Una rosa per Martina Pt.14 (Fine)
Posted: Thu Jul 10, 2025 6:56 pm
[MI 184] Graceful ghost - Costruttori di Mondi
Una rosa per Martina Pt.14 (Fine)
Martina mi aveva mandato le rose per il mio compleanno.
Martina mi amava come io l’amavo: un sogno vivo e a colori che confinava il resto del creato nel grigiore più insignificante.
Quella mattina, segnata da un cielo cupo di nuvole che promettevano pioggia, si era rivelata, per me, la più luminosa degli ultimi anni, sprizzavo felicità da ogni poro del corpo.
L’ora d’entrata in azienda era scoccata da una trentina di minuti, gli spazi di lavoro si stavano riempiendo del personale, tutt’intorno le scrivanie si animavano di operatività, nei vari uffici iniziavano a trillare i telefoni: la nuova caotica giornata aveva inizio.
Con la mente in forsennata agitazione rimasi a cercare di riflettere sul cosa fare.
Ero combattuto da una moltitudine di idee che balenavano come in uno spettacolo pirotecnico fra le pareti del cervello.
Una sola cosa mi era chiara: quella mattina, in quello stato d’agitazione, non avrei potuto lavorare.
Non potevo restare un solo attimo di più senza sentire la sua voce, parlarle, vederla, stringere a me la sua persona: dovevo uscire subito dall’ufficio.
Dissi alla mia segretaria di sezione che non sarei rimasto in azienda, che avevo cose da sbrigare all’esterno: avrei fatto il giro dei nostri negozi.
Le dissi anche che difficilmente sarei rientrato a fine pomeriggio, era una cosa lunga, quindi non ne ero certo.
Insomma, che per quel giorno si arrangiassero senza di me, che si fottessero, avevo altro da fare.
Presi il mio mazzo di rose e mi diressi rapido verso l’uscita, più che camminare volteggiavo nell’aria.
Nel corridoio incrociai la Signetti.
- Buongiorno Graimaldi. Auguri per il suo compleanno. - disse – Ma che bel mazzo di rose le hanno donato… Complimenti. - aggiunse, sorridendo con una velata ironia.
- Grazie Signetti, davvero gentile. - risposi frettoloso.
- Dove è diretto con quel bel mazzo? - urlò alle mie spalle.
- Chieda alla segretaria, Signetti. Sa tutto lei. - risposi senza voltarmi, mentre inforcavo la porta dell’ascensore.
Ero troppo felice, neppure la sua vista poteva smorzare l’effervescenza del momento.
Saltai in auto e mi diressi a tavoletta verso l’azienda di Martina.
Il traffico del mattino era fastidiosamente corposo e lento, ma ci scivolai nel mezzo con lo spirito positivo d’un Mosè che divide le acque del Mar Rosso.
Già mi vedevo, alla maniera del film “Ufficiale e gentiluomo”, irrompere nei corridoi della sua ditta, con la baldanza di un Richard Gere che va a prendersi Debra Winger, impegnata al lavoro, e se la porta via in braccio, fra due ali sconcertate e plaudenti di operai della fabbrica.
Nei pressi della sua azienda, da una cabina telefonica, l’avrei chiamata per annunciarle che ero arrivato.
Anzitutto l’avrei ringraziata delle rose e del meraviglioso biglietto, poi avrei parlato di noi, di quanto aveva riempito i miei pensieri a dispetto del tempo e della lontananza, le avrei detto che avremmo ricominciato da dove ci eravamo lasciati.
Le avrei detto anche migliaia di altre cose che avevo tenute dentro, pensando continuamente a lei e a noi.
Parcheggiai l’auto a pochi passi dall’imponente sede aziendale del suo impiego.
L’edificio era una vecchia fabbrica modernamente ristrutturata, sul progetto degli architetti milanesi Aldo Rossi e Gianni Braghieri che ne avevano curato la realizzazione: la facciata esterna era un solido baluardo di mattoni rossi a vista, nello stile neoclassico del ventennio fascista.
Frontalmente, all’angolo opposto del caseggiato, vi era una cabina telefonica situata davanti a un bar.
All’interno del locale ordinai un caffè e acquistai una trentina di gettoni telefonici, confidavo sarebbero bastati per la lunga conversazione che mi attendeva.
Avevo la testa in fiamme, le pulsazioni nelle mie tempie erano un frastuono che copriva il rumoroso traffico mattutino.
