Re: A che serve il futuro?

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post_id=15162 ha scritto:Marcello

Esatto: uno solo dei dialetti parlati nella nostra penisola è considerato "lingua" per la Linguistica, ed è il sardo. Tutte le altre sono considerate "varianti regionali dell'italiano", se ricordo la definizione con esattezza. 
Questo ho imparato, un po' di tempo fa (ma non credo che le cose siano cambiate da allora)
Qua c'è un'enorme confusione, diciamo pure un mega-equivocone, al quale (colpa mia!) ho contribuito anch'io non avendo specificato a sufficienza.

Caro Maestro @Marcello, tu parlavi di "italiano regionale siciliano" e io parlavo di "siciliano". Ci riferiamo a due oggetti linguistici diversi.

Negli anni Settanta in linguistica non si andava molto per il sottile e si metteva tutto nello stesso calderone: in particolare non si distingueva tra "italiani regionali" e "lingue minoritarie". Venendo al nostro caso, non si distingueva tra "italiano regionale siciliano" e "siciliano".
Il primo è, come dici, effettivamente una variante regionale dell'italiano e sta in rapporto di mutua intelligibilità con l'italiano standard: è italiano, ovvio. Il secondo non è comprensibile: è un'altra lingua.
Il primo non ha dignità letteraria autonoma, mentre il secondo sì; e te ne accorgi anche pensando a Dante Alighieri, il quale nella sua Divina Commedia utilizzò molte volte la "rima siciliana" (mica la "rima ostrogota") facendo rimare, per esempio, "come" con "lume".
Quanto al sardo, fino ai Settanta e oltre, non esisteva per la linguistica un "italiano regionale sardo" (intelligibile), ma solo il sardo (inintelligibile). In altre parole, la lingua dei sardi di allora era l'incomprensibile sardo poiché l'italiano "faticava" a penetrare nell'isola. Da qui nasce l'idea per cui il sardo è (era) l'unica lingua, ma poi le cose si evolvono…

Marcello ha scritto:
Poi ok, se tu vuoi chiamarla "lingua" basta mettersi d'accordo  ;)
Noi possiamo metterci d'accordo e chiamarlo "sbrobbignaus" ;) , ok, ma sai benissimo che la distinzione tra "lingua" e "dialetto", nella legislazione italiana e nell'idea comune, porta a "trattamenti" diversi. Gli idiomi definiti "lingue" hanno un trattamento di favore ai danni di quelli definiti "dialetti". :)

Poi, sai?, le organizzazioni internazionali classificano oltre 7000 lingue nel mondo, e allora io mi chiedo spesso come mai nella nostra mentalità occidentale cerchiamo di ficcare numerosissime situazioni differenti in solo due categorie. E se le categorie fossero di più?
Il Sommo Misantropo

Re: A che serve il futuro?

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dyskolos ha scritto: Wow! Praticamente come in siciliano. Sardo e siciliano hanno la stessa filosofia di base. Anche qui "io farò" si dice letteralmente "io devo fare". Per esprimere il dovere (o il futuro, è uguale) si usa la perifrastica "avere a + infinito". Es.: "io farò" ---> "iu àiu a fari" ("io ho a fare"), che significa sia "io farò" sia "io devo fare". Nella filosofia siciliana (e sarda :) ), il dovere implica il futuro: sono la stessa cosa.
Veramente anche in italiano è così e lo è in quasi tutte le lingue romanze. Il futuro in italiano (ma anche in francese) è una contrazione tra infinito + presente di avere:



leggere + habeo -> leggerò



Storia analoga per il condizionale, che però in alcune lingue origina dal perfetto (es. italiano, francese) in altre dall'imperfetto (es. catalano, veneto).



https://www.treccani.it/magazine/lingua ... bello.html


dyskolos ha scritto: ma allora come campano le lingue senza futuro univerbato? Sono la maggioranza.
Tutte le funzioni grammaticali possono essere sintetiche o analitiche a seconda della lingua e delle sue necessità. L'esempio più tipico sono i complementi. In italiano si usano per lo più forme analitiche, quindi preposizione + nome. Nelle lingue slave prevale di solito la forma sintetica, quindi con dei suffissi e la declinazione del nome. Tedesco, turco, latino e greco usano una via di mezzo, ognuno a un grado diverso.

Stessa cosa per il futuro: l'arabo usa una particella, l'inglese un ausiliare, il turco un suffisso, l'italiano e il francese una crasi, latino e greco una coniugazione. Ognuno si è arrangiato come gli è parso comodo.

