Il momento comico

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(dal topic omonimo aperto da Swetty, in “Scrivere, WD” 18/01/2012)

Si sa che far ridere è più difficile che far piangere ed è immagino per questo che la stragrande maggioranza dei racconti sono strappalacrime.
Però sto leggendo il topic sulle ricerche folli di Google e sono piegata in due. Ne voglio ancora. Non mi stancherei mai di ridere, mentre dopo un po' piangere stufa tutti: per questo credo che saper far ridere sia un'arma potentissima nelle mani di uno scrittore.
So che ci sono anche utenti dediti al teatro, dove la parte comica è più diffusa, ma in generale, vogliamo parlare di come far ridere? Se qualcuno ha qualche dritta, qualche consiglio, guida, quello che si vuole, può parlare di come cerca di far ridere il lettore.
I intend to live forever, or die trying.
(Groucho Marx)

Re: Il momento comico

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Dalle risposte al topic originale risulta un'oggettiva difficoltà a dare delle vere linee guida per una scrittura che faccia divertire, nonché l'impossibilità di universalizzare il concetto di comico.
Non è possibile far ridere tutti: non ridiamo tutti delle stesse cose. Una scena, o una frase che all’uno sembra spassosissima risulterà all’altro desolante o sciocca. Un buon punto di partenza, se si vuole ottenere un effetto comico, è dunque quello di riflettere sul target a cui si rivolge la battuta. Nella stesura di un racconto o di un romanzo bisognerà dunque tentare di utilizzare un umorismo adatto al pubblico cui è destinato, o in ogni caso al pubblico più suscettibile di interessarsi a quel testo.

Riporto, quasi integralmente, due interventi di Nanni, sempre dal topic "Il momento comico" in Scrivere, WD, che mi sono parsi davvero interessanti.

«La risata è un "modulo sociale", uno di quei meccanismi basati sull’empatia, cioè sulla capacità di sentire propri gli stati d’animo altrui. Come, per usare un esempio molto semplice, lo sbadiglio: in un gruppo se uno sbadiglia finiscono per sbadigliare tutti. Lo sbadiglio è contagioso come il riso.
Nel contesto in cui si è evoluto e configurato, quello di piccole bande che vagano nella savana, che utilità può avere il riso? Secondo Bergson avverte la persona di cui si ride che i suoi comportamenti non sono del tutto corretti rispetto allo standard del gruppo.
Il soggetto del riso è, a tutti gli effetti, un membro del gruppo (o, più in generale, un essere umano) però, se insistesse nei suoi comportamenti, rischierebbe di passare dal divertimento alla derisione e poi all’espulsione.
Per esempio molto si ride dei bambini, perché i bambini non sono ancora uomini. In generale il bambino stesso si diverte moltissimo quando si ride di lui. Talvolta ripete le azioni che portano al riso. Mettiamo siano smorfie curiose.
Ma una volta cresciuto, anche se le risate gli hanno dato piacere (come hanno dato piacere agli adulti, spesso questo genere di moduli sono piacevoli perché è piacevole sentirsi parte attiva di un gruppo) il bambino eviterà accuratamente di fare proprio quelle smorfie che lo divertivano, si tratterebbe quindi di un processo di apprendimento. Si potrebbe persino ipotizzare che i bambini delle cui smorfie si è riso molto siano meno espressivi degli altri. Non so se sia vero ma è un esperimento verificabile tramite statistiche.
Bergson mette in particolare l’accento sul fatto che si rida di animali che simulano comportamenti umani e su questa affermazione, grazie ai cartoons come quelli di Disney non abbiamo più dubbi.
Si ride insomma di ciò che è al confine tra umano e animale. Per questo motivo è difficile far ridere: col pianto (altro modulo di comportamento sociale semi innato) con la paura eccetera ci si può spingere fino a dove ci si vuole spingere, col riso non si può, se il soggetto del riso si allontana troppo dalla zona di confine non fa più ridere.» (Nanni, in "Il momento comico" il 18/01/2012)

