Lo stile, ovverosia che cosa resterà di questi anni duemila?*

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@Marcello 30 marzo 2018
Domanda provocatoria, quella del titolo, che mi è nata fin dalle prime pagine di: "A che punto è la notte?" di Fruttero e Lucentini, finito di leggere pochi giorni fa.
Il romanzo, seicento pagine belle toste, è del 1979, trentanove anni fa: in letteratura non certo un'enormità, considerando poi che il periodo si può ulteriormente ridurre, dal momento che il binomio ha prodotto best-seller ancora per una decina di anni.
Ebbene, non ne ho per ovvie ragioni la controprova ma credo di poter affermare che un manoscritto del genere oggi sarebbe scartato da quasi tutti gli editori. La ragione? Lo stile di scrittura. Contiene più o meno tutti gli "errori" che un editor odierno (dai più grandi a quelli infinitamente piccoli come me) stigmatizzerebbe già a partire dalla terza o quarta pagina: frasi spesso complesse e ricche di subordinate, fino a tre o quattro avverbi in -mente nello stesso periodo e addirittura, udite udite, repentini cambi di PoV all'interno della stessa scena. Tralascio altri dettagli di minore importanza, che pure esistono e si ripetono per l'intero romanzo.
Eppure è stato un best-seller, eppure dopo quasi quarant'anni figura ancora nel catalogo degli Oscar Mondadori.
Sono stato prolisso come al solito, ma arrivo alla domanda: e se attorno al duemilacinquanta i critici letterari dell'epoca prendessero in mano un romanzo scritto oggi, magari da un autore che esce da una scuola di scrittura, editato a regola d'arte... eccetera eccetera... e dicessero:
"Guarda che roba: un punto ogni tre parole, frasi minimali, senza un aggettivo o un avverbio... Di', ma ti rendi conto come scriveva la gente trent'anni fa? Roba da non credere!" ?


@Adriano Strinati 30 marzo 2018
Crollo dal sonno, ripasserò per una risposta sensata. Nel frattempo ci rifletto su.
Però già qui posso sbilanciarmi:


...e se attorno al duemilacinquanta i critici letterari dell'epoca prendessero in mano un romanzo scritto oggi, magari da un autore che esce da una scuola di scrittura, editato a regola d'arte... eccetera eccetera... e dicessero:
"Guarda che roba: un punto ogni tre parole, frasi minimali, senza un aggettivo o un avverbio... Dì, ma ti rendi conto come scriveva la gente trent'anni fa? Roba da non credere!" ?

Penso proprio che sarà così. Alla stregua di molte altre cose, come il cibo, il vestiario, le acconciature.
Siamo ritagliati sul periodo storico in cui viviamo. Non c'è niente di male, in fondo. Abbiamo la nostra data di scadenza. E ciò che supera le barriere del tempo, ciò che entra nell'olimpo dei classici, è comunque la fotografia di un passato diverso dall'oggi, da qualunque oggi.
Siamo giusti qui e ora. Domani ci sarà un giusto diverso, e un altro dopo ancora.


@massimopud 31 marzo 2018
Alla fine a sfrondare mode, SMSismi, Pov, Povia (ma sì, già che ci siamo), a separare il grano dai youtuber, a scaraventare nella Geenna cuochi e influencer, sarà lui: il Robin Hood dei romanzieri, lo Zorro dei poeti, il Charles Bronson dei drammaturghi, il sommo VAR della letteratura, perché come ci insegna Einstein lo spazio-tempo è galantuomo.

@Adriano Strinati 31 marzo 2018
[...]
Nel frattempo ho elaborato un'altra considerazione. Senza dover ricorrere a un'analisi troppo dettagliata, è facile individuare alcuni nomi del passato che hanno marcato una svolta nel linguaggio scritto. Le scelte (in parte autonome, in parte con la mano guidata dalla Storia fino a quel momento) di costoro si ripercuotono tuttora nei nostri canoni stilistici, direttamente o come antenato di un canone successivo.
Esiste quindi il fattore "moda" di cui si parlava sopra, probabilmente preponderante, ed è sempre affiancato dal fattore "evoluzione" – che [...] non implica il miglioramento. Certo, oggi trovo improbabile che si presenti un personaggio illuminato, come accadeva nei secoli passati, la cui voce possa ergersi a canone o parte di un canone. Mi verrebbe da dire che chi nel piccolo si adopera per consolidare uno stile valido per il qui e ora sia il pezzettino di un grosso Dante o di uno Shakespeare collettivo. Nell'era di internet e dei social diventano in molti partecipi in piccolissima parte.
E se da un lato il merito dell'evoluzione si perde nella massa, dall'altro – forse e sottolineo forse – sarà davvero un po' più di tutti, e magari il segno del passaggio che lasciamo oggi sopravvivrà forte nel segno che lasceranno gli scrittori di domani.
Fermo restando che molto è moda, e il tempo lo sciacquerà via.