Anche perché il tempo in una forma verbale è solo una delle caratteristiche, di solito appariscente (specie per noi, che abbiamo una concezione lineare del tempo ieri-oggi-domani, ma non per altre culture), ma spesso e volentieri non la più importante. Usiamo anche noi il presente o perifrasi come "ho da fare" o "sto andando a fare" per indicare il futuro. E usiamo anche il condizionale "domani avrei da fare" e a volte pure l'imperfetto "domani pensavo di fare la pizza" o il condizionale passato "domani avrei pensato di fare la pizza". Ci sono più cose in un verbo, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia.

dyskolos ha scritto: L'italiano non è lingua-tetto del siciliano!
L'italiano è lingua-tetto del siciliano, perché per definizione una lingua-tetto è la lingua che si usa per mediazione tra parlanti di dialetti/lingue diverse e che domina socialmente (ma spesso anche linguisticamente) questi dialetti/lingue. In questo senso l'italiano è lingua-tetto anche del sardo, ma si potrebbe dire che l'inglese sia lingua-tetto dell'italiano, così come nel medioevo il latino era lingua-tetto delle lingue europee.

Detto questo, la questione lingua-dialetto è di quelle capaci di scaldare gli animi a livello politico (specie quando se si è lingua si ricevono fondi, se si è dialetto no), ma ha poca rilevanza sul piano scientifico e molto dipende dal livello a cui si analizzano le cose. Per quanto mi riguarda neppure le lingue normalmente intese esistono. Ognuno di noi ha un su linguaggio mentale, fatta di lessico, morfologia, sintassi proprie. Questo linguaggio condivide molte caratteristiche con il linguaggio delle persone che gli sono vicino, possiamo dire il 99%, ma non tutto (per esempio, io chiamo pentole quelle che mio marito chiama padelle), e condivide sempre di meno man mano che la distanza cresce (per fare un discorso semplificato). Con questa visione, possiamo dire che due persone parlano lo stesso "dialetto" se i loro linguaggi, poniamo, condividono il 90% (numero a caso) e la stessa "lingua" se i loro linguaggi condividono il 70%, mentre due lingue diverse se condividono meno del 70%.

Ma si possono usare anche altre definizioni, per esempio di tipo geografico e/o sociologico, quindi i dialetti di una lingua sono quelli che subiscono una pressione da parte di quella lingua, che li porta a uniformarsi e tendenzialmente a scomparire (un caso frequente in Italia, specie al centro-nord).

Oppure possiamo usare una definizione filogenetica, per cui le lingue vengono riunite in famiglie che hanno sotto-famiglie, e qui la distinzione tra lingua e dialetto la fa la scala: è ovvio che Rohlfs, che analizza l'evoluzione linguistica su tutta la penisola, parli di "lingua italiana e i suoi dialetti" riferendosi alle lingue romanze della penisola, intendendo con questo sottolineare non una subordinazione quanto una posizione geolinguistica, cioè "stiamo parlando dell'italiano e degli altri linguaggi che parlano quelli che hanno l'italiano come lingua-tetto". Ma è altrettanto ovvio che se uno fa la stessa analisi in Friuli parlerà di "friulano e i suoi dialetti", perché la suddivisione può arrivare a considerare anche solo dei quartieri: è il caso, per esempio, del veneziano, che all'interno della stessa città ha dialetti che corrispondono a diversi sestieri o zone di terraferma.
«La purezza è per l'acqua potabile, non per le persone.» (Bobby Henderson - Secondo condimento)
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Python per il linguaggio naturale

Re: A che serve il futuro?

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@swetty Sono veramente ammirato della tua competenza in materia, lo dico senza ombra di ironia. Dialetti e linguaggi ufficiali sono destinati a cambiare nel tempo, e a contaminarsi: ad esempio io che provengo da una famiglia originaria della bassa Ciociaria e sono stato allevato dai miei nonni, conosco il dialetto stretto che si parlava in famiglia, dialetto che oggi potrebbe definirsi arcaico perché è stato contaminato ormai dalla lingua ufficiale e certi termini sono sconosciuti ai giovani dello stesso paesello. Come scrittore-scribacchino senza pretese, mi sforzo nei dialoghi dei miei libri di usare un linguaggio verosimile, cioè simile a quello parlato realmente, nella zona in cui è ambientata la storia, dai personaggi, tenendo anche conto della loro estrazione sociale, cercando comunque di rispettare i canoni della lingua ufficiale. Tanto per restare in tema, anche nel mio dialetto originario non si dice farò, ma aggia fa'. Tutto il mondo è paese.
Mario Izzi
2025 - Sopravvissuti
(in)giustizia & dintorni
Dea
[/De gustibus non est sputazzellam (Antonio de Curtis, in arte Totò)]

Re: A che serve il futuro?

