Trentuno milioni di fiori rossi
Posted: Sat Apr 10, 2021 4:25 pm
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Il pacco cade a terra con un colpo sordo, sollevando uno sbuffo di polvere appena visibile nella luce tenue della lampadina.
Uno degli uomini, già sulla voglia, si volta e lo guarda, poi solleva lo sguardo, incrociando quello dei tre impiegati.
«Questo ve lo regaliamo. Diviso per tre v’intascate cinquecentomila a testa» dice, e corre via ridendo.
Passi. Schioccano sul marmo dell'atrio. Attorno a questo suono secco ne sfarfalla un'altra ridda. Una porta a vetri sbatte, voci sputano ordini, minacce, bestemmie. Il tumulto, però, s’azzittisce sulla soglia, dove, di tutta la cagnara, rimane solo una domanda
«Quanto?». La bocca che parla è un taglio di coltello, il naso è la lama. Attorno ai tratti affilati s’agglomera un uomo massiccio, i capelli lisciati all'indietro, avviluppato nella camicia nera. Tiene le maniche tirate sugli avambracci. Caldo, fuori.
«Trentadue milioni e mezzo» risponde uno dei suoi. L'uomo fa uno, due, tre passi dentro la stanza. Si china. L'orlo dei pantaloni rivela un paio di scarpe luccicanti, da sera. Allunga la mano e raccoglie il pacco avvolto nella carta marrone. Nessuno dei tre impiegati ha osato toccarlo. Tira lo spago, la carta si svolge. Frusciando, una manciata di banconote da mille plana sul pavimento.
«Trentuno» dice l'uomo. Un attimo dopo i suoi occhi fanno una fulminea, triplice, sponda. Orologio al muro, segna ventidue e quattro minuti, casseforti, spalancate, gli sportelli come lingue a penzoloni, i tre impiegati. Si rialza, fa altri tre passi avanti. I suoi uomini sciamano nella stanza, qualcuno anche lui in camicia nera, qualcun altro in abiti civili. Quelli in uniforme han tutti il mitra al collo.
«Quando?» chiede al più anziano dei tre impiegati, poggiando la mazzetta di banconote sulla scrivania. L'impiegato gira il cranio calvo e guarda anche lui l'orologio, poi, con una mano tremante si toglie gli occhiali.
«Verso le nove e mezza» dice.
Il capo delle camicie nere s’infila le mani in tasca, si dondola sulle punte dei piedi. Il vecchio impiegato tiene lo sguardo fisso sul piano della scrivania, le mani sotto, nascoste, ma lui può ancora sentirle tremare dalle vibrazioni che emettono. Si volta verso sinistra. L’impiegato di mezz’età ha il volto lucido, i capelli sfatti, le borse, sotto gli occhi, dello stesso colore delle macchie d'inchiostro sul colletto della camicia. Non dorme. Ma chi è che dorme, a Firenze. Il caldo, la fame, la sirena. Per un motivo o per l'altro son tutti insonni. L’eco di un treno entra in Santa Maria Novella sferragliando. Arrivano altri insonni.
«Quanti?» gli chiede. L'impiegato alza gli occhi di scatto. Gli tremano le labbra.
«Su, di che hai paura?» butta lì un altro milite.
“Dei soldi che di sicuro s'è intascato – pensa il capo –, di sapere quanto costerà domani l'olio alla borsa nera, che lo portiamo alla villa. Per la paura ha solo l'imbarazzo della scelta”.
«Erano tre» balbetta l'impiegato mentre le mani svitano e avvitano il cappuccio d'una stilografica. Si ode uno scatto, e dal fusto della penna esce una colata d'inchiostro blu. L'impiegato salta indietro, imprecando. Gli puntano addosso un mitra, lui alza le mani e s’imbratta ancora di più.
«Trentun milioni in pezzi da mille pesano, maggiore – dice uno dei militi – in mezz'ora non sono andati lontano».
Il maggiore annuisce. Dalla parte opposta della stanza il terzo impiegato, il giovane, salta in piedi e tende il braccio destro, la mano aperta.