https://www.writersdream.org/forum/foru ... ent=149471

«C'è un umorismo di scrittura e un umorismo di situazione. Per gli anglosassoni è soprattutto il primo, direi. Una scrittura brillante può rendere comico un fatto che da solo non lo sarebbe.
Oppure la storia stessa può contenere elementi paradossali che la rendono comica. L'umorismo, si potrebbe dire, è cablato in essa.
Prendiamo la coscienza di Zeno, di Svevo. Chi oserebbe definirlo un libro comico? Eppure lo è e mi sono divertito moltissimo nel leggerlo. Zeno Cosini, in un capitolo, chiede la mano della donna di cui è innamorato, che gliela rifiuta. Ma è la prima di tre sorelle. Quasi per sdrammatizzare, per togliere importanza alla sua richiesta, allora Zeno fa la stessa richiesta alla sorella intermedia, che ovviamente lo rifiuta anche lei, poi passa alla terza, la più bruttina e, almeno in apparenza la meno dotata delle tre.
Ma noi sappiamo, e se non ricordo male lo sa anche lui, che questa è profondamente innamorata. Così il lettore è portato quasi a cercare di intervenire per dire a Zeno di non farlo, di fermarsi finché è in tempo. Ma Zeno, sullo slancio, fa la sua richiesta, e la ragazza inevitabilmente accetta, incastrandolo.
È decisamente una situazione comica, ma la prosa non è più brillante qui che nel resto del romanzo, è quello che succede a essere divertente, non il modo in cui è raccontato. Pensate che una situazione molto simile si ritrova in un film di Woody Allen, non ricordo più quale.
Che poi la ragazza si riveli, nel proseguo della storia, una scelta ottima, aggiunge ulteriore sale alla vicenda e porta al cuore del romanzo: Zeno Cosini sa, nella sua coscienza, di non meritare tutta la fortuna che ha ricevuto dalla vita. Proprio perché conosce la stupidità, talvolta la meschineria, che c'è dietro certe sue scelte che appaiono da fuori particolarmente intelligenti e dall'ottima riuscita.» (Nanni, in "Il momento comico" il 26/03/2013)

https://www.writersdream.org/forum/foru ... ent=279848
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Re: Il momento comico

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Se parliamo di esperienze dirette, a me non è mai capitato di scrivere una storia totalmente umoristica o comica. Però mi capita spesso di sdrammatizzare la tensione di alcuni momenti narrativi con delle battute tra i personaggi, o situazioni paradossali all'interno di altre, di fatto tragiche o di tensione.
Del resto è la vita a essere così: in ogni situazione tragica, a ben vedere, c'è qualche spunto umoristico, o cinico, o ironico, grottesco. Lo cogliamo spesso a distanza di tempo, a volte di anni. Quando siamo dentro a un determinato evento e lo viviamo, se triste, drammatico, ansiogeno, lo percepiamo come tale. Basta distaccarsene un po' per poter scorgere anche altro. Sarà capitato a molti, immagino, ripensando a un evento vissuto e percepito come triste o drammatico, di dirsi a distanza di anni: "Quanto ero patetico/a" e sorriderci anche o riderne addirittura.
Credo per questo che inserire qualche momento sdrammatizzante in un thriller, dramma, giallo, aventura, ecc... possa essere non solo utile per rompere la possibile "monotonia" del momento e non "ammorbare" il lettore, ma sia anche credibile.
L'importante è non caricare eccessivamente, sino ad apparire poco verosimili. La battuta o l'evento sdrammatizzante devono essere congruenti e soprattutto episodici. Diversamente si finisce per risultare improbabili o persino inopportuni; come in certi film di tensione, in cui le battute a raffica gettate là stonano in maniera lampante.

Re: Il momento comico

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Vi racconto la mia esperienza con la scrittura comica. A dire la verità è l'unica esperienza di scrittura di cui possa raccontare. In effetti il registro ironico ed umoristico è la mia cifra. Nella vita come nella scrittura non riesco a fare a meno di sdrammatizzare, porgere a chi mi ascolta l'occasione per sorridere, o ridere, o sganasciarsi. E' un rito catartico. La debolezza umana che non ha paura di mettersi a nudo spesso provoca il riso. Fateci caso. Perchè? A mio avviso il segreto sta tutto nel rapporto di empatia, è un processo di identificazione, perchè la condivisione delle nostre imperfezioni esorcizza la nostra paura di non essere perfetti.
Ma se mi chiedete come si fa a far ridere scrivendo non saprei rispondere. E' l'intuito del ritmo, la capacità di sintesi, l'istinto nel suggerire senza dire.
Durante l'editing del mio romanzo ho avuto, soprattutto all'inizio, grosse difficoltà con l'editor. Lui provava a rendere più eleganti alcune frasi. Meno involute altre espressioni. Ma io caparbia insistevo nel lasciarle esattamente com'erano. Sicuramente le sue proposte erano più corrette dal punto di vista lessicale e sintattico, ma non facevano ridere. A volte basta un avverbio in meno, una virgola di troppo e si perde la vis comica. E' un pò come spiegare le barzellette. Non si deve. Mai.
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