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swetty ha scritto: Veramente anche in italiano è così e lo è in quasi tutte le lingue romanze. 
Sì, ma infatti io sono d'accordo con te su molte cose. Sono cose che studio e conosco. Non lo sono tanto sulla questione della lingua-tetto, ma non importa (per me l'italiano non è lingua-tetto del siciliano, ma se ne può discutere con gente come te che dimostra di avere competenze). Mi sorprende che se io dico cose simili alle tue vengo trattato piuttosto male. Per esempio, se io dico che la distinzione tra lingua e dialetto (purtroppo molto produttiva di conseguenze) è solo politica, e non scientifica, trovo chi mi dice che non è così. E va be', sono abituato a essere contraddetto e così sono gli altri studiosi di sicilianistica. Se diciamo che il siciliano è una lingua romanza (come il francese, lo spagnolo, l'italiano, il catalano, il romeno, ecc…), veniamo presi a pesci in faccia da persone che non sanno nulla sull'argomento e si basano su aspetti puramente politici. Tipo che le uniche lingue sono quelle riconosciute dalle leggi come lingua ufficiali, le altre… be', chi se ne frega! Ma mica è così. Vari idiomi, come sai, nel mondo vengono considerati prima ufficiali, poi li cambiano, poi li rimettono, poi li ritolgono, ecc… in un balletto infinito (io faccio sempre l'esempio di Puerto Rico). Per esempio, il siciliano fu lingua ufficiale del Regno di Sicilia fino a circa il 1523, poi gli Spagnoli lo abolirono per loro calcoli opportunistici. Prima di allora, gli atti del parlamento siciliano erano emanati in siciliano.
L'italiano è lingua ufficiale in Italia, ma lingua minoritaria in Slovenia e Croazia.

Comunque mi sono convinto che chi parla di siciliano mediamente non sa di che parla. Tantissimi (proprio tanti!) ci mettono bocca confondendo il "siciliano" con l'"italiano regionale siciliano", cioè commettendo un errore alquanto grave.

Una piccola postilla su quanto riportato sopra. A differenza che in molte lingue romanze, italiano compreso, in siciliano la perifrastica del dovere non è "avere da" ("questo matrimonio non s'ha da fare"), ma "avere a". In siciliano non esiste il "da": differenza netta dall'italiano e da quasi tutte le lingue romanze.

Non si può nemmeno dire che il siciliano derivi dall'italiano. Chi lo dice è, come detto sopra, uno che non sa di che parla. Io dico sempre: «L'italiano regionale siciliano deriva dall'Italiano, il siciliano no». Casomai sarebbe verosimile il contrario (l'italiano deriva dal siciliano), ma in fondo non è così. Non faccio la noiosa (specie per te che lo sai) pappardella storica e mi limito a dire che l'italiano, in fase di formazione, è stato molto influenzato dal siciliano. Lo diceva anche Dante, il quale d'altronde nella Commedia si servì molte volte della "rima siciliana".
Ultimamente mi sto dedicando al veneto, altra lingua non riconosciuta dallo Stato, ma attiva, viva e vegeta :)

 
swetty ha scritto:
Lui era un grande studioso di sicilianistica. La stragrande maggioranza dei sicilianisti sono stranieri, non sono italiani. Questo fa riflettere.

Poeta Zaza ha scritto: @dyskolos   :)

Ciao, volevo contribuire al discorso sul siciliano col link di questo intervento dell'autorevole linguista e accademico della Crusca,
il professore Giovanni Ruffino:

https://www.lavocedinewyork.com/arts/li ... rrispunni/
Grazie tante, Poeta, bella intervista :)
D'accordo su tutto quello che dice il prof. Ruffino. Nell'intervista sostiene cose note agli "addetti ai lavori". Purtroppo su alcune cose che dice o diceva non sono perfettamente d'accordo. Lui insegnava all'università di Palermo, è uno conosciuto nel campo. Io stesso lo conobbi tempo fa.

Cheguevara ha scritto: Tanto per restare in tema, anche nel mio dialetto originario non si dice farò, ma aggia fa'. Tutto il mondo è paese.
Esatto! :)

Tra l'altro ai miei detrattori voglio dire che in siciliano il futuro "monoverbato" esiste, ma è usato rarissimissimamente perché non serve in tantissimi casi. Ci sono altri modi più efficaci per esprimere la possibilità di un futuro. Con questo taglio la testa al toro a coloro che dicono che la mancanza o presenza del futuro è il segno che permette di distinguere nettamente lingue e dialetti. Affermazione del tutto falsa. È una cosa filosofica: per molti di noi meridionali il futuro non esiste. E allora vada per "aggia fa'" :)
Il Sommo Misantropo

Re: A che serve il futuro?

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Faccio un esempio, con una frase che ho letto, di un futuro inutile (almeno secondo me) in italiano. Io lo sostituirei tranquillamente con un presente.

"Questo calendario vi farà conoscere molte cose".

Io scriverei:
"Questo calendario vi fa conoscere molte cose".

Differenze di filosofia. Forse "all'italiana" si prende come punto-base il momento in cui si costruiscono gli oggetti e quindi "farà" va bene: effettivamente una cosa entra in funzione dopo che viene fatta. Nella mia filosofia "alla siciliana", il punto-base è invece il momento in cui l'oggetto costruito viene usato. È proprio mentre lo leggete che venite a conoscenza delle cose.

Mi sbaglio?


P.S.: ho usato italiano e siciliano per comodità, essendo quelle le lingue più disponibili, ma avrei potuto usare altre lingue.
Il Sommo Misantropo
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