Il seme dell'odio - Pt. 1
Posted: Sun Jan 24, 2021 4:34 pm
Traghettato da WD, uno dei miei primi racconti.
Buona lettura.
Il seme dell’odio Pt. 1
La casa aveva le pareti dipinte di nero, anche il soffitto lo era.
Nella casa non entrava sole, alcune finestre erano sbarrate, altre murate.
Nelle poche stanze una coltre di polvere ricopriva i pavimenti, miasmi di muffa escrementi e marciume ammorbavano l’aria stagnante.
L’oscurità regnava in quello spazio che pareva aver inghiottito il fluire
del tempo, arrestandone il respiro.
Lui non sapeva il nome di quel colore, aveva solo quattro anni e nessuno gli aveva parlato dei colori, ma ne conosceva la natura: era quella del buio.
Il buio e il silenzio riempivano la casa vuota e la sua mente, quando chiudeva gli occhi per sfuggire alla paura, o per nascondersi nel sonno, dove trovava uno spazio che gli donava conforto.
Nel sonno non c'erano paura né dolore, il sonno era una cosa buona, era il bene. Fin da quando ne aveva coscienza il buio era la sua dimensione di rifugio, un luogo caldo e protettivo, nel quale adagiarsi, raccolto in una postura fetale, ad ascoltare la sua solitudine e il silenzio.
In quella dimensione oscura, come un cieco vedeva le cose senza l’uso dello sguardo, ne percepiva i contorni: aveva sviluppato un sesto senso, la sua sensibilità bastava a disegnargli, nello schermo della mente, lo spazio e la forma delle cose che aveva intorno.
Il bambino non era mai uscito dalla casa, sapeva che c’ era un “fuori” perché da lì venivano gli altri e anche sua madre. Da lì venivano angoscia e paura: avevano forma di corpi d’ uomo sconosciuti.
Una lampadina rossa, pendeva da un filo in centro al soffitto, certe volte veniva accesa e faceva cessare il buio: questo avveniva solo quando mamma era a casa. A lui non piacevano quella luce e sua madre.
Senza luce non erano visibili quegli strani simboli, di cui non capiva il significato, disegnati sulle pareti: erano segni inquietanti, perché avevano il colore cupo del sangue. Nella luce rossa, il sangue era nero come il buio e usciva dal suo corpo, era il colore del dolore e della paura, quando sua madre lo colpiva con violenza, ovunque. Sua madre gli faceva paura, sempre.
Il male aveva due nature: una fisica, quando quegli uomini facevano cose orribili e dolorose sul suo corpo, o lo picchiavano come faceva sua madre,
ma quel male aveva un termine: smetteva quando se ne andavano.
L’altro dolore era più profondo, covava dentro acuto, era fatto di una paura lucente e crudele come una lama affilata. Non cessava mai quando era sveglio: l’ unico scampo che conosceva per sfuggirgli era il sonno, nel dormire il dolore era più remoto, sopito e distante. Poteva osservarlo come qualcosa fuori dal suo corpo e dal suo pensiero, non lo cancellava, ma tenerlo lontano procurava sollievo.
Non sempre era sonno quello stato in cui entrava, era piuttosto una sorta di letargo catatonico, a cui si abbandonava in ogni fibra della sua carne, con un respiro che diveniva impercettibile, mentre la mente era vigile e attiva. Talvolta gli pareva che la mente, separata e leggera, si staccasse del corpo: in quella condizione poteva osservare sè stesso da un punto esterno, vedersi giacere sul lercio materassino che gli faceva da letto, raggomitolato e immobile come per una morte apparente.
Un tempo, quando gli facevano violenza, gridava, abbandonandosi a singhiozzi disperati, nessuno poteva udirlo: la casa era un rudere isolato, lontano dall' abitato, sorgeva in un terreno brullo, coperto di sterpi e fitti rovi. Quei sassi in rovina, molti anni addietro, erano stati un piccolo cascinale, solo un viottolo accidentato che si perdeva tra i campi, conduceva lì dagli avamposti di estrema periferia.
Aveva smesso di urlare e piangere, perché era inutile: non serviva a far cessare la loro brutalità, allora si allontanava dal corpo, chiudendosi nella mente, attendeva che tutto finisse in fretta.
“Madre”: Questo termine indicava la donna che viveva nella casa con lui.
Nessuno gli aveva insegnato a chiamarla con quel nome.
Lo aveva sentito da quegli uomini, sempre gli stessi, che venivano nella casa: “Tu sei la madre di quell’aborto mostruoso”, dicevano con disgusto.
Madre era quella che gli lasciava ogni mattina una ciotola colma d’acqua e una di una zuppa disgustosa. La zuppa era calda, lui la consumava con voracità, non avrebbe avuto altra fino al mattino seguente.