«Erano partigiani» grida. Tutti si voltano a guardarlo.
«Partigiani?» gli chiede il maggiore.
«Partigiani» ribadisce impettito il ragazzo.
«Sicuro?»
Il ragazzo occhieggia a destra e a sinistra sotto il ciuffo biondo.
«Banditi» bercia il maggiore. Le camicie nere scoppiano a ridere.
«E come erano questi banditi?» chiede il maggiore. Il pomo d’Adamo del giovane sussulta. Gocce di sudore gli tracciano “S” acuminate sulle tempie.
«Un fiore» dice. Il maggiore lo guarda aguzzando un sopracciglio.
«Non farmi perdere altro tempo», sibila.
«No, no, signore, è vero. È l'unica cosa che ho visto, signore. Una di loro era una donna, e teneva un fiore rosso fa i capelli». Il maggiore fa un gesto, e i suoi uomini, che si spargono per l'edificio. Lui, invece, si butta a sedere. Ha il volto paonazzo, tira su col naso mentre tamburella le dita sui braccioli della sedia.
Uno dei militi torna di corsa e porge qualcosa al maggiore. Un piccolo fiore rosso. Il maggiore lo tiene fra le dita guardandolo imbronciato. Si alza, si avvicina alla finestra, lo butta di sotto. Fa per tornare al centro della stanza, ma si ferma. Gli è sembrato di sentire un grido, un brivido freddo gli ha sferzato la schiena.
«Se l'ha perso non sappiamo che farcene» dice.
«Sfondate un po' di porte qua attorno – ordina – e portate questi tre in centrale, per vedere se sanno altro». I tre impiegati protestano, ma le loro parole valgono niente.
Domenico si sveglia, salta in piedi, e la pistola che tiene sul petto cade a terra, rimbombando sul pavimento metallico del vagone. Domenico ci schiaffa sopra la mano, e rimane immobile, col fiato strozzato in gola. Fuori, qualcuno si muove fra le pietre, facendole rotolare giù per la massicciata.
Si alza lento, il braccio con la pistola proteso in avanti. Si schiaccia contro la parete del vagone e allunga il collo per guardare fuori. Una figura bassa, scura, è china a metà della massicciata della ferrovia. Domenico si gira dall'altra parte, verso il fondo della carrozza, dietro le casse che la occludono.
«Angela» sussurra. Nessuna risposta.
«Angela» ripete. Ancora niente. Lento, chino sulle gambe, si avvicina alle casse e si sporge oltre di esse.
«Angela, c'è gente» dice, ma di nuovo non ottiene risposta. Certo, dietro le casse non c'è nessuno. Solo le due grandi valigie di cuoio. Rapido, Domenico torna al portellone. La figura è ancora china al bordo dei binari. Una luce appare all'orizzonte, fra le case. Un treno. Il fischio fa alzare la figura, e a quel punto Domenico riconosce Angela. Prima che il treno gli punti addosso i fari la donna raggiunge il vagone e vi si issa. Fa per tornare verso il fondo del vagone, Domenico la blocca. Angela abbassa lo sguardo, scoprendo la pistola che tiene in pugno.
«Ma che fai?» le chiede. Angela apre la mano sinistra e rivela un esile stelo al termine del quale sbocciano cinque petali color sangue. Sorride, e s’incastra il fiore fra i capelli, proprio sopra l'orecchio.
«Hai lasciato incustodita la valigia» le dice Domenico. Angela sospira.
«C'eri tu» dice. Domenico si passa la mano sulla faccia, e poi si affaccia di nuovo fuori. I primi raggi di sole schiariscono i contrafforti della Fortezza.
«Cambiamoci – dice Domenico – vai prima tu». Angela sparisce dietro le casse, e per alcuni minuti il vagone si riempie dell'accatastarsi dei suoi sospiri e dei fruscii dei suoi vestiti. Il calzare di una scarpa, lo schioccare di una clip, un colpo di tosse. Un raggio di sole scavalla il mastio del forte e finisce a spegnersi sulla ruggine del vagone. Angela riappare. Indossa una gonna bianca, una camicetta dello stesso colore e, sulla testa, un cerchietto attorno a cui è avvolta una fascia di organza punteggiata di piccoli fiori bianchi, abbastanza appassiti da sfigurare a fronte di quello appena colto.
