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Una rosa per Martina Pt.12

Posted: Sun Jul 06, 2025 7:08 pm
by Nightafter
[MI 184] Giulia - Costruttori di Mondi


Una rosa per Martina Pt.12


Le prime due settimane trascorsero senza che nulla fosse al di fuori della solita routine: il lavoro, all’inizio della stagione, partiva sempre a rilento, i buyer avevano iniziato i loro viaggi di ricerca e gli stilisti a buttar giù disegni e campionare tessuti.
In verità, non ero molto impegnato, così mi accadeva di ripensare a Martina. Aprivo il cassetto della scrivania e guardavo la sua foto: mi chiedevo come fosse diventata ora la sua vita, quanto fosse cresciuto il suo bimbo, se avesse qualcuno al suo fianco.
Chissà se, in tutto questo tempo, le fosse mai capitato, come a me, di addormentarsi la sera pensando a quelle nostre chiacchierate, a fine lavoro, fatte di allegre confidenze nel chiuso della mia macchina.
La Signetti continuava a ignorarmi; anche incrociandoci nei corridoi, i nostri saluti restavano anonimi e formali, cosa che mi rendeva estremamente felice.
Ma avevo bellamente peccato d’ottimismo: il suo silenzio non durò a lungo.
Mi ero illuso che la nostra faccenda non avesse un seguito, che restasse un episodio privo di conseguenze.
M'ero sbagliato alla grande. Un mattino, giungendo in ufficio, trovai sulla scrivania una piccola busta. Conteneva un suo biglietto, naturalmente senza firma, ma inequivocabile nel messaggio:
– Questa sera, se ti va, prendiamo un aperitivo insieme. Ho voglia di vederti da soli. Ti aspetto intorno alle diciannove al bar Biffi in corso Vittorio. – Merda! – pensai. Ecco che ripartivano i casini.
Era la peggior novità che potessi ricevere in apertura di quella giornata.
Rimasi a rigirarmi il biglietto tra le mani, con lo spirito di chi ha ricevuto la sua sentenza di condanna.
Restai in uno stato di inquietudine per tutto il giorno. La Signetti, impegnata in qualche consiglio di direzione, non si vide per l’intera giornata.
Un tremito interiore mi agitava, salivano ondate di calore al plesso solare. Incapace di decidere, vagliavo le alternative che mi si ponevano: ovvero la scelta tra la padella d’olio bollente e la brace incandescente.
Accettare l’invito significava dare il via a una relazione segreta che avrebbe condotto a un prevedibile mare di guai.
Rifiutarlo avrebbe avuto un esito altrettanto nefasto: grazie a quanto accaduto in quell’ascensore, l’avrebbe vissuta come un’offesa svilente.
Si sarebbe sentita usata e poi scaricata come l’ultima delle puttane.
Il suo rancore e la conseguente vendetta sarebbero arrivati a stretto giro di posta.
Divenire il suo amante apriva uno scenario da incubo: sarei stato soggetto a ogni suo capriccio, costretto a subire in silenzio ogni iniziativa malsana che le fosse balzata in mente.
Non ci voleva un genio per capire quali problemi potesse rappresentare, anche solo d’ordine pratico, prima ancora che morale.
Era una donna sposata, ma con una libertà di movimento assoluta; io, al contrario, ero totalmente controllabile.
Se, ad esempio, avesse deciso di passare una settimana in montagna senza suo marito – cosa tra loro normale – chiedendo e pretendendo che la seguissi, come avrei potuto giustificare a mia moglie quella lunga assenza?
Per non parlare delle numerose volte in cui avrebbe voluto fare sesso, costringendomi a incontri in alberghi collinari per coppie clandestine, con l’ansia di tornare a casa a tarda sera, con addosso profumi, odori o segni di quelle ore d’infedeltà.
La mia vita matrimoniale sarebbe divenuta un mare di mine vaganti, di menzogne, di tensione, nel timore di essere scoperto in quella relazione fedifraga.
Solo questo mi attendeva.
All’ora d’uscita dall’ufficio, montai in auto e mi diressi verso il luogo dell’appuntamento. Non era molto distante, vi giunsi infatti con un buon quarto d’ora di anticipo.
Parcheggiai sul controviale del corso; da quella posizione potevo vedere, non visto, l’entrata del bar.
Decisi di attendere, restando in macchina, l’arrivo di lei.
Tirai giù mezzo finestrino e mi accesi una sigaretta. Arrivò con cinque minuti di ritardo. La vidi entrare nel locale, poi, attraverso le grandi vetrate, guardarsi intorno cercandomi, infine dirigersi verso l’interno alla ricerca di un tavolino e sparire dalla vista.
Tirai su il vetro dell’auto e aprii la portiera, accingendomi a scendere. Mi sentivo come un condannato che, per un momento, avesse intravisto la possibilità della grazia, per poi vedersela negare quando ormai fosse convinto di averla ottenuta.
Avevo il morale sotto le scarpe.
Poi, di colpo, mi montò una rabbia sorda.
Provavo ripugnanza per la codardia con cui mi stavo lasciando soggiogare da quella donna.
Stavo per mettere la mia vita e la mia dignità nelle sue mani, lasciando che il suo capriccio decidesse delle mie azioni e della mia volontà.
In un sussulto d’orgoglio, gettai il mozzicone della sigaretta, avviai l’auto, feci retromarcia e me ne andai.
Fosse quel che doveva essere, lo avrei affrontato a schiena dritta.
Già troppo mi ero prestato al suo gioco; era il momento di dire basta.

