A che serve il futuro?

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Si dice spesso che il congiuntivo stia per morire, ma secondo me non è vero. Quello che sta realmente svanendo è il futuro. Non mi sento di salvarlo perché lo ritengo inutile. Non parlo del futuro "suppositivo" ("quella torta se la sarà pappata Giulio"), ma solo di quello "temporale" univerbato ("lo farò", "lo dirò", ecc…). Esistono molte lingue senza futuro univerbato: per esempio, il finlandese, che oltretutto non ha nemmeno i possessivi.
Un altro esempio è l'inglese (o "dialetto angloamericano" ;) ).

Il latino classico aveva il futuro univerbato, ma, per dire, mancava del condizionale. Eppure, nonostante la propria potenza, nemmeno lui è riuscito a produrre solo lingue con il futuro, infatti alcune lingue romanze non hanno il futuro, però quasi tutte hanno il condizionale. Figli che si sono ribellati alla madre! In realtà, credo, per comunicare alla fin fine bastano solo due tempi: uno per il presente e uno per il passato. Questi esistono: il passato esiste perché è già successo, il presente esiste perché accade mentre parlo. Ma il futuro (univerbato o meno)? Non esiste! È come un sogno.

Io non ragiono con "Giulio farà…", ma con "Giulio ha intenzione di fare…". Sono due filosofie: filosofia "all'italiana" e filosofia "alla dyskolos". Nella filosofia "alla dyskolos", per capirci, la frase è pensata senza futuro: nel presente posso solo esprimere una mia intenzione, esporre un programma, un progetto, essendo io ancorato saldamente al presente: io vivo il presente, mica il futuro! Il problema si presenta anche quando devo tradurre una frase pensata "all'italiana" in una pensata "alla dyskolos". Lì ci vorrebbe innanzitutto una traduzione transculturale. Un po' come si fa quando si traducono i test psicologi ideati in America e poi proposti agli italiani, ma per fortuna non faccio il traduttore ;)

Tra l'altro, anche gli italianisti sono perplessi davanti al futuro, specie quando lo si inserisce nel modo indicativo, poiché quest'ultimo è il modo della certezza (anche solo soggettiva). Il portoghese, per esempio, ha il futuro pure nel modo congiuntivo. Filosofie di base diverse.

In definitiva, "io farò" che significa? "Ho intenzione di fare"?
Come si usa correttamente il futuro? In altre parole, come si usa una cosa che non esiste?
Dovrei cambiare la mia filosofia in quanto forvïante?
Il Sommo Misantropo

Re: A che serve il futuro?

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Interessante punto di vista, ma se io dico “le rose del mio giardino tra qualche giorno sfioriranno” o “la Terra esisterà ancora quando gli esseri umani saranno scomparsi” non esprimo supposizioni o intenzioni ma situazioni che effettivamente saranno (okay, la Terra potremmo forse riuscire a farla esplodere prima, ma è un’eventualità improbabile). 
Anche in questi casi vorresti usare un tempo diverso dal futuro? 

P.S. in che senso in latino il futuro era univerbato? Non ho capito. 
I intend to live forever, or die trying.
(Groucho Marx)

Re: A che serve il futuro?

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Bef ha scritto: se io dico “le rose del mio giardino tra qualche giorno sfioriranno” o “la Terra esisterà ancora quando gli esseri umani saranno scomparsi” non esprimo supposizioni o intenzioni ma situazioni che effettivamente saranno (okay, la Terra potremmo forse riuscire a farla esplodere prima, ma è un’eventualità improbabile). 
Anche in questi casi vorresti usare un tempo diverso dal futuro?  
Certo! Applicando la mia filosofia "alla dyskolos", come fai a sapere che le rose sfioriscono in un punto futuro del tempo se quel tempo non c'è, non esiste, non è ancora avvenuto? Non a caso il futuro si può chiamare avvenire: ciò che forse viene prima o poi, ma non è ancora venuto :)

"È possibile che le rose del mio giardino sfioriscano tra qualche giorno, ma è solo una mia ipotesi". Oppure "temo che le rose del mio giardino sfioriscano in pochi giorni, e io non lo vorrei", "le mie rose sono destinate a sfiorire in pochi giorni, di questo passo. Credo che sia arrivato il momento di fare qualcosa".
"La Terra potrebbe continuare a esistere anche senza la presenza degli uomini, che secondo me sono destinati a estinguersi in un futuro abbastanza vicino".
Nei miei esempi non ho usato tempi futuri, ma a me non sembrano frasi mal costruite.
Bef ha scritto:
P.S. in che senso in latino il futuro era univerbato? Non ho capito. 
:) Volevo dire che in latino si può esprimere il futuro in una sola parola. Esempio: "amabo, amabis, amabit, amabimus, amabitis, amabunt" = "amerò, amerai, amerà, ameremo, amerete, ameranno".