«Stona» le dice Domenico indicandolo. Angela da di spalle.
«É un tocco in più – dice – sennò si vede che è un travestimento». Borbottando Domenico va anche lui a cambiarsi. Quando torna indossa un completo grigio scuro, con una cravatta blu e una camicia bianca. Abbottona la giacca in modo da coprire una brutta macchia gialla sulla cravatta. La camicia è un po' troppo lunga, i polsini gli lambiscono il pollice, ma è l'unica pulita che hanno trovato. Domenico si fruga in tasca e tira fuori due anelli.
«Oro?» gli chiese Angela.
«Sie – biascica Domenico – già rimediare la vernice per laccarli è stato un miracolo». Li infilano, e Domenico va a prendere l'altra valigia. Deve trascinarla tanto è pesante.
«Bisogna portarla in due – dice – da solo non ce la fo». Angela scende dal treno e protende le mani per aiutare il compagno a calare la borsa. Domenico cerca di farla scivolare giù dal vagone, ma non ci riesce. Angela prova a tenerla su, ma le cedono le braccia, e la valigia si schianta a terra. Si spalanca, alcune mazzette rotolano a terra. Domenico spara una bestemmia mentre Angela si affretta a ricacciarle dentro. Un altro treno appare all'orizzonte. Angela richiude la valigia pochi attimi prima che la vettura gli passi davanti. Protetti dal frastuono del treno sollevano la valigia e abbandonano la ferrovia scendendo nei viali sottostanti. La strada corre fra la fortezza e la ferrovia. Alle due estremità sono appostate squadre di camicie nere, che bloccano l'accesso alla circonvallazione. Quella alla loro destra ferma un'anziana signora con modi bruschi. Sulla sinistra, oltre la squadraccia, il loro obiettivo. Una fila di calessi in cui, cullati dallo sbuffare dei cavalli, i vetturini dormono col cappello calato sulla faccia.
Uno dei militi si volta verso di loro, li squadra. Angela stampa un bacio sul volto di Domenico, lui la guarda sorpreso.
«Siamo sposati no?» dice lei. «Sbrighiamoci – aggiunge poi – tanto prima o poi li dobbiamo affrontare». Sollevano di nuovo la valigia e si avviano verso sinistra, in direzione della rampa del Romito. Angela sente l'aria uscirle dai polmoni e non rientrarvi più finché non si trova a camminare in apnea. Firenze era un acquario e qualcuno c’aveva buttato dentro un branco di pescecani, uno dei quali veniva loro incontro. Il braccio le brucia dalla punta del mignolo alla spalla.
“Di certo – pensa – da un momento all'altro mi schianta un tendine, e mi rimane il braccio penzoloni”. Quando torna a guardare in avanti quasi sbatte contro la camicia nera.
«Dove andate?» chiede quello. Domenico si passa un dito nel colletto della camicia. Fa già caldo.
«Siamo in viaggio di nozze» dice Angela sforzandosi di sorridere. Quasi è grata a quel fascista perché li ha costretti a posare la valigia.
«Da dove venite?». Il fatto che fossero novelli sposi non sembra averlo smosso minimamente.
«Da Empoli» dice di nuovo Angela senza esitazioni. Il milite china il capo, frugando lo spazio fra i loro piedi.
«E per venire da Empoli a Firenze vi portate tutta questa roba?» chiede additando la valigia. Angela congiunge le mani sul ventre, facendo frusciare le pieghe della gonna.
«Lo sa come vanno queste cose – risponde adocchiando la fede al dito del ragazzo – ci hanno riempito di roba – ridacchia – sembra davvero che si dovesse andare» si ferma. Dov'era che si poteva andare, in quel momento, senza destare sospetti?
«In Argentina come il nonno» interviene Domenico. Il suo volto era tornato a un colorito quasi normale. Il milite pare contento di poter interloquire con un altro maschio.
«Dove alloggiate?» chiede.
