L'illusionista.
Posted: Fri Feb 26, 2021 7:56 am
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Luciano e Giovanna si sposarono con un matrimonio civile convinti che a loro bastasse la firma sul cuore per il loro amore. Alla cerimonia pochi amici con i genitori di Luciano con il viso sofferente come se stessero ad un funerale. I genitori di Giovanna non fecero sentire la loro mancanza, ma furono in grado con un messaggio di far illuminare gli occhi di Giovanna di lacrime. Le due famiglie si conoscevano e come i Montecchi e i Capuleti si odiavano per ragioni inutili, esili, ma che a loro apparivano insormontabili. Giovanna cantava, voleva da sempre fare la cantante e aveva anche un suo gruppo, ma con il tempo si rassegnò ad una vita più normale come segretaria. Luciano lavorava, ma ogni volta c’era una buona ragione per lasciare il posto che poco prima aveva descritto come il suo ideale.
Dopo qualche anno nonostante camminassero su un’economia sottile come una lastra di vetro nacque Gioele, un bel bambino roseo e riccioluto che ricordava un angelo dei dipinti del Caravaggio. Luciano, che ragionava secondo una filosofia del contrario, invece di incrementare le ore per guadagnare, perse ogni contatto con il lavoro. Per un po’ sopravvissero alle varie intemperie mangiando tonnellate d’aria fritta, ma capitava anche di ingerirla cruda. Ogni tanto portava a casa del denaro da strani affari, ma i soldi venivano dalla maternità di Giovanna.
Era spesso assorto: a occhi meno attenti pareva preoccupato, invece lui stava guardandosi in giro come un predatore che nascosto scruta la libera savana. Considerava Milano l’Eldorado, un luna park dove fare giri di giostra senza pagare. Aveva in testa una sua rivoluzione personale: di base non esitava a truffare chiunque, ma provava un’eccitazione pari a quella sessuale a farlo con i danzatori della finanza abili a camminarti sulla faccia con i tacchi. Imprenditori, affaristi e banchieri, gente coi denti a sciabola cadevano nelle trame da lui disegnate, ammaliati dalla loro ingordigia e dal sogno del guadagno facile.
In poco tempo tale istrionica abilità diede i suoi frutti. I soldi che prima contava solitari in una mano ora faceva fatica a trovare il posto dove nasconderli. A Giovanna diceva di dirigere un’autofficina fuori Milano, l’aveva anche portata con Gioele in braccio per rassicurarla mostrandole i locali e presentandole gli operai. L’autofficina era di un suo amico, uno come lui uscito storto senza nessuna voglia di raddrizzarsi. Respirava, sorrideva , si entusiasmava come tutti, ma in verità era fatto di un materiale diverso, le emozioni le sapeva pilotare e dirigere lontano dal suo cuore. Aveva sempre la risposta giusta anche se era sbagliata, era come i giocatori incalliti che giurano di smettere di barare, ma non ne possono fare a meno.
Donne e uomini cadevano dentro l’abisso della sua oratoria, sapeva sollevare un sorriso anche dalle labbra più serrate. Molte volte chi lo aveva vicino lo sentiva partecipe, quasi un fratello che comprendesse le spine che la vita riservava. Manipolava la vittima e al momento giusto staccava la spina ed attendeva che la preda fosse lei stessa a mettersi il laccio al collo. Veniva da una famiglia benestante, padre notaio da cui aveva preso modi signorili, una certa cultura e l’amore per l’arte. Non aveva le scuse di quelli che sono nati in case strette dove per respirare si doveva uscire, la strada, quella della povera gente, non l’aveva mai calpestata se non per appoggiarci sopra le suole di scarpe firmate.
A Gioele raccontava fiabe, una al giorno, sempre diverse, con protagonista un coccodrillo. L’invenzione del coccodrillo gli era venuta una sera d’estate quando Gioele aveva sei anni, non voleva dormire e la mamma era stravolta dalla giornata.
Luciano cominciò: - La conosci la storia del coccodrillo che protegge la nostra famiglia?-
-Un coccodrillo? Non è vero.-
-Certo che è vero! Il coccodrillo è un animale sacro lo sapevi?-
Gioele lo guardò serio e con la bocca aperta registrava ogni parola di suo padre come se fossero perle da non far cadere a terra. Luciano aveva gli occhi allenati a mentire, era cosi bravo a manipolare da essere creduto anche per le cose più assurde.