Poeta Zaza ha scritto: "Quando sarai grande capirai."
In inglese non sarebbe un problema tradurre questa frase, tanto nemmeno in inglese c'è il futuro univerbato :)
Eppure l'inglese è una delle lingue più usate al mondo e campa benissimo senza futuro.

"When you become adult, you can understand it. Now you are too young and I'm afraid you are not going to understand those things". Come vedi non c'è nessun futuro: become, can, are, am, go, understand… tutto al presente :)

Posso implicare il futuro, ma con qualche incertezza. Se dico "devo andare da mio fratello", uso il verbo al presente ("devo"), ma implico l'esistenza del futuro: se devo fare qualcosa, non l'ho ancora fatta, ma ho intenzione di farla. Se l'avessi fatta, direi "sono andato da mio fratello".

"Questo matrimonio non s'ha da fare, né domani né mai!", scrisse chi sappiamo. Ci sono futuri? No ("ha","fare"). Non servono. Sono inutili. Il futuro non esiste.
Domani vengo da te nella stupenda Liguria e ne parliamo con calma faccia a faccia :) Poi mi porti a vedere il patrimonio UNESCO delle Cinque Terre, se ti va.

Una cosa è l'aspetto, altra cosa è il valore semantico. Un verbo può avere l'aspetto di un presente, ma significare un futuro.
Il Sommo Misantropo

Re: A che serve il futuro?

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dyskolos ha scritto: se quel tempo non c'è, non esiste, non è ancora avvenuto? Non a caso il futuro si può chiamare avvenire: ciò che forse viene prima o poi,
Qui però pieghi le parole ai bisogni della tua ottica: il futuro è a venire, senza il forse. il fatto che noi non sappiamo come sarà non significa che non sarà.
Come il passato che non esiste più, anche del futuro abbiamo indizi: oggi è il futuro di ieri, così come un anno fa fu il futuro di due anni prima. So perfettamente che le rose sfioriranno perché ho già visto rose sfiorire: ho già visto il destino di una rosa compiersi più volte. Ci sono cose che possiamo dire certe anche se non sono ancora avvenute. Se, involontariamente, pesterò la coda al mio gatto, già so che miagolerà offeso e correrà via.

Rinunciare al futuro mi dispiacerebbe assai, soprattutto nella scrittura: io già so cosa succederà ai miei personaggi, perché dovrei fingere di non saperlo usando il condizionale?

Piuttosto, rimpiango la mancanza in italiano del presente progressivo che esiste, ed è assai utile, in inglese, francese e modenese, per citare alcune delle maggiori lingue vive attuali :D
I intend to live forever, or die trying.
(Groucho Marx)

Re: A che serve il futuro?

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Questo mi sembra un discorso più filosofico che grammaticale... poi certo a seconda dei popoli, delle lingue la concezione cambia.
Il futuro inteso come tempo grammaticale, di qualcosa che deve avvenire ritengo sia molto soggettivo a seconda delle genti e della loro storia.
Ancora oggi  dalle mie parti quando si  fa un saluto di commiato a qualcuno che abbia un po' di anni se uno dei due dice "Ci vediamo domani allora..." l'altro risponde sempre "Se Dio vuole..."  o "che Dio voglia" nel senso che il vedersi non dipende solo dal nostro desiderio materiale.
Naturalmente il discorso o l'augurio è improponibile con i giovani...
Anche parlando, se si ipoteca il futuro, ad esempio uno dice all'altro "...alla fine riuscirò a farmi una casa", poi aggiunge: "se Dio vuole"
Quelli di una certa generazione ci mettono Dio come garanzia di qualcosa da fare in futuro, come protezione. E non è detto che sia gente che entra e esce dalle chiese, me compreso.
Oppure, nell'ipotesi di fare qualcosa in comune spesso ho sentito dire "Un giorno faremo questo... o quest'altro..."
Sempre concluso da un "Se Dio vuole". Anche Dio è soggettivo.  Si presume sia quello cristiano, ma nel bacino mediterraneo non si sa mai...
In ultimo, un vecchio modo di dire in Sardegna, retaggio sabaudo e poi post unità d'Italia.
Sempre a proposito di intenzioni di cose da fare in futuro si diceva fra il serio e il faceto: "Si Deus cheret e sos Carabineris permittente..."  che sarebbe: "Se Dio vuole e i Carabinieri lo permettono"... 
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: A che serve il futuro?