@Black 16 aprile 2018
Tornando alla domanda di Marcello:

e se attorno al duemilacinquanta i critici letterari dell'epoca prendessero in mano un romanzo scritto oggi, magari da un autore che esce da una scuola di scrittura, editato a regola d'arte... eccetera eccetera... e dicessero:
"Guarda che roba: un punto ogni tre parole, frasi minimali, senza un aggettivo o un avverbio... Dì, ma ti rendi conto come scriveva la gente trent'anni fa? Roba da non credere!" ?

Non credo che il cambiamento sarà tanto ampio e profondo quanto lo è stato rispetto a quaranta anni fa. Questo perché oggi viviamo in un mondo interconnesso, dove grazie a internet tutte le regole e non regole della letteratura sono alla portata di tutti (non solo degli scrittori, ma anche di chi gli scrittori li pubblica). Esiste la necessità di un consenso generale, universale, in contrapposizione a quella locale che esisteva in passato. Se da un lato questo ha comportato un appiattimento generale dello stile (senza rendere tutto uguale, però; sono venuti a mancare soltanto i rami "più deboli"), dall'altro lato si è raggiunto un equilibrio fra gli stili adottati in diverse lingue, nazioni e culture, che hanno condiviso fra loro i punti forti e soppresso gli altri. Il cambiamento non si fermerà, secondo me, ma sarà molto più lento e graduale, senza rivoluzioni eccessive; a meno che non cambi anche il nostro approccio alla lettura (come con le abbreviazioni degli SMS citati prima, quando mandarne uno costava caro, adesso in via d'estinzione) perché in quel caso tutto è possibile. :D

E che dire della demonizzazione degli avverbi in -mente? Della diffidenza nei confronti del gerundio? Dello "show don't tell?" Solo mode passeggere?

@mercy 31 agosto 2019
[Non stiamo andando verso un'involuzione della lingua? Lo dico perché] ammettiamolo, il nostro vocabolario si sta riducendo, fatta salva la tendenza a importare anglicismi.
Altro discorso per lo stile. La semplificazione della sintassi, le frasi brevi e secche, sono un modo di scrivere come un altro - a me non dispiace... come d'altronde non mi dispiacciono le prose barocche e ridondanti. Per dire: ho da poco letto Gadda. Gadda è complicato ed è fichissimo.
Ogni tempo ha il suo stile, credo, gli anni duemila passeranno come sono passati i pantaloni a zampa di elefante e quelli che lasciano scoperte le caviglie. Il bello è che potremo, a seconda di quello che abbiamo voglia di indossare la mattina, riutilizzare entrambi.


@Miss Ribston 31 agosto 2019
Ho scoperto di recente che esiste un motivo ben specifico per cui il vocabolario si riduce e la sintassi si semplifica, e dentro a questo motivo si trova anche il perché le generazioni post 2000 leggono sempre meno.
Per farla breve, da quando si è scoperto che l'elettricità poteva essere utile a scambiarsi informazioni, in forma sia orale che scritta, si è innescato un processo di evoluzione sociologica, il terzo più grande della Storia, che ha avuto il vero e proprio inizio con l'avvento di internet. In sociologia chiamano questa era "Seconda Oralità", caratterizzata dal fatto che proprio la scrittura volge verso espressioni sempre più simili al parlato comune, quindi senza più una netta distinzione tra lo scritto e il parlato. Per il momento, questo accade soprattutto nelle comunicazioni dirette tra persone: si scrivono messaggi brevi e sintetici, coadiuvati da emoticons, rappresentative delle espressioni del viso (tipiche di una conversazione diretta); si mandano messaggi vocali; ci si chiama al telefono o ci si parla a schermo tramite videochiamate. Le produzioni video trasmettono messaggi facendo leva sul senso della vista e, ancora, dell'udito. La storia della vita viene condivisa attraverso immagini tramite i social media. Si fanno avanti nella vita comune i dispositivi elettronico-digitali "intelligenti", che permettono all'utente un'interazione di tipo vocale.
Insomma, tutto volge verso un ritorno all'oralità, supportata dalla scrittura che ne fa da tramite. Non più due cose scisse, ma la seconda dipendente dalla prima e utilizzata nella minore misura possibile, con un vocabolario sintetico, perché non è necessario utilizzare molte parole per messaggi di poche righe.
L'evoluzione è in questo senso, che piaccia o meno, e anche il Libro evolve con l'Uomo, adattandosi alle sue preferenze: vocabolario e sintassi semplificate. Non tutti sono così, certo, perché siamo ancora in un periodo di passaggio evolutivo, con personaggi appartenenti a differenti ere preponderanti che si incrociano, influenzandosi a vicenda.