-Il coccodrillo protegge la nostra famiglia dalle persone malvage e dalla sfortuna, ma bisogna essergli fedeli.-
-Io sono fedele, se lo senti diglielo.-
Un giorno Gioele, dopo il racconto di una storia del coccodrillo dalle zampe rosse disse: - Posso chiedergli aiuto?-
-Certo, cosa vuoi chiedergli?-
-C’è un mio compagno che mi è antipatico, magari il coccodrillo mi aiuta, senza però fargli tanto male.-
-Non lo so, gli ho già chiesto molti favori per questa settimana.-
-Allora papà, facciamo per la prossima volta.-
Un mese dopo il compagno antipatico ebbe un incidente con la bicicletta e si ruppe il braccio destro. Da allora Gioele credette nel coccodrillo con le zampe rosse.
Negli anni seguenti di situazioni strane Gioele ne vide tante, forse troppe. Il tempo dei regali, delle vacanze su barche lussuose, dei soldi gettati al vento come coriandoli erano finiti e la mamma era tornata a lavorare mezza giornata. Luciano aveva mosso troppe onde fino a creare una mareggiata, così un giorno era stato prelevato all’alba da casa dalla polizia e suo figlio vide per la prima volta sua madre scoppiare a piangere.
Luciano, calmo come se la cosa non lo riguardasse, quando incrociò gli occhi di Gioele gli fece un sorriso.
-Tranquillo ometto, il coccodrillo metterà a posto tutto.-
Poi salutò con la mano Giovanna che pareva folgorata dal dispiacere.
Passarono tre mesi: Luciano ai colloqui era un po’ dimagrito e aveva la barba incolta, a sentir lui parlava di un errore, di un equivoco e che avrebbero dovuto risarcirlo e pagarlo a peso d’oro. Gioele parlava spesso con il coccodrillo per chiedergli aiuto, ma in quel periodo gli sembrava distratto: la vita divenne meno dolce e la mamma arrivò a svendere tutti i regali a degli sciacalli che avevano sentito odore di sangue facile.
Gioele andò per un po’ a vivere con i nonni paterni, visto che i genitori di Giovanna alla notizia di Luciano in gattabuia si erano eclissati. Neanche il nipote li fece desistere dal loro cammino, scomparvero come degli estranei che si incontrano sul vagone di un treno e poi si perdono per sempre. Mentre accompagnava il figlio dai suoceri lei prese a singhiozzare cercando di non farsi vedere, ma lui le teneva la mano e le guardava in silenzio il viso invaso dalle lacrime. Il nonno quando la vide sospirò, poi la nonna prese in consegna il nipote che fu portato in un’altra stanza.
Il nonno rivolgendosi a Giovanna disse con tono altero: - Ti aiutiamo solo per Gioele, lui non ha colpa se ha due genitori scellerati come voi. - Lei non accettava che la trattassero come complice di Luciano, cercò di spiegare che era all’oscuro, ma ogni sua parola non superava lo sbarramento dello sguardo accusatore di entrambi i genitori di Luciano. La rigidità che mostravano cambiava se si parlava del figlio, per lui c’erano scuse, la sua colpa era quello di essere troppo buono e un debole, cosa mai più lontana dalla verità. Per Giovanna invece le scuse parevano sempre esaurite, non era mai piaciuta e ora si potevano permettere di mostrare tutto il disprezzo verso di lei e la sua famiglia.
Luciano scriveva, prometteva, giurava, aveva sempre i suoi fedeli soldati, le parole, pronte a morire e a rinascere per lui. Scriveva una lettera al giorno, sempre cose nuove, perfino barzellette inventate o sentite, sembrava non fosse in prigione, ma in villeggiatura seduto ad un tavolo a sorseggiare vino fresco spensierato. Mai una volta si perse nel raccontare del carcere o dei suoi compagni, li escludeva dalle sue lettere, parlava come se non stesse dividendo una cella con altri, ma fosse naufragato e mandasse i suoi pensieri nella bottiglia tra le onde. A Gioele raccontava sempre del coccodrillo dalle zampe rosse, ogni volta una storia nuova e quando lo andava a prendere dai nonni le raccontava tutte alla mamma: si accontentava di leggere le nuove storie del coccodrillo dalle zampe rosse, ma gli mancava suo padre, la sua allegria, il suo modo istrionico di narrare.
