ho bisogno di lei.»
«Di Bernice?» Arthur gli passò una mano attorno alla vita guidandolo verso l'autopattuglia.
«Sì, no. Loro erano il mezzo, erano l'unica strada che mi era rimasta.» Parlava in fretta, torcendo le mani, il collo girato verso il fienile, il corpo teso all'indietro. «Ti prego, Arthur, portami là.»
Lo sceriffo lo prese per le spalle. «Hai ammazzato la madre di Frank Worden come se fosse una bestia, sei fortunato che sia venuto io, un altro non sarebbe così gentile con te. Devo portarti in centrale e che Dio abbia pietà di te, Ed.» Edward chinò il capo e una lacrima gli colò lungo la guancia.
Arthur Schiley pensava di averle già viste e sentite tutte mentre era in guerra, gli era toccato combattere durante la liberazione della Germania e credeva che niente fosse peggio di quel che aveva visto a Buchenwald, ma si era dovuto ricredere. Ora osservava Ed: sedeva sulla panca rattrappito, le spalle curve e lo sguardo spento, come un bambino in attesa della punizione.
Fuori la gente urlava che doveva gettare Edward sulla East North così da poterlo linciare e non poteva davvero biasimarli. Il timido, silenzioso Ed li aveva fatti fessi tutti: solitario, eccentrico, vessato, effeminato, spostato, era stato definito così e molto peggio, ma nessuno, mai, aveva sospettato che fosse un omicida e di che specie poi.
Arthur sentì il peso della colpa sulla schiena, negli anni precedenti qualcuno aveva mormorato che Edward profanasse tombe, qualcuno aveva sostenuto di averlo visto, altri avevano detto che in casa teneva oggetti di dubbia provenienza, ma nessuno era mai andato oltre la porta e che diavolo si poteva mai capire da una sbirciatina ? Arthur non amava le chiacchiere, specie quelle ai danni dei poveracci come Edward, ma ora si rese conto che se le avesse ascoltate Bernice e Mary sarebbero state ancora vive.
Arthur aprì la cella, entrò e richiuse la porta dietro le spalle, poi si sedette di fronte a Edward.
«Dimmi perché, perché hai ammazzato quelle due povere anime?» chiese, le mani strette a pugno.
Edward lo fissò a lungo, i suoi occhi azzurro slavato, grandi e spaventati sembravano quelli di un ragazzino.
«La mamma era morta e io avevo così bisogno di lei, ero così solo, Arthur, così solo...» Strizzò le palpebre mentre le grida da fuori montavano. Lo sceriffo tacque, paziente. «Lei era l'unica che mi capiva, l'unica che mi diceva cosa fare e che mi proteggeva. Quando se n'è andata ho pensato che se avessi potuto entrare nella pelle di una donna sarei stato ancora con mia madre, sarei stato lei. Mi capisci?»
Arthur non capì.
Edward stringeva fra le sue la mano della madre, era pallida e ossuta, la pelle semitrasparente lasciava intravedere le vene che, come sottili fili bluastri, si intrecciavano l'uno con l'altro. Il respiro di Augusta era faticoso, un rantolo che le scuoteva il petto magro e incavato. Fuori la neve scendeva silenziosa, in casa l'unico rumore che si udiva era l'ansito rasposo della donna. Quando di colpo cessò Edward si chinò su di lei, la chiamò forte, le scosse le spalle, la sollevò fra le braccia, ma Augusta pendeva inerte come una bambola di pezza. Con il fiato tagliato dai singhiozzi Edward la adagiò di nuovo sul letto, le pettinò i capelli grigi e sottili in una treccia, le giunse le mani in grembo e solo alla fine le mise il capo sul seno e pianse fino a perdere la voce.
Quando giunse l'estate Edward non se ne curò, non partecipò alla festa di coloro che erano tornati dal fronte carichi di racconti sulle loro prodezze militari e sentimentali. Nei rari viaggi che faceva a Plainfield ascoltava con le orecchie ferite dal disgusto le storie dei reduci che avevano lasciato in Italia cuori infranti e grembi colmi.