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Adel J. Pellitteri ha scritto:
Lo sai che da noi questo tuo dire si chiama: malu chiffari. 
Ahahahah :D Lo so, lo so. U malu chiffari si è impadronito di me ormai :D
Ecco, mi hai fatto venire in mente un altro esempio di lingua romanza senza futuro univerbato: il siciliano. Denghiù, o mia coisolana di zúccaru :)

Alberto Tosciri ha scritto: Ancora oggi  dalle mie parti quando si  fa un saluto di commiato a qualcuno che abbia un po' di anni se uno dei due dice "Ci vediamo domani allora..." l'altro risponde sempre "Se Dio vuole...
Pure da me si dice, ma i Carabinieri non ce li mettiamo :)
Tipo: "Si Diu voli e campamu, dumani jemu mPalermu" = "Se Dio vuole e campiamo, domani andiamo a Palermo", oppure
Giovane: "auguri a Vossía pi dumani"
Vossía (anziano): "grazzi, si Diu voli…"
Giovane: "Voli, voli, Vossía campa chiossai di mia" = "Vuole, vuole, Voi camperete più di me" (in italiano ci metto il futuro, ma solo perché ne stiamo parlando).
A proposito, carissimo @Alberto Tosciri, in sardo c'è il futuro univerbato? Come si esprime il futuro in sardo? :)
Bef ha scritto:

Come il passato che non esiste più, anche del futuro abbiamo indizi: oggi è il futuro di ieri, così come un anno fa fu il futuro di due anni prima. So perfettamente che le rose sfioriranno perché ho già visto rose sfiorire: ho già visto il destino di una rosa compiersi più volte. Ci sono cose che possiamo dire certe anche se non sono ancora avvenute. Se, involontariamente, pesterò la coda al mio gatto, già so che miagolerà offeso e correrà via.

Rinunciare al futuro mi dispiacerebbe assai, soprattutto nella scrittura: io già so cosa succederà ai miei personaggi, perché dovrei fingere di non saperlo usando il condizionale?

Piuttosto, rimpiango la mancanza in italiano del presente progressivo che esiste, ed è assai utile, in inglese, francese e modenese, per citare alcune delle maggiori lingue vive attuali :D
Ahah :D Hai ragione. Vedi? Anche a te piacerebbe una diversa struttura verbale e quindi una nuova filosofia di base dell'italiano. :)

Interessante il tuo discorso e molto filosofico. Quindi, secondo te, se ho ben capito, il senso del futuro in italiano è quello di permettere di esprimere le regolarità. Registro, grazie :)

Però non mi convince molto. È come quando la prof. di filosofia all'uni mi chiedeva: "Se sappiamo che il sole sorge la mattina da miliardi di anni, allora possiamo essere certi che anche domani sorgerà?". La mia risposta era "No, non possiamo esserne certi" e lei annuiva. Tu probabilmente avresti risposto di sì, se ho ben capito. :)

Inoltre mi chiedo: ma allora come campano le lingue senza futuro univerbato? Sono la maggioranza. Qualche esempio: inglese, finlandese, siciliano, forse sardo (ma aspetto la risposta di Alberto ;) ), varie lingue parlate in Cina, varie lingue parlate in India, coreano…


Riprendo l'esempio del tuo paffutissimo gatto :) . "Ho un gatto che usa miagolare e scappare via offeso ogni volta che gli pesto la coda. Lo so per certo ormai, e, proprio perché lo so, questa volta voglio stare più attenta. Faccio due passi, l'aria del corridoio è gelida. Azz! Ma vaff… Gli ho pestato la coda anche oggi, matri mia, eppure mi ero imposta di essere particolarmente cauta. Mannaggia a me e a quando sono nata! Mi viene da bestemmiare a volte, ma ora mi trattengo. Niè, cambio gatto, ho deciso! Domani vado al mercato :) ".
Non c'è futuro, eppure ho raccontato qualcosa, credo, o forse no, ma la mia intenzione era di scrivere bene :)
Il Sommo Misantropo

Re: A che serve il futuro?

