commento
Quella domenica mattina il mare era viola. Non lilla né indaco né porpora, ma il viola carico della lavanda, delle melanzane o, appunto, delle viole.
Alina se lo ricordava perché, tra le tante sfumature assunte nel tempo, quella era una delle più stravaganti e vistose. Se lo ricordava anche perché si trattava di una delle prime gite con la famiglia.
La spiaggia abbracciava i contorni orientali della grande città e distava poco più di un’ora dal loro appartamento-alveare in periferia, ma ci erano stati poche volte prima che il padre riuscisse a comperare un’auto. Era una scatola metallica uguale a centinaia di altre, ma l’orgoglio di possederla riusciva a sembrare comunque del tutto personale.
Ad Alina era rimasta impressa una sola gita precedente a quella, quando aveva cinque anni e la signora per cui la madre faceva le pulizie aveva accompagnato lei e i gemellini fino alla spiaggia pubblica a prendere un gelato. Del gelato in sé, o del sorriso bianco-rosso ed eccessivamente statico della signora ricordava poco, ma era quasi certa che quella volta il mare fosse blu.
Un uomo seduto sulla riva, con una barba ruvida come sabbia e il volto scolpito dalla salsedine, aveva fermato la mano con cui suonava la chitarra per guardare la bambina, e aveva sorriso del suo stupore mentre immergeva i piedini in quell’acqua blu. Le aveva assicurato che il mare era così, in tutto il mondo.
Alina non riusciva a espandere l’immaginazione fino ad altre spiagge in altre parti del mondo, ma si era schermata di riflesso gli occhi dal sole per fissare l’orizzonte e cercare di scorgere dove finisse. Aveva creduto senza esitare al vecchio. Dopotutto, anche volendo, non riusciva a pensare a una sfumatura più adatta a quell’enorme distesa liquida che rifletteva in parte il cielo, ma solo in superficie. Era un blu che non si poteva paragonare a nient’altro se non, appunto, al colore del mare, e che da lì in poi sarebbe stato di ispirazione per tutti i suoi disegni a tema: il blu-mare e l’azzurro-cielo erano sempre tra i pastelli che si consumavano più in fretta.
Questo finché non aveva capito che non era il suo colore definitivo e stabile. Avrebbe dovuto esserlo, ma tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è c’è sempre differenza. Alina lo avrebbe imparato solo col tempo, quando ormai non serviva più.
Quando il mare diventò viola, Alina aveva già sette anni e aveva trovato strana la cosa, ma neanche più di tanto. Gli adulti erano agitati e rumorosi fin dalla sera precedente, proprio come i giornalisti che starnazzavano dalla scatola TV appena comprata. Qualcosa era successo da qualche parte, lontano ma non troppo.
Alina non ricordava affatto quel luogo dalle lezioni di geografia, ma dopo mesi in cui la voce della scatola parlante era divenuta una presenza fissa in casa, aveva imparato a giudicare le distanze degli accadimenti che narrava dal tono dei giornalisti o dalla lunghezza delle discussioni in proposito. Lei non sapeva perché un incidente a una centrale di qualche tipo causasse tanta agitazione, ma imparò presto a collegare l’umore che percepiva nella gente intorno a lei con i cambiamenti del mare.
Era corsa dai genitori, sollevando sbuffi di sabbia rovente da sotto i piedi nudi, per condividere la sua scoperta. La madre aveva finto di essere immersa nella rivista che teneva in mano, il padre era distratto a frugare nella borsa termica in cerca di una birra. I due fratellini le avevano lanciato identiche occhiate incuriosite, mentre armeggiavano con palette e secchielli per costruire quello che voleva essere un castello.
Il mare non era solo acqua, pesci, navi e città che vi si specchiavano, né un pastello blu mezzo consumato, o un buon posto per il sole dove tramontare. La maggior parte della vita marina si svolgeva sotto la superficie, lì dove il riflesso di ogni cosa, compreso quello di Alina, pallida e ossuta nel suo costume da bagno, si inabissava fino a distorcersi e scomparire.