Quando tornava nella sua remota fattoria parlava a sua madre, ne sentiva la voce ogni momento. Eppure lei non c'era più, giaceva sotto due metri di terra nel cimitero del paese. E lui era solo, solo come un cane con la rogna.
La solitudine gli pesava addosso come un cappotto di cemento. I pochi vicini che lo assumevano per badare ai figli mentre loro erano al lavoro gli rivolgevano la parola solo per lo stretto indispensabile.
Nemmeno i bambini bastavano a lenire il vuoto che Edward aveva dentro. Aveva sempre trovato più facile parlare con loro che con gli adulti: a cinque o sei anni le anime erano ancora candide, pure, non traviate dal mondo e dalle sue sozzure. Il linguaggio dei bambini era semplice, chiaro, pulito, nessun doppio senso, nessuna malizia, nessun sotterfugio.
Sua madre lo diceva sempre che il mondo rovinava le creature di Dio, tutti erano condannati a perdersi, a essere dannati. Edward temeva che, senza sua madre a guidarlo, anche lui sarebbe caduto nelle spire della tentazione e quante volte ci era andato vicino, salvato solo dal pronto intervento di Augusta e dalle sue mani svelte?
Le stagioni vennero e andarono, Edward continuò ad arrangiarsi come aveva sempre fatto, con lavori saltuari e malpagati, tanto per vivere gli bastava poco: sua madre diceva sempre che il lusso è padre del vizio. A Edward lei mancava quanto il giorno in cui era morta, gli mancavano le sue raccomandazioni, le sue abitudini, tutto, non riusciva a vivere senza di lei. Un giorno, mentre passeggiava nei campi ebbe una folgorazione: doveva diventare sua madre, solo così si sarebbe salvato.
Edward attese l'autunno, avrebbe sfruttato le lunghe ore di buio per iniziare la propria impresa. Una sera d'ottobre prese la pala e s'incamminò verso il cimitero, gironzolò fra le tombe, le scarpe affondavano nella terra infradiciata dalle piogge dei giorni precedenti. Con la torcia illuminava le lapidi di pietra finché un nome non lo colpì: Chastity Warren. Sì, quella donna sarebbe stata perfetta.
Scavò in silenzio e con metodo fino a scoprire la bara di assi marcite. Della povera Chastity non era rimasto molto, a dire il vero, solo un mucchio di ossa ripulite dai vermi e dagli insetti. Edward prese in mano il teschio e lo ripulì dal terriccio, sotto la luce della torcia riluceva di un delicato color biancastro. In un momento decise che sarebbe stato benissimo sopra la testiera del letto.
Più di un anno dopo, Edward era coricato e pronto per la notte, con orgoglio carezzò il paralume che gettava una debole luce rosata nella stanza. Ci era voluto tempo per lavorare la pelle: aveva dovuto tagliarla via dalle ossa e fragile com'era ne aveva sprecata parecchia prima di prenderci la mano. Quando era riuscito a ottenerne una quantità decente, l'aveva ammorbidita e lavata per darle una consistenza più levigata, l'aveva sbiancata nel cloro per conferirle un colore più naturale e solo alla fine l'aveva conciata. Molti esperimenti erano falliti per errori di formulazione, ma ormai era sulla strada giusta.
Conservava la frutta in una casseruola ricavata dal torso di una vecchia signora, da cui aveva ricavato anche le ossa usate come gambe per una seggiola; una donna più giovane aveva fornito il necessario per la seduta e lo schienale.
Edward sospirò al pensiero delle chiacchiere che erano iniziate a Plainfield: un paio di visitatori inopportuni erano entrati in casa prima che lui avesse il tempo di uscire sul portico e, dal vestibolo, avevano intravisto un paio delle creazioni che teneva in cucina. Oltretutto nelle ultime due incursioni al cimitero non aveva coperto bene le tracce, era stanco e aveva peccato di pigrizia. Avrebbe dovuto essere prudente e attendere; sua madre diceva sempre che la pazienza è una delle virtù dei santi: aspettando avrebbe espiato il proprio peccato.