Intanto, per quanto piccolo, affinava i suoi sensi intuendo come l’ipocrisia fosse dappertutto: a scuola guardava i grandi bisbigliare al suo arrivo, amici dei loro genitori che mesi prima si sbracciavano a salutarli ora si mostravano cordiali e comprensivi, ma era una facciata, le mamme che prima passavano il tempo a ridere con Giovanna al loro apparire si dileguavano come fossero portatori di una malattia contagiosa. I primi tempi ci soffrì poi si abituò a non dividere l’aria con nessun altro che con se stesso. Si trovava nel banco sempre più spesso da solo, come Ulisse a navigare per trovare un porto amico, un sorriso su cui approdare.
Luciano grazie al fatto che fosse incensurato riuscì ad avere i domiciliari: quando tornò a casa sembrava un reduce ritornato dalla guerra, i genitori lo accolsero festosi pronti a perdonarlo, Giovanna si mise a provare a sorridere e il duro gelo invernale che le circondava il cuore e i pensieri parve sciogliersi. Tornarono a vivere insieme, si parlava di progetti, di cambiamento, Giovanna pareva credere o almeno si sforzava di credere alle nuove idee che li avrebbero risollevati. Luciano aveva sempre in tasca la chiave per scardinare i dubbi, a lui bastava una magia e le nuvole sparivano e si tornava sollevati a credere di avere in mano l’oro lucente delle stelle. Per un po’ stette tranquillo, trovò un lavoro grazie a suo padre, la sera guardava la televisione e la domenica andava al parco a giocare a pallone con Gioele. Giovanna era felice, aveva perfino messo tre chili su quel corpo magrissimo come un filo srotolato da una matassa.
Dopo anni della tanto voluta pace Luciano a cena disse: -Vi devo comunicare una cosa.-
-Bella o brutta?-
-Il bello e il brutto spesso hanno la stessa faccia.-
Giovanna appoggiò la pentola sul tavolo, i suoi occhi cercarono un ponte su cui incontrarsi, ma trovò nelle pupille di Luciano la consistenza delle nubi. Stava per staccare gli ormeggi e la sua barca aveva solo due posti, il suo e l’altro di una donna bionda con la quale divideva ormai da tempo i suoi scellerati propositi. L’aveva data a bere a tutti, non era cambiato, era solo in pausa, in attesa di un altro treno con altri passeggeri. Giovanna si mise ad urlare, gli gettò addosso ogni cosa che le passava per le mani, ma non lo fermò. Soffrendo con lacrime color sangue lo vide uscire, salire su una macchina con alla guida una donna bionda e dileguarsi come un sogno quando entra la luce del mattino. Lui uscì con Gioele che lo insultava e che, diventato grande e grosso, gli mollò una sberla che senza rispondere evitò.
Le strade si separarono e Giovanna ormai si muoveva verso ogni cosa con in mano una bandiera bianca in segno di resa. Gioele crebbe, trovò un lavoro, una ragazza, perfino un gatto abbandonato da portare a casa. La stagione dei ricordi a venticinque anni era fatta solo di fotografie dentro un album che mai apriva perché non riusciva ad odiare suo padre, ma preferiva non parlarne. Ogni tanto arrivavano soldi: Giovanna una volta li gettò dalla finestra creando nella via una folla festante.
Luciano riuscì ad incontrare il figlio in un bar vicino casa. Quando Gioele lo vide non fece fatica a riconoscerlo, quello che aveva davanti era la solita maschera di un uomo immutabile come le pietre montane. Gli incontri si susseguirono, ci furono scontri accuse e insulti. Gioele non gli risparmiava nulla, suo padre aveva dei lampi dove provava a far saltare il banco, ma lui lo crocifiggeva con parole che trafiggevano il ferro. L’ultima volta che lo vide il padre indossava una camicia bianca di seta, delle scarpe lucenti e aveva un sorriso amaro, sembrava un albero spoglio delle sue foglie. Lo guardò con sospetto.