Madre, era il nome del cibo che lo teneva in vita, ma anche quello del tormento, quando esplodeva con isteria di furia e lo puniva con un rancore rabbioso per ragioni che lui non conosceva o poteva comprendere.
“Figlio”: anche questo significato lo aveva appreso e indicava lui, “Quel parto dell'inferno è tuo figlio” dicevano, gli estranei, esprimendo un disgusto inesorabile nel tono sprezzante della voce.
Li odiava quegli uomini: li trovava ripugnati quando i loro fiati nauseabondi lo sfioravano mozzandogli il respiro, gli provocava il vomito l’odore animalesco dei loro corpi, la bava vischiosa e le loro secrezioni acide che gli bagnavano il corpo.
La scodella di zuppa, densa e insapore che riceveva, non bastava alla sua fame. La donna stava fuori a lungo, non tornava prima che fosse notte, a volte non tornava per giorni. Allora la fame diveniva impellente, lo aggrediva con morsi dolorosi e lo costringeva a procurarsi altro cibo, in altro modo. Quando la casa era deserta e restava solo col buio e il silenzio, allora venivano: li sentiva muoversi nelle stanze, udiva il loro zampettio di unghie aguzze sulle vecchie assi del pavimento, erano circospetti, ne udiva le corse rapide e furtive rasenti i muri, piccoli squittii lievi di ratti affamati in caccia.
Occhietti rossi, punte di spillo incandescenti scandagliavano febbrili le tenebre in frenetiche esplorazioni, cercavano cibo: rimasugli, avanzi abbandonati a marcire nel secchio del pattume. La cantina di quella stamberga ne pullulava, salivano anche dalle rive del canale torbido che scorreva nei pressi della casa.
Quando s'immergeva in quella sorta di dormiveglia osservava il paesaggio all'interno della sua mente: era un luogo caldo e rassicurante in cui trovare rifugio e nulla lì lo allarmava.
I ratti venivano e lui, che stava ad attenderli a occhi chiusi, con i sensi vigili di un predatore notturno, ne seguiva i movimenti: venivano sempre molti, famelici e aggressivi, ma non li temeva, a lui non osavano avvicinarsi, non lo facevano mai, avevano paura di lui.
Bastava un suo respiro più profondo o un movimento lieve a farli fuggire.
La donna che dicevano esser sua “madre” a volte spariva per giorni, senza curarsi di lui, questo era buono: significava che non ci sarebbe stata punizione, non sarebbero venuti gli uomini e le cose che lo accecavano di dolore, ma significava anche mancanza di cibo e fame.
Lei mancava ormai da quattro giorni: ora la fame era forte e non riusciva a sfuggirgli cadendo nel sonno, crampi dolorosi lo assalivano, doveva nutrirsi al più presto.
Era il più grosso dei ratti, quello che precedeva il gruppo nell'esplorazione del territorio, il più audace, il più forte, il loro capobranco.
Il pelo ispido e bruno, la coda lunga e coperta di scaglie, un esemplare di una quarantina di centimetri, denti affilati come lame: si muoveva a suo agio nel buio, la lunga coda frustava l'aria.
Come quelli della sua specie era in grado di percepire ultrasuoni e frequenze degli ultravioletti, i ratti sono metacognitivi, come nei primati e nei delfini, hanno coscienza di sé.
A occhi chiusi, iniziò a seguirlo, lo sentì muoversi nella casa, era vivo, caldo e pulsante, poteva udire il fruscio del suo respiro e il battito del suo cuore: nella mente di lui appariva come una sagoma fluorescente, un segnale smeraldino nello schermo nero di un radar che si spostava rapido nella frenesia della ricerca.
La fame divenne impellente, allora iniziò a chiamarlo a sè, con un comando mentale silenzioso e ferreo: il ratto arrestò la sua attività, si irrigidì come inchiodato da una scossa elettrica.
Riluttante si diresse verso l'origine del richiamo, non poteva sottrarsi a esso, comprese di non avere scampo quando fu davanti al bambino: il corpo della bestia avanzando lasciava una piccola scia di urina, era scosso da un fremito di puro terrore.
Il bimbo allungò la piccola mano, lo cinse nel pugno, sentì le setole ispide e il calore del corpo tremante nella stretta, il piccolo cuore dell'animale impazziva nel parossismo dei battiti.
Denti acuminati come piccole lame ne trafissero la cotenna e spezzarono l'osso: staccò il capo dal corpo del ratto con un morso di tagliola.
Senti nella bocca il gusto del sangue. Sputò la testa verso un angolo della stanza, poi prese a bere il liquido che sprizzava a fiotti dal collo mozzato: la sensazione calda e appagante del nutrimento gli colmò di piacere il corpo.