Era del tutto naturale che qualcosa di così immenso e misterioso non potesse non rispecchiare ciò che di immenso e misterioso vi era nel mondo e nelle genti che lo abitavano.
Quattro anni dopo, però, quando si avvicinò alla linea dell’acqua, esitò a immergervi i piedi. Fu con timore che li guardò sprofondare sotto la coltre grigia ricoperta di una sottile schiuma bianca. I piedi sparirono, come inghiottiti, e Alina provò un senso di nausea. Avrebbe voluto lanciarsi dentro e nuotare, per mettere alla prova le lezioni di nuoto appena concluse, ma non se la sentì.
Voltò la testa verso i genitori, accampati al solito posto, tra un palo dell’elettricità e un basso muretto che delimitava il viale d’accesso. Non era il posto migliore della spiaggia, ma ormai l’avevano scelto, e lo difendevano con barricate di borsoni, asciugamani e secchielli, per una sorta di puntiglio territoriale.
La madre era impegnata a leggere la sua rivista. Il padre osservava il mare, con le sopracciglia aggrottate, e Alina credette di scorgere nella sua espressione un accenno dei suoi stessi pensieri, ma non riuscì in alcun modo ad attirarne lo sguardo.
I gemelli bisticciavano rotolandosi nella sabbia. Nessuno tentava di dividerli, perché ormai era chiaro che litigavano semplicemente per dimostrare ai genitori e forse al mondo che, sebbene gemelli, non erano la stessa entità. Ma i loro bisticci erano tanto sciocchi e fasulli che nessuno li prendeva sul serio. D’altronde Alina era abbastanza grande da sapere che si può litigare anche con se stessi.
Nessuno guardava verso di lei. Il vecchio suonatore di chitarra non c’era più. Al suo posto c’era un giovanotto abbronzato con una radio, che metteva a tutto volume canzoni straniere per fare colpo su una ragazza in bikini lì a fianco.
Alina pensò che fosse tempo sprecato chiedere a qualcuno di loro il perché di quel colore. Diede un piccolo calcio all’acqua, per far capire al mare che era arrabbiata, e gli voltò le spalle con un brivido per tornare al suo piccolo accampamento familiare e prendere le monete per un gelato. Non aveva davvero voglia di mangiare, ma non sapeva di cosa avesse voglia, quindi tanto valeva mangiare un gelato.
La madre borbottava tra sé e sé di qualche articolo riportato dalla sua rivista, infiltratosi chissà come tra la foto scandalo della moglie di un calciatore in topless e il cruciverbone delle vacanze. Alina colse solo le parole “vertice climatico” e “in disaccordo”. Le parve qualcosa che causava inquietudine nelle persone, ma con poca enfasi. I commenti indignati degli adulti avevano l’andamento lento e limaccioso delle onde grigie sulla battigia.
Anche quando Alina iniziò a frequentare il Liceo nella grande città, le occasioni di andare fino alla spiaggia rimasero poche. I suoi amici preferivano le discoteche, dove nuove canzoni straniere infiammavano i giovani, sebbene molti non le capissero. E poi sedevano nei parchi cittadini e parlavano di cose. L’argomento non aveva importanza purché fossero cose nuove, idee nuove. Il passato era qualcosa di ammuffito e soffocato di ragnatele, ma il futuro sembrava possedere ogni sorta di qualità, solo a nominarlo sprizzava intorno scintille di luce. E a dimostrarlo stava anche il fatto che il passato rimaneva relegato nei musei e nelle ingessate cerimonie pubbliche, mentre il futuro si celebrava e si accoglieva in luoghi pieni di vita come i centri commerciali, gli stadi e i locali notturni.