-Sei nei guai?-
Luciano non rispose, si mise a ridere cambiando discorso, poi prese a scherzare e a fare battute con il barista. Gioele prese questa come l’ultima delle omissioni tollerabili, si alzò seccato e se ne andò via. Il padre provò a fermarlo, ma fu inutile.
Un venerdì come tanti da una macchina della polizia scese un ragazzo giovane con la barba appena accennata che suonò alla loro porta. Gioele lo fece entrare con fatica. Il ragazzo, che era forse al suo primo incarico, si tolse il cappello e dopo essersi assicurato di parlare con i congiunti provò a svolgere il suo incarico. Abbassò gli occhi e disse tutto d’un fiato come se la cosa gli bruciasse la bocca: -Vi comunico che il signor Luciano Misi è morto e che il suo corpo è all’obitorio per il riconoscimento.-
Ognuno a tale notizia reagisce in maniera diversa, c’è chi urla, chi piange, chi se la prende con il messaggero. Giovanna rimase zitta, non fece uscire suono, non aveva più lacrime, le aveva consumate tutte, ma ebbe un soffio di gelo al cuore da doversi sedere. Gioele rimase immobile e per un attimo pensò che fosse un altro dei suoi mille trucchi.
Quando lo andò a riconoscere c’era in quello stanzone dell’obitorio un’aria irreale, molta gente col volto di cera e poi Luciano vestito con un bel completo blu. Seppe che si era suicidato con due scatole di sonniferi. Si era stancato del mondo e nulla più, neanche truffare, lo divertiva. O forse l’essere conscio di aver fatto così male a Giovanna al punto da trasformarla in una donna travolta da mille paure lo aveva riempito di sensi di colpa.
Incredibilmente al funerale c’era una folla di gente, alcuni curiosi, alcuni creditori, alcuni smarriti dal silicone delle sue parole dalle quali non riuscivano ancora a staccarsi. Giovanna aveva gli occhi in fuga dallo sguardo altrui per non dover ammettere prima di tutto a se stessa che aveva amato un uomo che forse non aveva mai conosciuto. Gioele la guardava soffrire , la guerra del loro travagliato rapporto restava un passato ingombrante per il suo presente.
Un giorno un anonimo signore suonò a casa loro.
-Sei Gioele?-
Gioele lo scrutò, era sicuro di non averlo mai visto.
-Si, sono io.-
-Bene, ho un regalo per te da parte di tuo padre.-
-Mio padre è morto, vattene se non vuoi guai. –
-Calma, io te lo lascio qui, non voglio problemi, mantengo solo una promessa fatta a tuo padre in carcere. -
-Ok, non voglio agitare mia madre: dammi il pacco e poi fai finta di salutarmi come se fossi un mio amico.-
La sera in camera sua nel silenzio Gioele aprì il pacco. Beh, pensò, si è sprecato: dentro c’era un libro con 300 storie nuove del coccodrillo dalle zampe rosse tutte scritte per lui, forse in carcere, e per Giovanna lo stesso anello che si erano scambiati per il fidanzamento, l’unica cosa che non si era impegnato e aveva conservato avvolto in una carta bianca con delle rose disegnate. Gioele aspettò a darlo alla madre e quando ritenne giusto glielo fece vedere: lei prese in prestito gli occhi umidi del figlio e si mise a piangere. Sul libro due righe scritte in corsivo “Guardate che non sono scomparso, sono solo morto. ” A Gioele venne da sorridere, era uscito dalla vita con una delle sue frasi ad effetto e lo immaginò scrivere queste parole pensando all’effetto che avrebbero avuto. Certo non era il padre ideale, difettava nelle qualità morali ed etiche, sembrava che per lui tutto fosse un gigantesco scherzo, era più facile vederlo come un acrobata, un incosciente clown che da spettacolo sul filo teso della vita.
Giovanna col tempo aveva ripreso a cantare, lo faceva per diletto in un piccolo coro e qualche sera leggeva ad alta voce le strane storie del coccodrillo dalle zampe rosse. I loro occhi trascinati in tanti guai iniziarono senza accorgersene a uscire dal buio del sottosuolo. Il coccodrillo dalle zampe rosse li fece sorridere e poi ridere, sperare come tanto tempo prima quando c’era Luciano e il mondo pareva una palla rotonda in movimento con cui si poteva giocare.