Edward pazientò cinque anni prima di agire. Per tutto quel tempo si accontentò di manufatti minori, in attesa di mettere in atto il suo grande progetto. Scartò innumerevoli potenziali donne prima di trovare quella giusta: non doveva essere troppo magra, ma nemmeno troppo grassa, la pelle doveva essere ancora tonica, e poi la voleva sulla cinquantina, un'età di mezzo fra la sua e quella di sua madre.
Di fare quel che aveva in mente su un cadavere sepolto da tempo non se ne parlava, occorreva una donna viva, un corpo cedevole e pulsante. Quando una sera d'autunno vide Mary Hogan uscire dall'unica locanda di Pine Grove capì d'aver fatto bene ad attendere.
Lavorare una pelle fresca fu molto più facile. Per giorni rimase chiuso nel fienile a tagliare, lavare, strofinare, immergere, asciugare e conciare; l'aria era pungente per via del cloro e dell’acido borico, ma gli occhi arrossati e la tosse continua erano un buon prezzo da pagare per tornare nel ventre confortevole di sua madre.
Dopo giorni di fatica Edward diede l'ultimo punto al corsetto che si era cucito, infilò l'ago nel puntaspilli e sollevò la propria opera: il bustino era liscio, morbido, di un bel colore grigio rosa e gli sarebbe stato alla perfezione. Si affrettò a riordinare il piano di lavoro, chiuse il fienile e corse in casa, nel freddo della sua camera mal riscaldata si spogliò e si legò il corsetto sopra il petto magro, si rimirò nello specchio dell'armadio e sentì che sua madre non era mai stata così vicina a lui.
Nei mesi successivi disegnò diversi cartamodelli, voleva un abito intero, qualcosa che lo coprisse dalla testa ai piedi, che lo rendesse Augusta, aveva bisogno d'essere ricoperto di pelle femminile, un bisogno vitale quanto quello dell'ossigeno, ma doveva aspettare ancora; del resto sua madre lo diceva sempre che le tribolazioni sono segno dell'amore di Dio.
Tutti a Plainfield dicevano che Edward fosse stupido, ma lui sapeva di essere intelligente quanto un altro, forse di più; non aveva forse profanato tombe per anni fermandosi prima di essere anche solo sospettato? Non era stato in grado di far sparire qualche vagabondo per tenersi in esercizio (e comunque i vicini lo avevano ringraziato tanto per quella buona carne di cervo) senza mai suscitare un pensiero allo sceriffo? Edward ascoltava le loro chiacchiere, le congetture sulla sorte di Mary Hogan, l'affannarsi delle autorità e nessuno immaginava che parte di Mary fosse addosso a lui, ben nascosta sotto la camicia di flanella a quadrettoni. A volte gli veniva il desiderio di confessare, quanto meno per dar pace alla famiglia di quella donna, ma sapeva che nessuno avrebbe capito, solo sua madre era stata in grado di comprenderlo, così Edward attese che il clamore cessasse.
Quella fredda sera di novembre nevicava e faceva freddo, il vento soffiava forte e sollevava la neve in mulinelli. Edward s'appoggiò al tavolo nel fienile guardando Bernice Warden appesa e squoiata come un cervo, pronta per essere conciata. Una volta terminato con lei non avrebbe avuto più bisogno di uccidere nessuno, la sua pelle sarebbe stata sufficiente per confenzionarsi un abito. Bernice era una donna in carne, ma non obesa, la sua pelle era morbida e setosa; aveva trovato mille scuse per andare nel suo negozio di ferramenta per testarla con sicurezza. Una stretta di mano qua, una al braccio là. Bernice era materna, tutto in lei lo diceva: gli occhiali tondi, gli abiti comodi, i modi gentili specie verso suo figlio Frank. Con lei Edward ---sarebbe rinato. La sua felicità sarebbe stata completa se non avesse dovuto andare ad Almond a prendere della soda caustica. Non riusciva a risolversi a lasciare lì la donna, sentiva la necessità impellente di toccarla, di aprirla e farsi avvolgere da quei metri e metri di pelle rosa, ma il giorno seguente i negozi sarebbero stati chiusi. Non poteva lasciar passare troppo tempo. Con un sospiro di dolore le carezzò le caviglie sottili poi s'avviò verso la vecchia Ford.