Il mare stava scivolando rapidamente tra le cose vecchie, quelle di cui era noioso e inutile occuparsi. I suoi continui cambi di umore e colore erano giudicati fastidiosamente retrò dalla maggior parte dei ragazzi della sua età.
Quando poté comperare un computer, si accorse che permetteva una connessione e una conoscenza col resto del mondo molto più vasta, immediata e chiara rispetto ai volubili e indecifrabili messaggi marini.
Alina non rifiutava di andare in spiaggia, quando lo proponevano i suoi amici, prendendosi in giro loro per primi per quei riti fuori moda: le feste, i falò, le canzoni alla chitarra e l’alcol a volontà. Ma non faceva più caso se l’acqua fosse blu, arancio, verde o che altro. Tutt’al più, dopo i vent’anni, una volta entrata in possesso di uno smartphone, il colore divenne una questione di fondo: se indossava un vestito rosa, era impensabile avere uno sfondo arancione, toccava modificarlo.
La città e il mare presero nella sua mente strade inconciliabili. Il mare non era più una meta ma un contorno, come le zucchine saltate intorno al suo hamburger vegano del venerdì sera.
Oppure un luogo dove portare i figli a prendere un gelato e qualche sprazzo di sole, ammonendoli però a non entrare in acqua. Neanche tanto per l’inquinamento, ma perché quel suo rispecchiare così sfacciatamente problemi ed emozioni umane che potevano benissimo restare nascosti era quantomai inopportuno.
Molti anni dopo, al matrimonio del suo primo figlio, la sposa prese la decisione discutibile di celebrare i festeggiamenti in riva al mare. Così, usciti dalla chiesa, parenti e ospiti si incolonnarono in un lungo e religioso corteo di macchine con garofani bianchi schiacciati nei tergicristalli, per arenarsi nel parcheggio della spiaggia cittadina.
Poco più in là si aprivano enormi ombrelloni bianchi rettangolari, a coprire tavoli imbanditi con ogni sorta di cibi da buffet, dove la facevano da padrone quelli a base di pesce, sebbene non fosse pescato lì — ormai l’inquinamento e lo sfruttamento eccessivo avevano ucciso da tempo qualunque velleità in tal senso — ma importato a caro prezzo.
Attorno ai tavoli stavano camerieri col papillon e cameriere dal sorriso bianco-rosso e fisso, e ci stavano vasi di fiori chini e asfissiati nella calura estiva, e sculture di ghiaccio a forma di amorini, le cui guance paffute andavano dimagrendo e intristendosi mentre si scioglievano.
Gli sposi erano in testa, e la processione parentale appena dietro, un muro compatto di sostegno e felicità.
L’intero fronte si fermò quasi all’unisono, non appena scorse il mare alle spalle dei padiglioni. Non fu una cosa pensata né voluta, solo che nessuno, proprio nessuno, l’aveva mai visto di quel colore. In ognuna delle decine di teste lì presenti passarono le stesse immagini: il mare viola, grigio, verde scuro, arancione — così deleterio per le foto.
Ma nessuno riusciva a ricordarlo così, e questo soltanto spaventava. Nessuno, negli eleganti abiti da cerimonia o nelle scarpe troppo strette in punta, nessuno dietro il cappello nastrato o i boccoli riflessati con cura dal parrucchiere, nessuno si chiese perché.
A sconvolgere era solo quell’impossibile colore: rosso. Non carminio né scarlatto né ruggine, ma il rosso carico del sangue. L’unica cosa a cui fosse possibile paragonarlo.
Dopo vari istanti di silenzio, la prima timida voce a levarsi espresse dispiacere per quel non intonarsi al resto delle decorazioni, in un classico stile matrimoniale bianco e rosa. Incoraggiato da quell’esternazione di sano buon senso, qualcun altro deplorò la sfortuna ed espresse ad alta voce il timore generale: le fotografie non sarebbero venute come previsto.