Luciano e Giovanna si sposarono con un matrimonio civile convinti che a loro bastasse la firma sul cuore per il loro amore. Alla cerimonia pochi amici con i genitori di Luciano con il viso sofferente come se stessero ad un funerale. I genitori di Giovanna non fecero sentire la loro mancanza, ma furono in grado con un messaggio di far illuminare gli occhi di Giovanna di lacrime. Le due famiglie si conoscevano e come i Montecchi e i Capuleti si odiavano per ragioni inutili, esili, ma che a loro apparivano insormontabili. Giovanna cantava, voleva da sempre fare la cantante e aveva anche un suo gruppo, ma con il tempo si rassegnò ad una vita più normale come segretaria. Luciano lavorava, ma ogni volta c’era una buona ragione per lasciare il posto che poco prima aveva descritto come il suo ideale.
Dopo qualche anno nonostante camminassero su un’economia sottile come una lastra di vetro nacque Gioele, un bel bambino roseo e riccioluto che ricordava un angelo dei dipinti del Caravaggio. Luciano, che ragionava secondo una filosofia del contrario, invece di incrementare le ore per guadagnare, perse ogni contatto con il lavoro. Per un po’ sopravvissero alle varie intemperie mangiando tonnellate d’aria fritta, ma capitava anche di ingerirla cruda. Ogni tanto portava a casa del denaro da strani affari, ma i soldi venivano dalla maternità di Giovanna.
Era spesso assorto: a occhi meno attenti pareva preoccupato, invece lui stava guardandosi in giro come un predatore che nascosto scruta la libera savana. Considerava Milano l’Eldorado, un luna park dove fare giri di giostra senza pagare. Aveva in testa una sua rivoluzione personale: di base non esitava a truffare chiunque, ma provava un’eccitazione pari a quella sessuale a farlo con i danzatori della finanza abili a camminarti sulla faccia con i tacchi. Imprenditori, affaristi e banchieri, gente coi denti a sciabola cadevano nelle trame da lui disegnate, ammaliati dalla loro ingordigia e dal sogno del guadagno facile.
In poco tempo tale istrionica abilità diede i suoi frutti. I soldi che prima contava solitari in una mano ora faceva fatica a trovare il posto dove nasconderli. A Giovanna diceva di dirigere un’autofficina fuori Milano, l’aveva anche portata con Gioele in braccio per rassicurarla mostrandole i locali e presentandole gli operai. L’autofficina era di un suo amico, uno come lui uscito storto senza nessuna voglia di raddrizzarsi. Respirava, sorrideva , si entusiasmava come tutti, ma in verità era fatto di un materiale diverso, le emozioni le sapeva pilotare e dirigere lontano dal suo cuore. Aveva sempre la risposta giusta anche se era sbagliata, era come i giocatori incalliti che giurano di smettere di barare, ma non ne possono fare a meno.
Donne e uomini cadevano dentro l’abisso della sua oratoria, sapeva sollevare un sorriso anche dalle labbra più serrate. Molte volte chi lo aveva vicino lo sentiva partecipe, quasi un fratello che comprendesse le spine che la vita riservava. Manipolava la vittima e al momento giusto staccava la spina ed attendeva che la preda fosse lei stessa a mettersi il laccio al collo. Veniva da una famiglia benestante, padre notaio da cui aveva preso modi signorili, una certa cultura e l’amore per l’arte. Non aveva le scuse di quelli che sono nati in case strette dove per respirare si doveva uscire, la strada, quella della povera gente, non l’aveva mai calpestata se non per appoggiarci sopra le suole di scarpe firmate.
A Gioele raccontava fiabe, una al giorno, sempre diverse, con protagonista un coccodrillo. L’invenzione del coccodrillo gli era venuta una sera d’estate quando Gioele aveva sei anni, non voleva dormire e la mamma era stravolta dalla giornata.
Luciano cominciò: - La conosci la storia del coccodrillo che protegge la nostra famiglia?-
-Un coccodrillo? Non è vero.-
-Certo che è vero! Il coccodrillo è un animale sacro lo sapevi?-
Gioele lo guardò serio e con la bocca aperta registrava ogni parola di suo padre come se fossero perle da non far cadere a terra. Luciano aveva gli occhi allenati a mentire, era cosi bravo a manipolare da essere creduto anche per le cose più assurde.