Mi chiusi nella cabina, iniziai a inserire rapidamente i gettoni, la mano mi tremava per la tensione, avevo un nido di calabroni in conflitto all’interno del cranio.
Speranza e timore si mescolavano nello stomaco, con vampate improvvise che davano una vertigine.
Il suo biglietto era la prova inconfutabile di ciò che anche lei provava: non lasciava alcun dubbio alla speranza.
Ma i timori erano invece per ciò che sarebbe seguito.
Cosa avrebbe significato tutto questo, questa mia follia, per mia moglie e mia figlia?
Il prezzo di questo sogno di felicità, alla fine, sarebbero state loro a pagarlo.
La tensione tra i sentimenti contrastanti e il rimorso per ciò che stavo per fare creavano un turbine doloroso nello stomaco.
Ma ero lì, pensai: avevo varcato il confine tra il sogno e la realtà concreta, era tardi, anzi impossibile tornare indietro.
Questo era un momento che avevo desiderato troppo e con tutto me stesso, non potevo avere incertezze, se fosse stato un peccato avevo il resto della vita per pagarlo.
Volevo Martina anche solo per un unico bacio, per stringerla tra le braccia, per dirle che l’amavo, il resto era scritto nel destino.
Che Dio mi uccidesse, se lo desiderava, che mi togliesse il respiro, ma solo un attimo dopo averle detto “ti amo”.
Ero arrivato fino a lì per dirglielo e glielo avrei detto, fosse pure l’ultimo atto della mia esistenza.
Composi il numero, chiesi alla centralinista della persona con cui desideravo parlare.
Attesi in linea, una musichetta scandiva il trascorrere degli attimi, che divenivano, secondo dopo secondo, un’entità di tempo snervante e insopportabile.
Nel cielo fuori dalla cabina, nuvole gonfie e pesanti coprivano il sole: segnavano il temporale che sarebbe arrivato.
Eccola! La sua voce era l’esplosione gioiosa di mille campanelli d’argento, lo scrosciare fresco dell’acqua fra i ciottoli di un torrente montano, una fiamma bianca nella mia mente.
- Sandro!… Che piacere sentirti. Che magnifica sorpresa!… Dio, quanto tempo… Dove eri finito? Come stai, tesoro?
Era un fiume in piena, palpitante di domande, con quella voce soave che ricordavo e che desideravo di riudire, come la terra arida desidera l’acqua piovana.
Il battito del cuore rimbombava possente nelle mie tempie.
- Martina… ho chiamato per dirti grazie. Per dirti che oggi mi hai fatto un regalo meraviglioso.
Pensai d’avere un tono emozionato e penoso, che lei mi avrebbe trovato buffo, forse ridicolo, come un quindicenne alla sua prima telefonata sentimentale.
Ma non mi fregava niente, dovevo dirle quello che sentivo, solo questo contava.
- Voglio dirti che in tutto questo tempo, non ho mai smesso di pensarti. Le rose che ti ho mandato per più di un anno dicevano questo. Anche se non avevo il coraggio di firmare quei biglietti. Ma speravo che avresti capito. E questa mattina, le rose bellissime che mi hai mandato e il tuo biglietto hanno confermato che è stato così. Non importa ciò che mi risponderai. Non importa se mentre parlo ti farò solo ridere, perché quanto ho dentro, nasconderlo sarebbe peccato mortale. Mi sono nascosto per troppo tempo, ma ora basta:
Martina, io ti amo. Non posso vivere senza di te nella mia vita.
Restai in silenzio, ascoltando il suo respiro al di là del filo.
Credo di aver provato per la prima volta la sensazione di contrazione o distorsione della realtà e del tempo percepito.
Una condizione che fa sì, mentre le cose accadono, che tu ti senta estraniato da esse.
Le guardi avvenire da una posizione esterna al tuo corpo, come in un film che ti coinvolge ma non ti appartiene, e ti chiedi se davvero sei tu quello sullo schermo.
In questa assenza di te, lo sguardo osserva da una distanza siderale la vita che, intorno, continua a muoversi, a scorrere in migliaia di piccoli rivoli del tutto insignificanti, rispetto a ciò che stai vivendo.
Una saetta luminosa crepitò spezzando il manto livido del cielo, il boato cupo d’un tuono esplose dopo pochi attimi sopra di me, facendo fremere le pareti della cabina.
Le prime gocce del temporale si infransero con violenza contro le pareti in plexiglas dell’abitacolo con un crepitare fragoroso e assordante, richiamandomi alla realtà.