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dyskolos ha scritto: A proposito, carissimo @Alberto Tosciri, in sardo c'è il futuro univerbato? Come si esprime il futuro in sardo? :)
Un verbo futuro con una sola parola?  :libro: Mi pare di non aver mai sentito nulla del genere in sardo, ma non sono un esperto grammatico... non vorrei dire assurdità...  :D
Secondo me non esiste e dovrei fare un esempio.
Sempre nei ristretti confini della mia provincia non dicono "farò"  (io farò) non è possibile dirlo così, linguisticamente, ma dicono "Io dovrò fare" "Eo (o Geo) appo a faere...".
O "Uscirò domani" con "Dovrò uscire domani" - Appo  a essire crasa - 
Non so specificare la parola "Appo" ma messa davanti a un verbo significa l'esigenza di fare qualcosa in un futuro.
"Crasa appo a erriere"...  Domai riderò  :D
O "Uscirò questo venerdì" con "Dovrò uscire questo venerdì"  "Appo a essire qustu cenabra..."
Nota che cenabra - venerdì, deriva dalla cena agra, dal pane azzimo che usano gli ebrei in certe particolari ricorrenze...
Qui si aprirebbero tomi di storia  antica  :D 
Tra l'altro ho sempre saputo e recentemente scoperto con certezza che numerosi cognomi di nonni e bisnonni e trisnonni da parte di madre sono di lontana origine ebraica... come pure modi inconsci di compiere alcune azioni comuni risalgono agli ebrei sefarditi cacciati da Sefarad, come gli ebrei chiamavano la Spagna ai tempi della loro cacciata nel XV secolo...
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: A che serve il futuro?

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Poeta Zaza ha scritto: "Quando sarai grande capirai."

Questa frase, che forse abbiamo ascoltato tutti, è un classico esempio di come sia indispensabile esprimere il tempo verbale temporale di là da venire.
dyskolos ha scritto: "When you become adult, you can understand it. 
Caro @dyskolos 
capisco l'inglese, ma da italiana sono contenta di avere un futuro!  ;)  
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi

Re: A che serve il futuro?

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Poeta Zaza ha scritto: Caro @dyskolos 
capisco l'inglese, ma da italiana sono contenta di avere un futuro!  ;)  
Anche io, il futuro è importante ;)

Alberto Tosciri ha scritto: Un verbo futuro con una sola parola?  :libro: Mi pare di non aver mai sentito nulla del genere in sardo, ma non sono un esperto grammatico... non vorrei dire assurdità...  :D
Secondo me non esiste e dovrei fare un esempio.
Sempre nei ristretti confini della mia provincia non dicono "farò"  (io farò) non è possibile dirlo così, linguisticamente, ma dicono "Io dovrò fare" "Eo (o Geo) appo a faere...".
O "Uscirò domani" con "Dovrò uscire domani" - Appo  a essire crasa - 
Non so specificare la parola "Appo" ma messa davanti a un verbo significa l'esigenza di fare qualcosa in un futuro.
"Crasa appo a erriere"...  Domai riderò  :D
Wow! Praticamente come in siciliano. Sardo e siciliano hanno la stessa filosofia di base. Anche qui "io farò" si dice letteralmente "io devo fare". Per esprimere il dovere (o il futuro, è uguale) si usa la perifrastica "avere a + infinito". Es.: "io farò" ---> "iu àiu a fari" ("io ho a fare"), che significa sia "io farò" sia "io devo fare". Nella filosofia siciliana (e sarda :) ), il dovere implica il futuro: sono la stessa cosa.
Anche in siciliano si usa una forma di "appo", che in realtà è il passato perfetto del verbo "aviri" ("avere"). Unito a " a + infinito" esprime il dovere o il futuro (nel passato). Coniugato fa: "iu appi a, tu avísti a, iḍḍu/iḍḍa appi a, nuiautri àppimu a, vuiautri avístivu a, iḍḍi àppiru a".
Secondo me c'entrano gli Spagnoli, che, come sai, sono stati in Sardegna per 400 anni, mentre quasi 200 in Sicilia (dal 1516 al 1713). 
Alberto Tosciri ha scritto: O "Uscirò questo venerdì" con "Dovrò uscire questo venerdì"  "Appo a essire qustu cenabra..."
Nota che cenabra - venerdì, deriva dalla cena agra, dal pane azzimo che usano gli ebrei in certe particolari ricorrenze...
Qui si aprirebbero tomi di storia  antica  :D 
Tra l'altro ho sempre saputo e recentemente scoperto con certezza che numerosi cognomi di nonni e bisnonni e trisnonni da parte di madre sono di lontana origine ebraica... come pure modi inconsci di compiere alcune azioni comuni risalgono agli ebrei sefarditi cacciati da Sefarad, come gli ebrei chiamavano la Spagna ai tempi della loro cacciata nel XV secolo...
Interessante! Non sapevo la cosa del venerdì/cenabra. :)

Si aprirebbero tomi di storia, è vero :D
Il Sommo Misantropo

Re: A che serve il futuro?