-Il coccodrillo protegge la nostra famiglia dalle persone malvage e dalla sfortuna, ma bisogna essergli fedeli.-
-Io sono fedele, se lo senti diglielo.-
Un giorno Gioele, dopo il racconto di una storia del coccodrillo dalle zampe rosse disse: - Posso chiedergli aiuto?-
-Certo, cosa vuoi chiedergli?-
-C’è un mio compagno che mi è antipatico, magari il coccodrillo mi aiuta, senza però fargli tanto male.-
-Non lo so, gli ho già chiesto molti favori per questa settimana.-
-Allora papà, facciamo per la prossima volta.-
Un mese dopo il compagno antipatico ebbe un incidente con la bicicletta e si ruppe il braccio destro. Da allora Gioele credette nel coccodrillo con le zampe rosse.
Negli anni seguenti di situazioni strane Gioele ne vide tante, forse troppe. Il tempo dei regali, delle vacanze su barche lussuose, dei soldi gettati al vento come coriandoli erano finiti e la mamma era tornata a lavorare mezza giornata. Luciano aveva mosso troppe onde fino a creare una mareggiata, così un giorno era stato prelevato all’alba da casa dalla polizia e suo figlio vide per la prima volta sua madre scoppiare a piangere.
Luciano, calmo come se la cosa non lo riguardasse, quando incrociò gli occhi di Gioele gli fece un sorriso.
-Tranquillo ometto, il coccodrillo metterà a posto tutto.-
Poi salutò con la mano Giovanna che pareva folgorata dal dispiacere.
Passarono tre mesi: Luciano ai colloqui era un po’ dimagrito e aveva la barba incolta, a sentir lui parlava di un errore, di un equivoco e che avrebbero dovuto risarcirlo e pagarlo a peso d’oro. Gioele parlava spesso con il coccodrillo per chiedergli aiuto, ma in quel periodo gli sembrava distratto: la vita divenne meno dolce e la mamma arrivò a svendere tutti i regali a degli sciacalli che avevano sentito odore di sangue facile.
Gioele andò per un po’ a vivere con i nonni paterni, visto che i genitori di Giovanna alla notizia di Luciano in gattabuia si erano eclissati. Neanche il nipote li fece desistere dal loro cammino, scomparvero come degli estranei che si incontrano sul vagone di un treno e poi si perdono per sempre. Mentre accompagnava il figlio dai suoceri lei prese a singhiozzare cercando di non farsi vedere, ma lui le teneva la mano e le guardava in silenzio il viso invaso dalle lacrime. Il nonno quando la vide sospirò, poi la nonna prese in consegna il nipote che fu portato in un’altra stanza.
Il nonno rivolgendosi a Giovanna disse con tono altero: - Ti aiutiamo solo per Gioele, lui non ha colpa se ha due genitori scellerati come voi. - Lei non accettava che la trattassero come complice di Luciano, cercò di spiegare che era all’oscuro, ma ogni sua parola non superava lo sbarramento dello sguardo accusatore di entrambi i genitori di Luciano. La rigidità che mostravano cambiava se si parlava del figlio, per lui c’erano scuse, la sua colpa era quello di essere troppo buono e un debole, cosa mai più lontana dalla verità. Per Giovanna invece le scuse parevano sempre esaurite, non era mai piaciuta e ora si potevano permettere di mostrare tutto il disprezzo verso di lei e la sua famiglia.
Luciano scriveva, prometteva, giurava, aveva sempre i suoi fedeli soldati, le parole, pronte a morire e a rinascere per lui. Scriveva una lettera al giorno, sempre cose nuove, perfino barzellette inventate o sentite, sembrava non fosse in prigione, ma in villeggiatura seduto ad un tavolo a sorseggiare vino fresco spensierato. Mai una volta si perse nel raccontare del carcere o dei suoi compagni, li escludeva dalle sue lettere, parlava come se non stesse dividendo una cella con altri, ma fosse naufragato e mandasse i suoi pensieri nella bottiglia tra le onde. A Gioele raccontava sempre del coccodrillo dalle zampe rosse, ogni volta una storia nuova e quando lo andava a prendere dai nonni le raccontava tutte alla mamma: si accontentava di leggere le nuove storie del coccodrillo dalle zampe rosse, ma gli mancava suo padre, la sua allegria, il suo modo istrionico di narrare.