Martina restò in silenzio per un tempo lungo, cercava le parole, poi le vennero e parlò: - Sandro… tesoro. Ti giuro su ciò che ho di più caro al mondo, quelle rose di cui mi dici, avrei voluto essere io a inviartele. Tu fa’ conto che sia così. Ciò che hai detto è vero, sì. Avevo capito che eri tu l’uomo delle rose mensili.
Credimi, mi hanno sempre fatto piacere, era una prova d’affetto che mi faceva sentire bene e te ne ero grata. Ma queste rose di oggi, non sono mie.
Mi spiace, perché ti voglio bene, te ne voglio molto, ma come amico. Perdonami. Avrei tanto voluto, ma non sono mie… Lo capisci?
Poi il silenzio inghiottì i nostri respiri e restò solo il fragore della pioggia che tamburellava violenta sulle pareti della cabina, nascondendo sotto un muro d’acqua il mondo all’intorno.
Seguivo con lo sguardo strisce, miste di polvere antica e pioggia, che disegnavano verticali scure lungo le pareti, sembravano lunghe lacrime nere.
Avevo capito, ma una voce dentro mi diceva: “Ma no, dai, non può essere così, vedrai che adesso ti dice che anche lei ti ama.”
- Sandro, ci sei ancora? Non ti sento più. - sussurrò con apprensione.
Mi stavo mordendo le labbra per frenare le lacrime, se fossero venute avrebbero avuto maggiore violenza del temporale di fuori.
Sperduto come un bambino che si è perso per strada, cercai nell’adulto che ero di trovare le parole: balbettai qualcosa del tipo: - Scusami, Martina, è stato un equivoco. Ho sbagliato… sono un cretino. Scusami ancora… ciao, un bacio.
Riappesi la cornetta e uscii dalla cabina, camminai lentamente fino alla macchina sotto quel diluvio.
Della pioggia che mi inzuppava fino al midollo che m’importava, tanto ero già morto.
Il cuore si era fermato in quella cornetta.
Avviai la macchina e presi la direzione per l’autostrada, avevo bisogno di andare lontano, da me, dalla città, avrei viaggiato fino al tramonto.
Pensai al sorriso ironico di Signetti e tutto mi fu chiaro, ma che importava oramai.
Che stupido ero stato.
(Fine)
Una rosa per Martina Pt.14 (Fine)
Martina mi aveva mandato le rose per il mio compleanno.
Martina mi amava come io l’amavo: un sogno vivo e a colori che confinava il resto del creato nel grigiore più insignificante.
Quella mattina, segnata da un cielo cupo di nuvole che promettevano pioggia, si era rivelata, per me, la più luminosa degli ultimi anni, sprizzavo felicità da ogni poro del corpo.
L’ora d’entrata in azienda era scoccata da una trentina di minuti, gli spazi di lavoro si stavano riempiendo del personale, tutt’intorno le scrivanie si animavano di operatività, nei vari uffici iniziavano a trillare i telefoni: la nuova caotica giornata aveva inizio.
Con la mente in forsennata agitazione rimasi a cercare di riflettere sul cosa fare.
Ero combattuto da una moltitudine di idee che balenavano come in uno spettacolo pirotecnico fra le pareti del cervello.
Una sola cosa mi era chiara: quella mattina, in quello stato d’agitazione, non avrei potuto lavorare.
Non potevo restare un solo attimo di più senza sentire la sua voce, parlarle, vederla, stringere a me la sua persona: dovevo uscire subito dall’ufficio.
Dissi alla mia segretaria di sezione che non sarei rimasto in azienda, che avevo cose da sbrigare all’esterno: avrei fatto il giro dei nostri negozi.
Le dissi anche che difficilmente sarei rientrato a fine pomeriggio, era una cosa lunga, quindi non ne ero certo.
Insomma, che per quel giorno si arrangiassero senza di me, che si fottessero, avevo altro da fare.
Presi il mio mazzo di rose e mi diressi rapido verso l’uscita, più che camminare volteggiavo nell’aria.
Nel corridoio incrociai la Signetti.
- Buongiorno Graimaldi. Auguri per il suo compleanno. - disse – Ma che bel mazzo di rose le hanno donato… Complimenti. - aggiunse, sorridendo con una velata ironia.
- Grazie Signetti, davvero gentile. - risposi frettoloso.
- Dove è diretto con quel bel mazzo? - urlò alle mie spalle.
