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La scelta Pt. 17

Posted: Sat Sep 13, 2025 12:46 pm
by Nightafter
Spillo ha gli occhi azzurri - Costruttori di Mondi



La scelta Pt. 17


Avevamo fatto pace con Roberta.
Non ero del tutto certo che fosse capitata a lavorare nello stesso ufficio di mia moglie per caso, ma non avevo prove per dubitarne, quindi feci buon viso a cattivo gioco.
Divenne consuetudine che mia moglie la riaccompagnasse a casa la sera, ma a questo si aggiunse che passasse a prelevarla anche la mattina e che facessero colazione insieme al bar prima di recarsi in ufficio.
La loro intesa di colleghe di lavoro si rafforzò decisamente.
Ma non bastò: divennero intime.
Al sabato pomeriggio, sovente uscivano insieme a fare shopping in centro o per prendere un caffè con panna da Baratti & Milano, in Galleria San Federico.
Questa cosa del sabato pomeriggio non mi dispiaceva affatto; accompagnare mia moglie per negozi nello shopping era una vera rottura di palle a cui rinunciavo volentieri.
Spesso mi trovavo a sentire da mia moglie aneddoti divertenti di cose fatte insieme in ufficio o mentre erano state a spasso.
Identica cosa accadeva, specularmente, quando stavo con Roberta.
Potevo sentirla riferirmi le stesse cose e prodigarsi in complimenti verso mia moglie, commentando quanto la trovasse simpatica, intelligente e piena di svariate qualità.
Per quanto tutto ciò apparisse come una sorta di normalità atipica, non mi ci sentivo tranquillo; mi era difficile accettarlo senza perplessità.
Mi pareva un grosso azzardo, un cercare di mettere alla prova il destino, un ostinarsi a camminare sul filo di un rasoio.
Chi mi garantiva che, per una distrazione, un lapsus, Roberta, all’interno d’un discorso con mia moglie, si lasciasse scappare un commento rivelatore?
Chessò, ribadendo distrattamente di sapere che amavo un certo cibo o un certo film, fatto che avrebbe dovuto ignorare, poiché ufficialmente noi eravamo due estranei.

C’erano anche situazioni più allarmanti: certe volte me la ritrovavo a cena da noi.
A mia moglie era venuta l’idea balzana d’invitarla:
– Poverina, è sempre sola, salvo quando va a cena dai suoi. Sai, non ha neppure un fidanzato. Cosa incredibile, dato che è molto carina, non trovi anche tu?
– Trovo cosa? – chiedevo infastidito.
– Che sia così attraente e nessun uomo le stia accanto. Non ti sembra strano?
– Ma che cazzo ne so? Magari non piace, avrà l’alito che puzza o un sudore d’ascelle sgradevole – rispondevo.
– Che scemo sei! Ma figurati! È pulitissima, profumata e sempre in ordine.
– Vabbè, qualcosa ci sarà. Magari è lesbica e non le piacciono gli uomini.
– Non dire sciocchezze! Come ti viene in mente?
– Ma che ne so io? Non l’ho mica mai annusata o le ho toccato il culo per verificare – rispondevo.
– Piantala! Siete voi uomini di oggi che di donne non capite più niente. So che certi di voi, la sera, vanno a cercare i viados che si prostituiscono in periferia. Preferiscono quella roba piuttosto che mettersi con ragazze che hanno tutte le loro cose al posto giusto.
– Vabbè, chi se ne frega. Si vede che amano più il cetriolo che la prugna.
– Sì, ho capito. Parlare con te è come farlo col muro, per la soddisfazione che dà. Comunque, venerdì sera l’ho invitata qui da noi a cena.
– Ecco, dato che è sola, magari per non farle passare una notte triste, io vado a dormire sul divano e lei te la metti a letto con te. Così potete contarvela fino alle quattro del mattino, tanto sabato non si lavora.
– Ma vaffanculo! – rispondeva lei.
Era un vero tormento fingere che Roberta mi fosse estranea; gli inviti a cena, purtroppo, divennero abituali.
Talvolta, a tavola, mentre mia moglie e mia figlia si assentavano in cucina, allungava una mano a toccarmi il sesso sopra la patta.
Rideva e, a bassa voce, chiedeva:
– Come sta? Mi sembra un po’ sottotono.
Io, terrorizzato che tornasse d’improvviso mia moglie col dessert di fine cena, la rimbeccavo a bassa voce:
– Sei pazza? Smettila subito!
Sudavo freddo; erano fatti che mi bloccavano la cena sullo stomaco.
Magari, avanti nella serata, mentre si sorseggiava un digestivo e si facevano quattro chiacchiere in poltrona nel salotto, lei trovava modo di sedere di fronte a me.
Quando restavamo soli per qualche momento, con mia moglie assente a fare qualcosa in un’altra parte della casa, sollevava la gonna sulle cosce, spostava il tessuto dello slip mettendo a nudo il sesso.
Faceva scorrere lentamente due dita fra i ciuffetti del pube, fendendo le grandi labbra e guardandomi con occhi torbidi e insinuanti.
Sussurrava:
– Sapessi com’è calda ‘sta sera. Ci vorrebbe la tua lingua, amoruccio mio.
Io strabuzzavo gli occhi e restavo pietrificato, in preda al panico più che al desiderio, rischiando l’infarto.