Intanto, per quanto piccolo, affinava i suoi sensi intuendo come l’ipocrisia fosse dappertutto: a scuola guardava i grandi bisbigliare al suo arrivo, amici dei loro genitori che mesi prima si sbracciavano a salutarli ora si mostravano cordiali e comprensivi, ma era una facciata, le mamme che prima passavano il tempo a ridere con Giovanna al loro apparire si dileguavano come fossero portatori di una malattia contagiosa. I primi tempi ci soffrì poi si abituò a non dividere l’aria con nessun altro che con se stesso. Si trovava nel banco sempre più spesso da solo, come Ulisse a navigare per trovare un porto amico, un sorriso su cui approdare.
Luciano grazie al fatto che fosse incensurato riuscì ad avere i domiciliari: quando tornò a casa sembrava un reduce ritornato dalla guerra, i genitori lo accolsero festosi pronti a perdonarlo, Giovanna si mise a provare a sorridere e il duro gelo invernale che le circondava il cuore e i pensieri parve sciogliersi. Tornarono a vivere insieme, si parlava di progetti, di cambiamento, Giovanna pareva credere o almeno si sforzava di credere alle nuove idee che li avrebbero risollevati. Luciano aveva sempre in tasca la chiave per scardinare i dubbi, a lui bastava una magia e le nuvole sparivano e si tornava sollevati a credere di avere in mano l’oro lucente delle stelle. Per un po’ stette tranquillo, trovò un lavoro grazie a suo padre, la sera guardava la televisione e la domenica andava al parco a giocare a pallone con Gioele. Giovanna era felice, aveva perfino messo tre chili su quel corpo magrissimo come un filo srotolato da una matassa.
Dopo anni della tanto voluta pace Luciano a cena disse: -Vi devo comunicare una cosa.-
-Bella o brutta?-
-Il bello e il brutto spesso hanno la stessa faccia.-
Giovanna appoggiò la pentola sul tavolo, i suoi occhi cercarono un ponte su cui incontrarsi, ma trovò nelle pupille di Luciano la consistenza delle nubi. Stava per staccare gli ormeggi e la sua barca aveva solo due posti, il suo e l’altro di una donna bionda con la quale divideva ormai da tempo i suoi scellerati propositi. L’aveva data a bere a tutti, non era cambiato, era solo in pausa, in attesa di un altro treno con altri passeggeri. Giovanna si mise ad urlare, gli gettò addosso ogni cosa che le passava per le mani, ma non lo fermò. Soffrendo con lacrime color sangue lo vide uscire, salire su una macchina con alla guida una donna bionda e dileguarsi come un sogno quando entra la luce del mattino. Lui uscì con Gioele che lo insultava e che, diventato grande e grosso, gli mollò una sberla che senza rispondere evitò.
Le strade si separarono e Giovanna ormai si muoveva verso ogni cosa con in mano una bandiera bianca in segno di resa. Gioele crebbe, trovò un lavoro, una ragazza, perfino un gatto abbandonato da portare a casa. La stagione dei ricordi a venticinque anni era fatta solo di fotografie dentro un album che mai apriva perché non riusciva ad odiare suo padre, ma preferiva non parlarne. Ogni tanto arrivavano soldi: Giovanna una volta li gettò dalla finestra creando nella via una folla festante.
Luciano riuscì ad incontrare il figlio in un bar vicino casa. Quando Gioele lo vide non fece fatica a riconoscerlo, quello che aveva davanti era la solita maschera di un uomo immutabile come le pietre montane. Gli incontri si susseguirono, ci furono scontri accuse e insulti. Gioele non gli risparmiava nulla, suo padre aveva dei lampi dove provava a far saltare il banco, ma lui lo crocifiggeva con parole che trafiggevano il ferro. L’ultima volta che lo vide il padre indossava una camicia bianca di seta, delle scarpe lucenti e aveva un sorriso amaro, sembrava un albero spoglio delle sue foglie. Lo guardò con sospetto.