- Chieda alla segretaria, Signetti. Sa tutto lei. - risposi senza voltarmi, mentre inforcavo la porta dell’ascensore.
Ero troppo felice, neppure la sua vista poteva smorzare l’effervescenza del momento.
Saltai in auto e mi diressi a tavoletta verso l’azienda di Martina.
Il traffico del mattino era fastidiosamente corposo e lento, ma ci scivolai nel mezzo con lo spirito positivo d’un Mosè che divide le acque del Mar Rosso.
Già mi vedevo, alla maniera del film “Ufficiale e gentiluomo”, irrompere nei corridoi della sua ditta, con la baldanza di un Richard Gere che va a prendersi Debra Winger, impegnata al lavoro, e se la porta via in braccio, fra due ali sconcertate e plaudenti di operai della fabbrica.
Nei pressi della sua azienda, da una cabina telefonica, l’avrei chiamata per annunciarle che ero arrivato.
Anzitutto l’avrei ringraziata delle rose e del meraviglioso biglietto, poi avrei parlato di noi, di quanto aveva riempito i miei pensieri a dispetto del tempo e della lontananza, le avrei detto che avremmo ricominciato da dove ci eravamo lasciati.
Le avrei detto anche migliaia di altre cose che avevo tenute dentro, pensando continuamente a lei e a noi.
Parcheggiai l’auto a pochi passi dall’imponente sede aziendale del suo impiego.
L’edificio era una vecchia fabbrica modernamente ristrutturata, sul progetto degli architetti milanesi Aldo Rossi e Gianni Braghieri che ne avevano curato la realizzazione: la facciata esterna era un solido baluardo di mattoni rossi a vista, nello stile neoclassico del ventennio fascista.
Frontalmente, all’angolo opposto del caseggiato, vi era una cabina telefonica situata davanti a un bar.
All’interno del locale ordinai un caffè e acquistai una trentina di gettoni telefonici, confidavo sarebbero bastati per la lunga conversazione che mi attendeva.
Avevo la testa in fiamme, le pulsazioni nelle mie tempie erano un frastuono che copriva il rumoroso traffico mattutino.
Mi chiusi nella cabina, iniziai a inserire rapidamente i gettoni, la mano mi tremava per la tensione, avevo un nido di calabroni in conflitto all’interno del cranio.
Speranza e timore si mescolavano nello stomaco, con vampate improvvise che davano una vertigine.
Il suo biglietto era la prova inconfutabile di ciò che anche lei provava: non lasciava alcun dubbio alla speranza.
Ma i timori erano invece per ciò che sarebbe seguito.
Cosa avrebbe significato tutto questo, questa mia follia, per mia moglie e mia figlia?
Il prezzo di questo sogno di felicità, alla fine, sarebbero state loro a pagarlo.
La tensione tra i sentimenti contrastanti e il rimorso per ciò che stavo per fare creavano un turbine doloroso nello stomaco.
Ma ero lì, pensai: avevo varcato il confine tra il sogno e la realtà concreta, era tardi, anzi impossibile tornare indietro.
Questo era un momento che avevo desiderato troppo e con tutto me stesso, non potevo avere incertezze, se fosse stato un peccato avevo il resto della vita per pagarlo.
Volevo Martina anche solo per un unico bacio, per stringerla tra le braccia, per dirle che l’amavo, il resto era scritto nel destino.
Che Dio mi uccidesse, se lo desiderava, che mi togliesse il respiro, ma solo un attimo dopo averle detto “ti amo”.
Ero arrivato fino a lì per dirglielo e glielo avrei detto, fosse pure l’ultimo atto della mia esistenza.
Composi il numero, chiesi alla centralinista della persona con cui desideravo parlare.
Attesi in linea, una musichetta scandiva il trascorrere degli attimi, che divenivano, secondo dopo secondo, un’entità di tempo snervante e insopportabile.
Nel cielo fuori dalla cabina, nuvole gonfie e pesanti coprivano il sole: segnavano il temporale che sarebbe arrivato.
Eccola! La sua voce era l’esplosione gioiosa di mille campanelli d’argento, lo scrosciare fresco dell’acqua fra i ciottoli di un torrente montano, una fiamma bianca nella mia mente.
- Sandro!… Che piacere sentirti. Che magnifica sorpresa!… Dio, quanto tempo… Dove eri finito? Come stai, tesoro?
Era un fiume in piena, palpitante di domande, con quella voce soave che ricordavo e che desideravo di riudire, come la terra arida desidera l’acqua piovana.