Altra cosa che avveniva al termine di quelle serate era che mia moglie mi chiedesse di riaccompagnarla a casa, per evitarle la spesa d’un taxi o le lunghe attese d’un mezzo pubblico a quell’ora tarda.
Il tragitto era un vero supplizio di Tantalo.
Mentre guidavo, infilava la mano nella mia patta, catturandomi il sesso e iniziando una carezza lenta e snervante.
Io tentavo disperatamente di non distrarmi, rischiando un incidente o di passare un incrocio col semaforo rosso.
Sotto casa sua, complice il buio, mi limonava con foga selvaggia, poi si chinava rapidamente e, come saluto a chiusura della serata, risucchiava il mio sesso barzotto in bocca per un lungo attimo.
Una cosa da incoscienti, poiché qualche tardo passante o, da una finestra del palazzo sopra di noi, qualcuno poteva vederci.
Mentre usciva dall’auto, commentava beffarda:
– Adesso vai dalla tua mogliettina tutto caldo. Ci penserà lei a sbollentarti – aggiungendo: – Dovrebbe ringraziarmi per averle scaldato lo spuntino del dopocena.
Io tornavo a casa con l’ansia che mi fosse rimasta addosso qualche traccia di quella temibile aggressione sessuale.
Come sempre, mi dovevo infilare in bagno per fare il check-up della situazione, farmi una doccia per sterilizzarmi e quindi raggiungere mia moglie sotto le coperte.

Questo stato di cose mi teneva in continua tensione: il gioco si era fatto pericoloso.
Lei pareva trovarci un gusto sublime e ne rideva come una matta.
Prendeva la cosa con una leggerezza scellerata; nonostante il mio continuo incalzarla alla prudenza, pareva non intendere ragioni.
Credo che vivesse quegli atti provocatori come un risarcimento, un debito che dovessi pagare per averla costretta a un perenne ruolo d’ombra all’interno della mia vita.
– Essù, che sarà mai, pisellino mio? Queste cose le faccio quando sono certa che tua moglie non ci becchi. Mica voglio rovinare la tua pace familiare e compromettere, allo stesso tempo, il tuo possesso in usucapione.
Scoraggiato, non mi restava che confidare nella protezione del dio dei fedifraghi, augurandomi che non venisse mai il momento d’essere colti in castagna.
Iniziai spesso a chiedermi se non fosse giunto il momento di scrivere la parola fine alla nostra storia: se fossi stato davvero assennato, avrei dovuto farlo.
Nulla, nel futuro che vedevo arrivare, si prospettava rasserenante.
Mi chiedevo cos’altro avrebbe potuto escogitare Roberta per sentirsi appagata.
Pur pensando che fosse una sciocchezza, mi tornava in mente un film uscito di recente, diretto da Adrian Lyne, calzante come similitudine col mio caso. S’intitolava Attrazione fatale.
Narrava d’un rapporto tossico tra due amanti, nel quale lei si trasformava, nel finale, in una stalker dagli istinti omicidi.
Mi correva un brivido lungo la schiena al pensiero di dove si sarebbe potuta spingere lei per cercare di distruggere il mio matrimonio, con la fantasia di sostituirsi a mia moglie.
Questi pensieri mi correvano angoscianti in mente; iniziavo a guardare Roberta come un possibile pericolo per la mia famiglia e la mia vita.
Ma le ero affezionato e, quando facevamo l’amore, finivo col vedere ridimensionate le mie ansie.
La guardavo negli occhi e vi trovavo solo uno sguardo innamorato e mite; così mi alzavo da quel nostro letto peccaminoso rincuorato e con una visione più rosea del futuro.
Dopo diversi mesi, m’ero ormai abituato a quel nuovo corso delle cose.
Era vero che il diavolo non fosse mai tanto brutto come lo si dipingeva, o che l’uomo, alla fine, si adattava alle situazioni più difficoltose e strane.
In sostanza, si trattava di prestare maggiore vigilanza a tutta una serie di possibili difficoltà, ma, pur non avendo mai messo sci ai piedi, m’ero specializzato nello slalom, facendo grande attenzione a non inforcare paletti durante le discese.
Presa visione del campo di gara e degli ostacoli che presentava, avevo imparato a scansarli o aggirarli con una certa abilità che m’infondeva una nuova fiducia.
Con mia moglie andava alla grande, con Roberta idem; la mia vita, lavoro compreso, procedeva spedita, collezionavo soddisfazioni su ogni fronte, il futuro si mostrava allettante.
Avrei potuto tranquillamente invecchiare mettendo la firma su questa condizione esistenziale.