Quando tornò, un paio di ore dopo, davanti alla fattoria c'erano tre macchine con i lampeggianti accesi, appena li vide Edward saltò giù dall'auto e iniziò a correre verso il fienile, ma dopo pochi passi lo sceriffo Shiley gli si piazzò davanti, la mano sul calcio della pistola. «Ed, sei nei guai fino al collo...» Edward lo ascoltò appena e tentò di scartare di lato. «Fermo qui, non costringermi a usare la forza,» disse mentre gli afferrava la spalla.
«Arthur, fammi andare da lei, ti prego,» bisbigliò, sentiva il corpo prudergli dal bisogno spasmodico di stringere Bernice.
«Ed, sei stato tu a uccidere Bernice Worden?»
«Sì,» confessò senza esitare. «Dovevo farlo, capisci? Avevo bisogno di loro, ho bisogno di lei.»
«Di Bernice?» Arthur gli passò una mano attorno alla vita guidandolo verso l'autopattuglia.
«Sì, no. Loro erano il mezzo, erano l'unica strada che mi era rimasta.» Parlava in fretta, torcendo le mani, il collo girato verso il fienile, il corpo teso all'indietro. «Ti prego, Arthur, portami là.»
Lo sceriffo lo prese per le spalle. «Hai ammazzato la madre di Frank Worden come se fosse una bestia, sei fortunato che sia venuto io, un altro non sarebbe così gentile con te. Devo portarti in centrale e che Dio abbia pietà di te, Ed.» Edward chinò il capo e una lacrima gli colò lungo la guancia.
Arthur Schiley pensava di averle già viste e sentite tutte mentre era in guerra, gli era toccato combattere durante la liberazione della Germania e credeva che niente fosse peggio di quel che aveva visto a Buchenwald, ma si era dovuto ricredere. Ora osservava Ed: sedeva sulla panca rattrappito, le spalle curve e lo sguardo spento, come un bambino in attesa della punizione.
Fuori la gente urlava che doveva gettare Edward sulla East North così da poterlo linciare e non poteva davvero biasimarli. Il timido, silenzioso Ed li aveva fatti fessi tutti: solitario, eccentrico, vessato, effeminato, spostato, era stato definito così e molto peggio, ma nessuno, mai, aveva sospettato che fosse un omicida e di che specie poi.
Arthur sentì il peso della colpa sulla schiena, negli anni precedenti qualcuno aveva mormorato che Edward profanasse tombe, qualcuno aveva sostenuto di averlo visto, altri avevano detto che in casa teneva oggetti di dubbia provenienza, ma nessuno era mai andato oltre la porta e che diavolo si poteva mai capire da una sbirciatina ? Arthur non amava le chiacchiere, specie quelle ai danni dei poveracci come Edward, ma ora si rese conto che se le avesse ascoltate Bernice e Mary sarebbero state ancora vive.
Arthur aprì la cella, entrò e richiuse la porta dietro le spalle, poi si sedette di fronte a Edward.
«Dimmi perché, perché hai ammazzato quelle due povere anime?» chiese, le mani strette a pugno.
Edward lo fissò a lungo, i suoi occhi azzurro slavato, grandi e spaventati sembravano quelli di un ragazzino.
«La mamma era morta e io avevo così bisogno di lei, ero così solo, Arthur, così solo...» Strizzò le palpebre mentre le grida da fuori montavano. Lo sceriffo tacque, paziente. «Lei era l'unica che mi capiva, l'unica che mi diceva cosa fare e che mi proteggeva. Quando se n'è andata ho pensato che se avessi potuto entrare nella pelle di una donna sarei stato ancora con mia madre, sarei stato lei. Mi capisci?»
Arthur non capì.