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dyskolos ha scritto: possiamo essere certi che anche domani sorgerà?"
possiamo essere certi che, a meno di imprevedibili cataclismi, sorgerà :D

a parte gli scherzi, quello che non mi piace nella tua prospettiva è un certo antropocentrismo: poiché io, essere umano, non conosco il futuro, allora non esiste. Il futuro non esiste ma, che noi lo conosciamo o no, che noi siamo là per vederlo o no, esisterà, anche se allora si chiamerà presente (a meno che non lo interpretiamo come una dimensione e, semplicemente, esiste già ma noi ancora non l'abbiamo raggiunto). È una certezza che, a meno di morire giovani, invecchieremo. E di sicuro, prima o poi, moriremo. Le mie rose sfioriranno, ma altri fiori sbocceranno; il sole tramonterà e domani s'alzerà ancora.
Una forma will + verbo sul modello inglese ha, a mio modo di vedere, una sfumatura di "volontà" che non mi piace: I will survive sembra dirci che sopravviverò perché lo voglio, come se bastasse. No: sopravviverò, forse (o se Dio vuole, per citare i vostri scambi di prima :) ).
E, oltretutto, l'esempio della lingua inglese è fuorviante: poiché tu vorresti rinunciare al futuro per usare il condizionale, ma gli inglesi non hanno nemmeno il condizionale univerbato, anche quello si forma con la cooperazione di due verbi. Non mi sembra un modello applicabile all'italiano.

Il futuro dell'indicativo è un verbo utile, e rassicurante. Vuoi privarmi del piacere di leggere nelle pagine di un romanzo "Tizio saluta la sorella con un cenno. Non sa che sarà l'ultima volta". vuoi togliermi il piacere di sentirmi onnisciente ai danni dell'ignaro personaggio?
E, ancor peggio, invece del confortante balsamo orale: "vedrai che passerà. Ti sembra impossibile, ora, ma col tempo tornerai a sorridere", vuoi che tentiamo di consolare chi soffre della prima delusione amorosa o di un'ingiustizia della vita con una cosa come: "ci sono probabilità che ti passi, a meno che tu non muoia prima o qualcuno non aggiunga sale sulle tue ferite, o che non incontri mai più una persona di cui innamorarti, o entri in depressione... ma potrebbe passare, dai, non disperare!"

In conclusione, continuerò ad usare, e amare, il futuro. E persino quello anteriore, tié! :lol:
I intend to live forever, or die trying.
(Groucho Marx)

Re: A che serve il futuro?

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Bef ha scritto: a parte gli scherzi, quello che non mi piace nella tua prospettiva è un certo antropocentrismo: poiché io, essere umano, non conosco il futuro, allora non esiste. Il futuro non esiste ma, che noi lo conosciamo o no, che noi siamo là per vederlo o no, esisterà, anche se allora si chiamerà presente (a meno che non lo interpretiamo come una dimensione e, semplicemente, esiste già ma noi ancora non l'abbiamo raggiunto). È una certezza che, a meno di morire giovani, invecchieremo. E di sicuro, prima o poi, moriremo. Le mie rose sfioriranno, ma altri fiori sbocceranno; il sole tramonterà e domani s'alzerà ancora.
Mi fai ridere perché sei troppo simpatica :D
Tu stessa dici che il futuro non esiste. Antropocentrica anche tu? Piacere, collega! :) Poi aggiungi un "ma" e mi ricordi quelli che dicono "non sono razzista ma…" e poi dicono le peggio "razzisterìe" del mondo :D
Lo so che invecchiamo di continuo e poi moriamo. Anche tu e io invecchiamo e poi andiamo in Paradiso da San Pietro a bere il caffè (italiano però, quello francese… per carità! ;) ). So anche che le tue rose sfioriscono, che il sole stasera tramonta e poi domani risorge. Lo so, eh :)

Bef ha scritto:
E, oltretutto, l'esempio della lingua inglese è fuorviante: poiché tu vorresti rinunciare al futuro per usare il condizionale

E questo dove l'hai letto? Io non voglio sostituire il futuro con il condizionale. Figuriamoci! :) :lol:


Bef ha scritto: Vuoi privarmi del piacere di leggere nelle pagine di un romanzo "Tizio saluta la sorella con un cenno. Non sa che sarà l'ultima volta". vuoi togliermi il piacere di sentirmi onnisciente ai danni dell'ignaro personaggio?