[...]
Bibliografia riguardo la semplificazione della lingua:
Matteo Ciastellardi, Media Culture Design. Introduzione alla Cultura dei Media per il Design della Comunicazione. (Punto di vista positivo del cambiamento in atto)
Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale. (Punto di vista negativo – da taglio delle vene – del cambiamento in atto, ma scritto molto bene)


@Edu 31 agosto 2019
Scopro solo adesso questa interessantissima discussione. Leggendo la primissima considerazione di @Marcello non ho potuto fare a meno di pensare: e allora, vogliamo parlare di un libro come Diceria dell'untore (che ho appena finito di leggere)?!
Per percorso di formazione personale, mi sono spesso e volentieri interessato al concetto di "normalizzazione", ovvero alle pressioni di vario genere che spingono a conformarsi a una determinata "norma", a un determinato modello. In ogni epoca, come osserva giustamente @Adriano Strinati, c'è una norma e c'è un gusto, e da una parte è bello e significativo che ci sia, perché quando leggiamo, che so, un i viaggi di Gulliver, e lo stesso dicasi di quando guardiamo le ninfee di Monet, riconosciamo l'atmosfera propria del tempo, di cui le opere sono testimonianza duratura.
Detto ciò, se i modelli cambiano è da una parte perché la società cambia, dall'altra perché accanto alle spinte normalizzatrici ci sono sempre spinte di rottura dei canoni: la dialettica è continua. Dunque, a mio avviso, un buon editor non dovrebbe ricondurre per forza tutto a norma, ma saper riconoscere cosa è frutto di un tentativo di scrittura consapevole e cosa è frutto di ignoranza di come si scrive. Lo so, sembra facile, ma non lo è affatto. E per contro, per rispondere a @Adriano Strinati, secondo me un aspirante scrittore non deve porsi il problema di adeguarsi, ma di trovare il proprio stile e la propria voce, e che sia una voce consapevole. Una volta fatto questo, credo, hai fatto il tuo. Poi, se c'è un problema nel mondo dell'editoria e si pubblica sempre e solo un determinato format, è, per l'appunto, un problema dell'editoria. Io ho un caro amico che ha una piccola casa editrice (non faccio il nome per non fare spamming) che pubblica solo romanzi di scrittura sperimentale (da intendersi non in senso estremo: semplicemente romanzi che provano a osare un po' di più rispetto al trito e ritrito), e, se è vero che rimane un piccolissimo editore, è anche vero che si è tolto soddisfazioni enormi rispetto alle dimensioni della casa editrice.
Sul periodare breve o lungo: mi rammarico che sia messo fuori legge un determinato stile. è meglio Mozart o Bach? Ma meno male che sono esistiti entrambi!


*Riporto di una lunga discussione sul WD gli interventi degli utenti che mi hanno esplicitamente autorizzata a citarli. La questione, secondo me, è interessate e ancora aperta... (NotadiMercy)
Qui ci dedichiamo alla ricerca della verità, non dei fatti. Se vi interessano i fatti, il dipartimento di storia è al terzo piano.
(semicit.)

Re: Lo stile, ovverosia che cosa resterà di questi anni duemila?*

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Mi permetto di intervenire umilmente da praticone quale sono e sono sempre stato. Le mode nascono, mutano, muoiono, non è certo una novità. Chi scrive e pubblica lo fa per essere letto, non possono esserci dubbi. Le mode c'è chi le segue e chi le fa, inoltre chi scrive e pubblica lo fa nella speranza, anche se non sempre dichiarata, di lasciare qualcosa che duri nel tempo e che rimanga nella memoria, magari delle generazioni future. Certo, è una sorte riservata a chi diventa famoso, ma nessuno scriverebbe sulla sabbia cose per lui importanti, cancellabili dalla prima onda o dal primo colpo di vento. Se non scrivi secondo la moda corrente, nessuno ti pubblicherà? Non credo che sia assiomatico a patto che ciò che scrivi, moda o non moda, possa interessare e risulti validamente espresso in un linguaggio accessibile al lettore e da questi comprensibile. A patto che ciò che scrivi susciti nel lettore emozione e voglia di continuare a leggerti. Perché le mode e le persone passano, i libri restano.
Mario Izzi
2025 - Sopravvissuti
(in)giustizia & dintorni
Dea
[/De gustibus non est sputazzellam (Antonio de Curtis, in arte Totò)]
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