Il battito del cuore rimbombava possente nelle mie tempie.
- Martina… ho chiamato per dirti grazie. Per dirti che oggi mi hai fatto un regalo meraviglioso.
Pensai d’avere un tono emozionato e penoso, che lei mi avrebbe trovato buffo, forse ridicolo, come un quindicenne alla sua prima telefonata sentimentale.
Ma non mi fregava niente, dovevo dirle quello che sentivo, solo questo contava.
- Voglio dirti che in tutto questo tempo, non ho mai smesso di pensarti. Le rose che ti ho mandato per più di un anno dicevano questo. Anche se non avevo il coraggio di firmare quei biglietti. Ma speravo che avresti capito. E questa mattina, le rose bellissime che mi hai mandato e il tuo biglietto hanno confermato che è stato così. Non importa ciò che mi risponderai. Non importa se mentre parlo ti farò solo ridere, perché quanto ho dentro, nasconderlo sarebbe peccato mortale. Mi sono nascosto per troppo tempo, ma ora basta:
Martina, io ti amo. Non posso vivere senza di te nella mia vita.
Restai in silenzio, ascoltando il suo respiro al di là del filo.
Credo di aver provato per la prima volta la sensazione di contrazione o distorsione della realtà e del tempo percepito.
Una condizione che fa sì, mentre le cose accadono, che tu ti senta estraniato da esse.
Le guardi avvenire da una posizione esterna al tuo corpo, come in un film che ti coinvolge ma non ti appartiene, e ti chiedi se davvero sei tu quello sullo schermo.
In questa assenza di te, lo sguardo osserva da una distanza siderale la vita che, intorno, continua a muoversi, a scorrere in migliaia di piccoli rivoli del tutto insignificanti, rispetto a ciò che stai vivendo.
Una saetta luminosa crepitò spezzando il manto livido del cielo, il boato cupo d’un tuono esplose dopo pochi attimi sopra di me, facendo fremere le pareti della cabina.
Le prime gocce del temporale si infransero con violenza contro le pareti in plexiglas dell’abitacolo con un crepitare fragoroso e assordante, richiamandomi alla realtà.
Martina restò in silenzio per un tempo lungo, cercava le parole, poi le vennero e parlò: - Sandro… tesoro. Ti giuro su ciò che ho di più caro al mondo, quelle rose di cui mi dici, avrei voluto essere io a inviartele. Tu fa’ conto che sia così. Ciò che hai detto è vero, sì. Avevo capito che eri tu l’uomo delle rose mensili.
Credimi, mi hanno sempre fatto piacere, era una prova d’affetto che mi faceva sentire bene e te ne ero grata. Ma queste rose di oggi, non sono mie.
Mi spiace, perché ti voglio bene, te ne voglio molto, ma come amico. Perdonami. Avrei tanto voluto, ma non sono mie… Lo capisci?
Poi il silenzio inghiottì i nostri respiri e restò solo il fragore della pioggia che tamburellava violenta sulle pareti della cabina, nascondendo sotto un muro d’acqua il mondo all’intorno.
Seguivo con lo sguardo strisce, miste di polvere antica e pioggia, che disegnavano verticali scure lungo le pareti, sembravano lunghe lacrime nere.
Avevo capito, ma una voce dentro mi diceva: “Ma no, dai, non può essere così, vedrai che adesso ti dice che anche lei ti ama.”
- Sandro, ci sei ancora? Non ti sento più. - sussurrò con apprensione.
Mi stavo mordendo le labbra per frenare le lacrime, se fossero venute avrebbero avuto maggiore violenza del temporale di fuori.
Sperduto come un bambino che si è perso per strada, cercai nell’adulto che ero di trovare le parole: balbettai qualcosa del tipo: - Scusami, Martina, è stato un equivoco. Ho sbagliato… sono un cretino. Scusami ancora… ciao, un bacio.
Riappesi la cornetta e uscii dalla cabina, camminai lentamente fino alla macchina sotto quel diluvio.
Della pioggia che mi inzuppava fino al midollo che m’importava, tanto ero già morto.
Il cuore si era fermato in quella cornetta.
Avviai la macchina e presi la direzione per l’autostrada, avevo bisogno di andare lontano, da me, dalla città, avrei viaggiato fino al tramonto.
Pensai al sorriso ironico di Signetti e tutto mi fu chiaro, ma che importava oramai.
Che stupido ero stato.
(Fine)