Una sera in cui Roberta, invece che a casa mia, era ospite a cena dai genitori, mi chiese, come altre volte, la cortesia di accompagnarla fin da loro.
Cosa che feci assai volentieri; per altro, pioveva a dirotto e non le avrei mai permesso di arrivarci a piedi.
Il traffico era congestionato: quando cadevano due gocce d’acqua in città, era un dramma.
Gente che col bel tempo sfrecciava sui controviali a centocinquanta all’ora, come fossero sulla pista dell’Estoril, davanti alla pioggia diveniva timorosa debuttante delle quattro ruote.
Fumavo un mezzo toscano col finestrino calato di un terzo, mentre la radio passava un energico pezzo rock degli AC/DC, che non erano uno dei miei gruppi prediletti, ma risultavano assai efficaci per tenerci svegli in quel mortorio che procedeva a trenta all’ora.
Roberta, al mio fianco, col suo impermeabile bianco ghiaccio, cercava di disappannare il finestrino del suo lato, offuscato di condensa.
Nel procedere a passo d’uomo, scambiavamo qualche parola, inveendo contro il tempo e il traffico comatoso.
Dopo una trentina di minuti, per un tratto normalmente coperto in una decina col bel tempo, giungemmo a destinazione: l’angolo del controviale con la via di casa dei genitori.
Il traffico sul controviale era più rado e decisamente più rapido di quello sul corso; infatti, molti si riversavano in questo, abbandonando la lenta fila del primo.
C’era un bar su quell’angolo, dove anch’io andavo a mangiare un panino quando ero di fretta col lavoro, per un pranzo più soddisfacente.
Sopra la facciata su cui si apriva la porta d’accesso al locale, vi era, al primo piano dell’edificio, un lungo balcone che fungeva da tettoia all’esercizio.
In quel momento, tre clienti del bar erano fermi lì a fumare una sigaretta, cosa vietata all’interno, approfittando del riparo offerto dal balcone sulle loro teste.
Noi, nella macchina, ci scambiammo un bacio di saluto; poi Roberta recuperò l’ombrellino pieghevole e la sua borsa dal sedile posteriore, aprì la portiera e si accinse a uscire.
La portiera si richiuse e lei, ombrello aperto alla mano, si cimentò nel consueto rito di circumnavigare l’auto per venire a prendersi l’ultimo bacio al mio finestrino, già aperto.
Mentre abbassavo il volume della radio, mi giunse il clamore d’una frenata improvvisa, seguita a mia sinistra da un tonfo sordo.
Mi voltai di scatto; poi, il tempo sembrò avanzare al rallentatore.
In una sequenza rallentata, vidi una sagoma bianco ghiaccio che si librava in aria come un pupazzo di panno, le braccia e le gambe spalancate in una posa innaturale e grottesca.
Un ombrello pieghevole violetto, con le stecche disarticolate, si univa libero a quel volo, insieme a una borsetta.
Il corpo compì un giro completo su sé stesso e si accasciò ai piedi del cofano della mia auto.
Restai pietrificato; nella mente sentii echeggiare un urlo muto: “Roberta!”, gridai.
L’auto artefice della frenata rallentò un secondo all’altezza del bar, poi ripartì con un’accelerata violenta.
Nel parabrezza annegato di pioggia della mia auto, vidi, per effetto dell’acqua, le sagome tremolanti dei tre uomini portarsi le mani ai capelli, sconvolti, e muoversi verso di noi.

Tutta l’azione, che parve un tempo interminabile, si era svolta in pochi decimi di secondo.
Il cuore impazzì, pompandomi litri di sangue in gola; spilli di terrore affondarono come lame nel mio cervello.
Nel tempo di un respiro, fui fuori dalla macchina e in ginocchio accanto al corpo di lei.
Roberta, immobile, col viso poggiato di lato al selciato, le braccia abbandonate lungo il busto, le gambe divaricate che spuntavano dall’impermeabile aperto a campana, che la pioggia stava impregnando.
Io stesso ero già fradicio in quei pochi momenti d’esposizione.
Non si muoveva, non si lamentava.

Un rivolo di sangue gocciolava in una piccola pozza che l’acqua dissolveva rapida; l’orrore mi stordiva. I tre uomini, sopraggiunti e chinati accanto, non parlavano; ne avvertivo la presenza senza levare il capo per guardarli.


(Continua)