I sussulti ebbero termine, finalmente sazio riprese il suo sonno immergendo lo sguardo dentro sé.
Buona lettura.
Il seme dell’odio Pt. 1
La casa aveva le pareti dipinte di nero, anche il soffitto lo era.
Nella casa non entrava sole, alcune finestre erano sbarrate, altre murate.
Nelle poche stanze una coltre di polvere ricopriva i pavimenti, miasmi di muffa escrementi e marciume ammorbavano l’aria stagnante.
L’oscurità regnava in quello spazio che pareva aver inghiottito il fluire
del tempo, arrestandone il respiro.
Lui non sapeva il nome di quel colore, aveva solo quattro anni e nessuno gli aveva parlato dei colori, ma ne conosceva la natura: era quella del buio.
Il buio e il silenzio riempivano la casa vuota e la sua mente, quando chiudeva gli occhi per sfuggire alla paura, o per nascondersi nel sonno, dove trovava uno spazio che gli donava conforto.
Nel sonno non c'erano paura né dolore, il sonno era una cosa buona, era il bene. Fin da quando ne aveva coscienza il buio era la sua dimensione di rifugio, un luogo caldo e protettivo, nel quale adagiarsi, raccolto in una postura fetale, ad ascoltare la sua solitudine e il silenzio.
In quella dimensione oscura, come un cieco vedeva le cose senza l’uso dello sguardo, ne percepiva i contorni: aveva sviluppato un sesto senso, la sua sensibilità bastava a disegnargli, nello schermo della mente, lo spazio e la forma delle cose che aveva intorno.
Il bambino non era mai uscito dalla casa, sapeva che c’ era un “fuori” perché da lì venivano gli altri e anche sua madre. Da lì venivano angoscia e paura: avevano forma di corpi d’ uomo sconosciuti.
Una lampadina rossa, pendeva da un filo in centro al soffitto, certe volte veniva accesa e faceva cessare il buio: questo avveniva solo quando mamma era a casa. A lui non piacevano quella luce e sua madre.
Senza luce non erano visibili quegli strani simboli, di cui non capiva il significato, disegnati sulle pareti: erano segni inquietanti, perché avevano il colore cupo del sangue. Nella luce rossa, il sangue era nero come il buio e usciva dal suo corpo, era il colore del dolore e della paura, quando sua madre lo colpiva con violenza, ovunque. Sua madre gli faceva paura, sempre.
Il male aveva due nature: una fisica, quando quegli uomini facevano cose orribili e dolorose sul suo corpo, o lo picchiavano come faceva sua madre,
ma quel male aveva un termine: smetteva quando se ne andavano.
L’altro dolore era più profondo, covava dentro acuto, era fatto di una paura lucente e crudele come una lama affilata. Non cessava mai quando era sveglio: l’ unico scampo che conosceva per sfuggirgli era il sonno, nel dormire il dolore era più remoto, sopito e distante. Poteva osservarlo come qualcosa fuori dal suo corpo e dal suo pensiero, non lo cancellava, ma tenerlo lontano procurava sollievo.
Non sempre era sonno quello stato in cui entrava, era piuttosto una sorta di letargo catatonico, a cui si abbandonava in ogni fibra della sua carne, con un respiro che diveniva impercettibile, mentre la mente era vigile e attiva. Talvolta gli pareva che la mente, separata e leggera, si staccasse del corpo: in quella condizione poteva osservare sè stesso da un punto esterno, vedersi giacere sul lercio materassino che gli faceva da letto, raggomitolato e immobile come per una morte apparente.
Un tempo, quando gli facevano violenza, gridava, abbandonandosi a singhiozzi disperati, nessuno poteva udirlo: la casa era un rudere isolato, lontano dall' abitato, sorgeva in un terreno brullo, coperto di sterpi e fitti rovi. Quei sassi in rovina, molti anni addietro, erano stati un piccolo cascinale, solo un viottolo accidentato che si perdeva tra i campi, conduceva lì dagli avamposti di estrema periferia.
Aveva smesso di urlare e piangere, perché era inutile: non serviva a far cessare la loro brutalità, allora si allontanava dal corpo, chiudendosi nella mente, attendeva che tutto finisse in fretta.
“Madre”: Questo termine indicava la donna che viveva nella casa con lui.
Nessuno gli aveva insegnato a chiamarla con quel nome.
Lo aveva sentito da quegli uomini, sempre gli stessi, che venivano nella casa: “Tu sei la madre di quell’aborto mostruoso”, dicevano con disgusto.
Madre era quella che gli lasciava ogni mattina una ciotola colma d’acqua e una di una zuppa disgustosa. La zuppa era calda, lui la consumava con voracità, non avrebbe avuto altra fino al mattino seguente.