Alina era confusa: divisa tra lo sposo — che mostrava segni di turbamento — il proprio dovere di ospite, i sorrisi di circostanza che vegliavano angelici sugli antipasti e quel mare così ostile.
Ma a consolare il figlio stava già pensando la nuora, convincendolo che si trattava di un buon auspicio, sulla base di un articolo new age letto anni prima. Al buffet ci pensavano gli invitati, che, dopo il momento di sconcerto iniziale, avevano stabilito che nessun colore poteva avere la precedenza sul sacrosanto appetito derivato da un’ora passata in piedi in una chiesa. E dopotutto i crostacei e le ostriche non si potevano sprecare, o sarebbero morti invano.
L’ostilità del mare sembrava però una faccenda più personale, e così la prese Alina, che si avvicinò al bagnasciuga, faticando a non rimanere piantata coi tacchi nella sabbia.
Le onde lambivano la riva in modo ritmico e pacifico, solo il loro oltraggioso colore irrideva ogni volontà e illusione che fosse tutto normale.
Per la prima volta dopo decenni, Alina si sforzò di capire quell’elemento tanto instabile quanto criptico.
Sì, la sera precedente c’era stata la notizia dello scoppio di una guerra. Alina l’aveva colta di sfuggita alla TV, ma era impegnata al telefono con la tizia delle bomboniere, che nel bigliettino aveva sbagliato a scrivere il nome dello sposo. Non si potevano certo distribuire così, e la tizia aveva assicurato che avrebbe subito risolto il problema. Nonostante ciò, Alina era giustamente preoccupata, e non aveva seguito granché quelle chiacchiere inscatolate piene di agitazione.
E comunque le guerre erano cosa spiacevole ma già vista. Ciò che era ingiusto e incomprensibile era che una cosa insulsa come una sfumatura di colore avesse potuto gettare un’ombra su una giornata in cui lei aveva messo tanta fatica. Non importava che detestasse la nuora, qui era questione di principio. Quale principio non avrebbe saputo spiegarlo chiaramente, ma di sicuro ce n’era uno.
Avrebbe voluto sgridare il mare per questo suo atteggiamento, per questa insistenza irragionevole nel mostrare alla gente qualcosa che a nessuno interessava. Ma non ricordava più i gesti e i termini che le venivano spontanei da bambina. Si limitò a increspare le labbra in modo più sprezzante possibile, pur senza rovinare il rossetto, e poi fece dietro-front, in cerca di un antipasto e un bicchiere di spumante.
Fu solo un paio d’anni dopo che la TV, quella scatola ormai obsoleta e limitata, subito prima di spegnersi per sempre diede la notizia che da qualche parte — vicino o lontano, stavolta non aveva importanza — un fosco trio di persone aveva messo mano a certi codici segreti, attivando una catastrofica reazione a catena.
Alina non sentì la notizia, in quel momento era sulla spiaggia. Aveva portato il nipotino a prendere un gelato e a familiarizzare con quell’entità estranea mai davvero compresa chiamata mare.
Lasciò il bambino a giocare con le conchiglie e fece qualche passo sul bagnasciuga, seguendo un richiamo derivato forse dall’abitudine. Ma per quanto avanzasse non riusciva a raggiungere la linea dell’acqua: la sabbia proseguiva e proseguiva, senza mai finire.
Impiegò diversi istanti prima di accorgersi che il mare non c’era più.
Sfumature
1Ci capita di non avere davvero la consapevolezza di quanto potere abbiamo, di quanto possiamo essere forti (A. Navalny)
Qualunque sia il tuo nome (HarperCollins)
La salvatrice di libri orfani (Alcheringa)
Il lato sbagliato del cielo (Arkadia)
Il tredicesimo segno (Words)
Qualunque sia il tuo nome (HarperCollins)
La salvatrice di libri orfani (Alcheringa)
Il lato sbagliato del cielo (Arkadia)
Il tredicesimo segno (Words)