-Sei nei guai?-
Luciano non rispose, si mise a ridere cambiando discorso, poi prese a scherzare e a fare battute con il barista. Gioele prese questa come l’ultima delle omissioni tollerabili, si alzò seccato e se ne andò via. Il padre provò a fermarlo, ma fu inutile.
Un venerdì come tanti da una macchina della polizia scese un ragazzo giovane con la barba appena accennata che suonò alla loro porta. Gioele lo fece entrare con fatica. Il ragazzo, che era forse al suo primo incarico, si tolse il cappello e dopo essersi assicurato di parlare con i congiunti provò a svolgere il suo incarico. Abbassò gli occhi e disse tutto d’un fiato come se la cosa gli bruciasse la bocca: -Vi comunico che il signor Luciano Misi è morto e che il suo corpo è all’obitorio per il riconoscimento.-
Ognuno a tale notizia reagisce in maniera diversa, c’è chi urla, chi piange, chi se la prende con il messaggero. Giovanna rimase zitta, non fece uscire suono, non aveva più lacrime, le aveva consumate tutte, ma ebbe un soffio di gelo al cuore da doversi sedere. Gioele rimase immobile e per un attimo pensò che fosse un altro dei suoi mille trucchi.
Quando lo andò a riconoscere c’era in quello stanzone dell’obitorio un’aria irreale, molta gente col volto di cera e poi Luciano vestito con un bel completo blu. Seppe che si era suicidato con due scatole di sonniferi. Si era stancato del mondo e nulla più, neanche truffare, lo divertiva. O forse l’essere conscio di aver fatto così male a Giovanna al punto da trasformarla in una donna travolta da mille paure lo aveva riempito di sensi di colpa.
Incredibilmente al funerale c’era una folla di gente, alcuni curiosi, alcuni creditori, alcuni smarriti dal silicone delle sue parole dalle quali non riuscivano ancora a staccarsi. Giovanna aveva gli occhi in fuga dallo sguardo altrui per non dover ammettere prima di tutto a se stessa che aveva amato un uomo che forse non aveva mai conosciuto. Gioele la guardava soffrire , la guerra del loro travagliato rapporto restava un passato ingombrante per il suo presente.
Un giorno un anonimo signore suonò a casa loro.
-Sei Gioele?-
Gioele lo scrutò, era sicuro di non averlo mai visto.
-Si, sono io.-
-Bene, ho un regalo per te da parte di tuo padre.-
-Mio padre è morto, vattene se non vuoi guai. –
-Calma, io te lo lascio qui, non voglio problemi, mantengo solo una promessa fatta a tuo padre in carcere. -
-Ok, non voglio agitare mia madre: dammi il pacco e poi fai finta di salutarmi come se fossi un mio amico.-
La sera in camera sua nel silenzio Gioele aprì il pacco. Beh, pensò, si è sprecato: dentro c’era un libro con 300 storie nuove del coccodrillo dalle zampe rosse tutte scritte per lui, forse in carcere, e per Giovanna lo stesso anello che si erano scambiati per il fidanzamento, l’unica cosa che non si era impegnato e aveva conservato avvolto in una carta bianca con delle rose disegnate. Gioele aspettò a darlo alla madre e quando ritenne giusto glielo fece vedere: lei prese in prestito gli occhi umidi del figlio e si mise a piangere. Sul libro due righe scritte in corsivo “Guardate che non sono scomparso, sono solo morto. ” A Gioele venne da sorridere, era uscito dalla vita con una delle sue frasi ad effetto e lo immaginò scrivere queste parole pensando all’effetto che avrebbero avuto. Certo non era il padre ideale, difettava nelle qualità morali ed etiche, sembrava che per lui tutto fosse un gigantesco scherzo, era più facile vederlo come un acrobata, un incosciente clown che da spettacolo sul filo teso della vita.
Giovanna col tempo aveva ripreso a cantare, lo faceva per diletto in un piccolo coro e qualche sera leggeva ad alta voce le strane storie del coccodrillo dalle zampe rosse. I loro occhi trascinati in tanti guai iniziarono senza accorgersene a uscire dal buio del sottosuolo. Il coccodrillo dalle zampe rosse li fece sorridere e poi ridere, sperare come tanto tempo prima quando c’era Luciano e il mondo pareva una palla rotonda in movimento con cui si poteva giocare.