Madre, era il nome del cibo che lo teneva in vita, ma anche quello del tormento, quando esplodeva con isteria di furia e lo puniva con un rancore rabbioso per ragioni che lui non conosceva o poteva comprendere.
“Figlio”: anche questo significato lo aveva appreso e indicava lui, “Quel parto dell'inferno è tuo figlio” dicevano, gli estranei, esprimendo un disgusto inesorabile nel tono sprezzante della voce.
Li odiava quegli uomini: li trovava ripugnati quando i loro fiati nauseabondi lo sfioravano mozzandogli il respiro, gli provocava il vomito l’odore animalesco dei loro corpi, la bava vischiosa e le loro secrezioni acide che gli bagnavano il corpo.
La scodella di zuppa, densa e insapore che riceveva, non bastava alla sua fame. La donna stava fuori a lungo, non tornava prima che fosse notte, a volte non tornava per giorni. Allora la fame diveniva impellente, lo aggrediva con morsi dolorosi e lo costringeva a procurarsi altro cibo, in altro modo. Quando la casa era deserta e restava solo col buio e il silenzio, allora venivano: li sentiva muoversi nelle stanze, udiva il loro zampettio di unghie aguzze sulle vecchie assi del pavimento, erano circospetti, ne udiva le corse rapide e furtive rasenti i muri, piccoli squittii lievi di ratti affamati in caccia.
Occhietti rossi, punte di spillo incandescenti scandagliavano febbrili le tenebre in frenetiche esplorazioni, cercavano cibo: rimasugli, avanzi abbandonati a marcire nel secchio del pattume. La cantina di quella stamberga ne pullulava, salivano anche dalle rive del canale torbido che scorreva nei pressi della casa.
Quando s'immergeva in quella sorta di dormiveglia osservava il paesaggio all'interno della sua mente: era un luogo caldo e rassicurante in cui trovare rifugio e nulla lì lo allarmava.
I ratti venivano e lui, che stava ad attenderli a occhi chiusi, con i sensi vigili di un predatore notturno, ne seguiva i movimenti: venivano sempre molti, famelici e aggressivi, ma non li temeva, a lui non osavano avvicinarsi, non lo facevano mai, avevano paura di lui.
Bastava un suo respiro più profondo o un movimento lieve a farli fuggire.
La donna che dicevano esser sua “madre” a volte spariva per giorni, senza curarsi di lui, questo era buono: significava che non ci sarebbe stata punizione, non sarebbero venuti gli uomini e le cose che lo accecavano di dolore, ma significava anche mancanza di cibo e fame.
Lei mancava ormai da quattro giorni: ora la fame era forte e non riusciva a sfuggirgli cadendo nel sonno, crampi dolorosi lo assalivano, doveva nutrirsi al più presto.
Era il più grosso dei ratti, quello che precedeva il gruppo nell'esplorazione del territorio, il più audace, il più forte, il loro capobranco.
Il pelo ispido e bruno, la coda lunga e coperta di scaglie, un esemplare di una quarantina di centimetri, denti affilati come lame: si muoveva a suo agio nel buio, la lunga coda frustava l'aria.
Come quelli della sua specie era in grado di percepire ultrasuoni e frequenze degli ultravioletti, i ratti sono metacognitivi, come nei primati e nei delfini, hanno coscienza di sé.
A occhi chiusi, iniziò a seguirlo, lo sentì muoversi nella casa, era vivo, caldo e pulsante, poteva udire il fruscio del suo respiro e il battito del suo cuore: nella mente di lui appariva come una sagoma fluorescente, un segnale smeraldino nello schermo nero di un radar che si spostava rapido nella frenesia della ricerca.
La fame divenne impellente, allora iniziò a chiamarlo a sè, con un comando mentale silenzioso e ferreo: il ratto arrestò la sua attività, si irrigidì come inchiodato da una scossa elettrica.
Riluttante si diresse verso l'origine del richiamo, non poteva sottrarsi a esso, comprese di non avere scampo quando fu davanti al bambino: il corpo della bestia avanzando lasciava una piccola scia di urina, era scosso da un fremito di puro terrore.
Il bimbo allungò la piccola mano, lo cinse nel pugno, sentì le setole ispide e il calore del corpo tremante nella stretta, il piccolo cuore dell'animale impazziva nel parossismo dei battiti.
Denti acuminati come piccole lame ne trafissero la cotenna e spezzarono l'osso: staccò il capo dal corpo del ratto con un morso di tagliola.
Senti nella bocca il gusto del sangue. Sputò la testa verso un angolo della stanza, poi prese a bere il liquido che sprizzava a fiotti dal collo mozzato: la sensazione calda e appagante del nutrimento gli colmò di piacere il corpo.
I sussulti ebbero termine, finalmente sazio riprese il suo sonno immergendo lo sguardo dentro sé.