«Un hotel sui lungarni – dice Domenico facendo schioccare la ditta più volte – non mi ricordo il nome». La camicia nera emette un mugugno, e si volta indietro, verso il gruppo da cui s’è staccato. Per fortuna nessuno lo considera, son tutti impegnati a controllare i documenti a un operaio in bicicletta.
«I documenti» ordina scocciato tornando ad occuparsi di loro. Domenico annuisce con fare il più possibile servizievole, portandosi la mano alla tasca dei pantaloni. Estrae i fogli e li porge al milite. Mentre quello li scruta, Angela sfiora la mano del suo falso marito, cercando un gesto il più possibile intimo, ma la tensione fa saltar su Domenico, che si volta di scatto. Il milite solleva lo sguardo. Angela, senza sapere perché, si sfiora con la mano l'orecchio sinistro. Lento, molto lento, il milite ripiega i loro documenti. Non glieli restituisce, ma si porta le mani dietro la schiena. Le sue iridi sono spilli appuntati sul volto di Angela.
«Venite con me» intima.
Domenico e Angela si guardano terrorizzati, e lui fa scivolare la mano dietro la schiena, pronto a sfoderare la pistola. Angela, però, lo prende sottobraccio, bloccandogli la mano.
«Certo – dice rivolta al milite – se solo potesse aiutarci a portare la valigia. È veramente pesante». Con un grugnito la camicia nera si china e afferra un angolo della valigia. Così, camminando lenti e incerti, i tre si avviano verso il fondo del viale. Arrivati ad alcuni passi dal gruppo la guardia lascia andare la valigia e fa segno di fermarsi. Si rivolge a un uomo alto, corpulento e dalle guance cadenti, anche lui con indosso la camicia nera, che svetta sopra altre tre teste, coperte di baschi e fez, di almeno tutte le spalle. La guardia indica la coppia. Il capo del plotone si passa la mano sul volto e strizza gli occhi. Annuisce, infine, e si avvicina alla coppia. Senza dire alcunché allunga la mano verso Angela, e pare che voglia darle uno schiaffo. La ragazza, d'istinto, fa un passo indietro, ma lui le afferra il braccio e la blocca. Angela chiude gli occhi, sente le grasse dita dell'uomo frugarle fra i capelli già sudati. Li riapre e vede l'uomo osservare il fiore rosso, tenendolo di fronte agli occhi troppo stretti.
«Dove l'hai trovato questo?» chiede con una voce stridula. Angela si sforza di sorridere, e ce la fa nonostante ogni muscolo della faccia le bruci di dolore.
«Non me lo ricordo mica sa, ci siamo appena sposati – ridacchia – e che vuole, si fan cose anche un po' stupide» dice, aggiungendo un paio di risolini. I volti dei fascisti sono d’argilla.
«L'hai preso quando siam scesi dal treno» interviene Domenico. Angela vede che, di nuovo, la sua mano scivola verso la pistola.
«Si, che sciocca – dice – l'ho preso dalla massicciata del treno, era così bello, colorato fra quei sassi polverosi. Ho pensato che sì, insomma, siamo in viaggio di nozze e siamo contenti e» Angela tenta di affastellare parole sul fuoco dei suoi discorsi, sperando che il fumo offuschi il giudizio delle guardie. Il capo protende il piede e con la punta della scarpa da un colpetto la valigia.
«E per venire a Firenze tutta questa roba vi portate?» chiede. Angela, è contenta di aver sviato l'attenzione dal fiore.
«È colpa dei parenti, c’han riempiti di roba» dice. Il capo mugugna, guarda di nuovo il fiore. Lo butta in terra.
«Levatevi di qui, forza» dice. Angela guarda con occhi tristi i petali rossi annerirsi, poi Domenico le prende il braccio e, sollevando la valigia, senza più sentire la fatica, la spinge verso l’ultimo calesse rimasto.
«La cosa bella – dice mentre il cavallo scalpiccia verso il fiume – è che gli hai detto la verità»
«Era la cosa da fare, quelli mica la sanno riconoscere». risponde Angela. Sottovoce, ridono.