Ahah :D 

No, non ti voglio levare nessun piacere :)

Io scriverei: "Tizio saluta la sorella con un cenno. Non sa che quella è l'ultima volta (che lo fa)". Più efficace, no? :) Sei sempre onnisciente :lol:


  ha scritto:vuoi che tentiamo di consolare chi soffre della prima delusione amorosa o di un'ingiustizia della vita con una cosa come: "ci sono probabilità che ti passi, a meno che tu non muoia prima o qualcuno non aggiunga sale sulle tue ferite, o che non incontri mai più una persona di cui innamorarti, o entri in depressione... ma potrebbe passare, dai, non disperare!"

Ahah :) Troppo simpatica :lol:

Così mi sembra il personaggio di Furio in un film di Carlo Verdone. :)

Nella mia filosofia, a una che ha avuto una delusione d'amore, direi: "Futtitiiiiiiiiiiinni, quello è un bastardo. Voi femminucce vi innamorate sempre dei bastardoni. Vieni con me". E poi: "Me la dai stasera?". Se le dico "Me la darai stasera?" matematico che passo la notte in bianco. Scommettiamo? :lol: Meglio l'indicativo.



 
Bef ha scritto: In conclusione, continuerò ad usare, e amare, il futuro. E persino quello anteriore, tié! :lol:

Voglio essere buono stasera. Te lo concedo, dai :lol:


Gualduccig ha scritto: Che sia un italiano a metterlo in discussione è cosa che affonda le radici nella tradizione filosofico-politica del Bel Paese...

:-P
:P Appunto :)
Il Sommo Misantropo

Re: A che serve il futuro?

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dyskolos ha scritto: Per esprimere il dovere (o il futuro, è uguale) si usa la perifrastica "avere a + infinito". Es.: "io farò" ---> "iu àiu a fari" ("io ho a fare"), che significa sia "io farò" sia "io devo fare". Nella filosofia siciliana (e sarda :) ), il dovere implica iil futuro: sono la stessa cosa.
@dyskolos  smetti di darti importanza con queste forme dialettali... Il futuro credo non esista in nessun dialetto, o comunque in buona parte dei dialetti.
"Avere da" esprime il dovere anche in romagnolo (a iò da andè = ho da andare, quindi devo andare), dove esiste anche la forma con il congiuntivo: bsogna ca vega = bisogna, occorre che io vada).
Questa idea filosofica dell'assenza del futuro è la solita menata per fare scrivere pagine e pagine di interventi alla gente :tze: . 
Il futuro non esiste nei dialetti perché sono forme più povere delle lingue, dove la comunicazione si fa più essenziale, sia in termine di numero di vocaboli (fermo restando che in ogni dialetto esistono vocaboli più espressivi dei corrispondenti italiani, o anche unici, di cui manca proprio una corrispondenza in italiano) sia, soprattutto, in termini di strutture sintattiche.
Il futuro non si può eliminare da una lingua, dalla nostra lingua in particolare che è una delle più ricche, se non impoverendola. :evvai: 

E adesso vai pure con il tuo post di risposta da trentamila caratteri :hihi: 
https://www.facebook.com/nucciarelli.ma ... scrittore/
https://www.instagram.com/marcellonucciarelli/
https://www.linkedin.com/in/marcello-nu ... -bbb4805b/

Re: A che serve il futuro?

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Mi risparmio la questione dei tempi univerbati per un momento di maggior lucidità... :facepalm:
È vero che alcune lingue non hanno il futuro. L'inglese usa "I will", che indica una volontà più che una certezza (la frase "quando crescerai, capirai" io la tradurrei "when you'll grow, you'll understand"), in italiano però il futuro è certo e definito. Forse siamo più ottimisti :lol:
Anche in dialetto trentino il futuro esiste (e sì che siamo pessimisti di natura). L'espressione più comune che mi viene è "Te vederai" (vedrai), forse perché me la sono sentita dire spesso. Non so se è univerbale, ma anche il presente e il passato sono costruiti così ("Te vedi" "T'hai vist"), quindi non c'è alcuna discriminazione  :P 

Più critico è il fatto che nel linguaggio di ogni giorno il futuro si usi sempre meno. Per rendere un dialogo realistico io tendo a mettere il presente "Se posso, vengo volentieri" non "Se potrò, verrò volentieri" che è più corretto ma pochissimi lo userebbero davvero in un discorso, quindi mi suona artefatto.
In realtà secondo me siamo già fin troppo proiettati in avanti: consideriamo i programmi dei prossimi giorni /settimane come una certezza. Il futuro come tempo serve, per tracciare una linea tra ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà (o che speriamo/ci aspettiamo sarà). Che sia in un unico verbo o composto, non credo che il senso o l'importanza cambino. Immagino che in qualunque lingua e parte del mondo si immagini un futuro
Ci capita di non avere davvero la consapevolezza di quanto potere abbiamo, di quanto possiamo essere forti (A. Navalny)
Qualunque sia il tuo nome (HarperCollins)
La salvatrice di libri orfani (Alcheringa)
Il lato sbagliato del cielo (Arkadia)
Il tredicesimo segno (Words)

Re: A che serve il futuro?

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Marcello ha scritto: Il futuro non esiste nei dialetti perché sono forme più povere delle lingue, dove la comunicazione si fa più essenziale, sia in termine di numero di vocaboli
Infatti in dialetto non esistono parole come cibernetica, armadillo o esegesi; il dialetto è una lingua economica, sia in termini di varietà di parole che di concisione nei costrutti, e come tale è molto efficace quando deve condensare concetti in forma di  proverbio, aforisma, etc. oppure nel fare una battuta di spirito o anche nel linguaggio affettivo/sentimentale. 

Lo è molto meno quando deve avventurarsi su questioni filosofiche, scientifiche, etc. Questo non toglie che a volte possa essere molto preciso quando descrive cose che derivano dall'osservazione secolare del mondo naturale (piante, animali, il corpo umano). 
Un esempio: in molti dialetti meridionali il coccige (il cui etimo sarebbe κόκκυξ, cuculo, che non c'entra granché) viene chiamato "cudiddha", "piccola coda", cioè quello che è esattamente: una antica piccola coda atrofizzatasi nel corso dell'evoluzione.
 

Re: A che serve il futuro?

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dyskolos ha scritto: ma solo di quello "temporale" univerbato ("lo farò", "lo dirò", ecc…).
Perdona, ma cosa intendi con futuro "univerbato"? :umh:
In grammatica, l'univerbazione si ha quando alcune parole, un tempo separate, ne formano una unica per prassi consolidata (molte volte derivata dalla pronuncia).
Per esempio: sopra tutto= soprattutto; franco bollo= francobollo; tutta via= tuttavia; pomo d'oro=pomodoro... e via discorrendo.
Per tornare al futuro, l'univerbazione di "io (lo) farò", "io (lo) dirò", sarebbe "farollo", "dirollo", che esistono pure, ma sono così desuete che in questo caso sì che l'univerbazione del futuro è tralasciabile (se non proprio dimenticabile). Diversamente il futuro semplice (la distizione in grammatica è tra "semplice" e "anteriore", non mi pare esista il "composto" e l'"univerbato), secondo me, è ancora utilissimo se non essenziale. Esprime proprio una visione, un'intenzione concreta. Non un "io penso di poterlo fare domani", ma "lo farò", c'è proprio un intento serio e reale.
È tutt'altro che un sogno, non esprime una cosa che potrebbe avvenire, ma che nelle mie intenzioni deve avvenire in un momento successivo.
È una cosa che nel presente non esiste, è vero, ma è mia intenzione far accadere domani. Esprime tutta la potenzialità di un atto creativo, è voler fare in modo che un qualcosa avvenga. È un verbo potente, è un verbo da creativi e creatori. Da Costruttori di Mondi. :D
Non lasciarci senza fututo, o @dyskolos . :P

Re: A che serve il futuro?

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ElleryQ ha scritto: Diversamente il futuro semplice (la distizione in grammatica è tra "semplice" e "anteriore", non mi pare esista il "composto" e l'"univerbato), secondo me, è ancora utilissimo se non essenziale. Esprime proprio una visione, un'intenzione concreta. Non un "io penso di poterlo fare domani", ma "lo farò", c'è proprio un intento serio e reale.
(y)
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Re: A che serve il futuro?

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Marcello ha scritto:
@dyskolos  smetti di darti importanza con queste forme dialettali
Scusa, ma di quale dialetto ho parlato? :)
Sopra leggo: [font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]"Tizio saluta la sorella con un cenno. Non sa che sarà l'ultima volta". (Bef è l'autrice ;) )[/font]
Perché "sarà l'ultima volta"? "È l'ultima volta", no? Lo è adesso mente parlo, mica fra dieci o vent'anni :)

Non ho usato trentamila caratteri :rofl:

massimopud ha scritto:
Infatti in dialetto non esistono parole come cibernetica, armadillo o esegesi;
Può essere, ma non ne sarei tanto sicuro. Comunque anche a te chiedo: di quale dialetto ho parlato? A me non sembra di aver parlato di nessun dialetto :)

massimopud  ha scritto:
Lo è molto meno quando deve avventurarsi su questioni filosofiche, scientifiche, etc. 
Vedi che non ho parlato di nessun dialetto :)

ElleryQ ha scritto:
È una cosa che nel presente non esiste, è vero, ma è mia intenzione far accadere domani. Esprime tutta la potenzialità di un atto creativo, è voler fare in modo che un qualcosa avvenga.
Appunto! Forse volevi darmi torto, ma mi stai dando ragione :D

ElleryQ ha scritto:
è un verbo da creativi e creatori. Da Costruttori di Mondi. :D
Non lasciarci senza fututo, o @dyskolos . :P
 Tranquillo, non ti lascio senza futuro :P :lol:
Il Sommo Misantropo

Re: A che serve il futuro?

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Silverwillow ha scritto:
Che sia in un unico verbo o composto, non credo che il senso o l'importanza cambino. Immagino che in qualunque lingua e parte del mondo si immagini un futuro
Esatto! :)
Infatti io chiedevo lumi sul corretto utilizzo del futuro in italiano, che non ha la stessa struttura verbale di tutte le lingue del mondo.
Invece mi sento rispondere da @Marcello e da @massimopud che ho parlato in un imprecisato dialetto. Sì, è vero che io parlo anche un dialetto del siciliano, ma qui non mi pare di averlo usato. Difatti non capisco bene!

Grazie per la risposta, cara. Tu hai colto il punto :)

Non è che se nel mondo si usano tantissime lingue senza il tempo futuro "monoverbale, allora tutte [font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]queste impoveriscono l'italiano, che tra l'altro è una delle mie due lingue madri; e la amo e la difendo e le uso correntemente. La questione delle lingua madri è neurologica e non sociologica. Il finlandese non ha il tempo futuro, non ha i possessivi, è una lingua flessiva (ha più casi del latino), eppure i finlandesi parlano, scrivono libri, giornali, manuali di filosofia, disegnano cartine, mettono le insegne sui negozi. Altra filosofia! Il portoghese ha il futuro addirittura nel modo congiuntivo. Il latino classico non aveva il modo condizionale. L'inglese non ha il futuro e deve ricorrere a perifrasi, così pure il siciliano. Il sardo non ha il futuro univerbato. Ecc… Ogni lingua ha la sua filosofia. Non credo che ciò impoverisca l'italiano, anzi in alcuni casi lo arricchisce[/font]
[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]
Quanti pregiudizi su di me! [/font]

[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif] 
Non me l'aspettavo da persone colte, intelligenti e istruite.[/font]
Il Sommo Misantropo

Re: A che serve il futuro?

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 dyskolos ha scritto: Sardo e siciliano hanno la stessa filosofia di base. Anche qui "io farò" si dice letteralmente "io devo fare". Per esprimere il dovere (o il futuro, è uguale) si usa la perifrastica "avere a + infinito". Es.: "io farò" ---> "iu àiu a fari" ("io ho a fare"), che significa sia "io farò" sia "io devo fare". Nella filosofia siciliana (e sarda :) ), il dovere implica il futuro: sono la stessa cosa.
Anche in siciliano si usa una forma di "appo", che in realtà è il passato perfetto del verbo "aviri" ("avere"). Unito a " a + infinito" esprime il dovere o il futuro (nel passato). Coniugato fa: "iu appi a, tu avísti a, iḍḍu/iḍḍa appi a, nuiautri àppimu a, vuiautri avístivu a, iḍḍi àppiru a".
Scusa @dyskolos, avevo scambiato le frasi sopra per dialetto siciliano; perdona, le mie nozioni di finlandese sono molto approssimative  :bandiera:
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