Mi diressi a casa. Avrebbe capito che non se ne faceva nulla.
Si sarebbe incazzata come un’Erinni, certo, me l’avrebbe fatta pagare in qualche modo, era inevitabile, ma la mia vita matrimoniale valeva il sacrificio.
Come previsto, non aveva apprezzato che le avessi dato buca.
Infatti, la mattina seguente, passò davanti alla mia postazione senza degnarmi d’uno sguardo.
Aveva l’aria serena d’un tornado che stesse inventariando il proprio potenziale distruttivo.
Mi guardai bene dal solo alzare gli occhi nel vederla passare, fingendo d’essere immerso in un intenso lavoro.
A tarda mattina, udii la sua voce alterata provenire dal box del suo ufficio; forse parlava col direttore amministrativo o il presidente.
– In questa azienda c’è mancanza di nerbo e spina dorsale – la sentii proclamare. – Non si affrontano le sfide e manca il carattere. Sarà necessaria una seria razionalizzazione delle risorse interne – concluse cupa.
Da quel momento, iniziai a vivere come un apprendista fachiro sul suo materasso di chiodi.
Non sbagliavo: non ci volle molto perché iniziassero i primi dolori.
Il mio ruolo aziendale, come responsabile dell’immagine dei punti vendita, era sempre stato una posizione operativamente autonoma: rispondevo del mio lavoro direttamente al presidente.
Una mattina, mi ritrovai sulla scrivania una circolare emessa dalla Signetti.
Il documento informava che, nell’ottica di un’ottimizzazione delle sinergie aziendali, la mia figura veniva aggregata all’area del marketing strategico.
Di conseguenza, con decorrenza immediata, il mio ruolo sarebbe passato sotto la direzione del responsabile marketing.
In sostanza, venivo privato della mia autonomia progettuale e operativa.
Avrei dovuto rispondere a lui anche per ogni volta che mi alzavo per andare in bagno. Anche la mia postazione fisica non avrebbe più goduto di un’area di lavoro personale: la mia scrivania sarebbe stata spostata nella nuova sezione d’appartenenza.
Venivo sostanzialmente degradato e commissariato nell’organigramma aziendale.
Di fatto, mi sarei trovato a lavorare di fronte all’ufficio vetrato della Signetti, che avrebbe avuto il controllo visivo di ogni mia azione e spostamento.
Un primo passo per potermi inchiodare e crocifiggere al minimo errore. Conoscevo la tecnica: questa era l’anticamera del mobbing che sarebbe seguito per costringermi a trovarmi un nuovo lavoro.
Era la tragedia annunciata.
L’unica cosa sensata che mi restava da fare era iniziare a guardarmi intorno per trovare una nuova occupazione.
Avrei iniziato a scorrere annunci di ricerca personale sui quotidiani e a spedire curriculum.
Mi sarei almeno risparmiato una permanenza insostenibile e umiliante.
Non avevo parlato a mia moglie dei problemi che stavo attraversando; ci sarebbe stato troppo da spiegare.
Al momento, non ritenevo utile preoccuparla.
Almeno a lei lasciavo spensieratezza e sonni tranquilli, mentre io mi maceravo il fegato pensando a quella stronza e al casino in cui mi aveva cacciato.

Due mesi più tardi, la mia situazione in azienda non era mutata.
Continuavo la mia ricerca di un nuovo posto di lavoro, che al momento non aveva ancora dato frutti.
Mi ero dovuto adattare alla nuova sistemazione logistica e al dover dar conto di ogni iniziativa al mio nuovo superiore.
Era fastidioso, poiché pareva di camminare con sacchi di sabbia a zavorrarmi le caviglie: ogni idea andava presentata, discussa, motivata al millesimo prima di diventare operativa.
Ma tant’è, inutile avvelenarsi il sangue.
Non mi restava che stringere i denti e resistere fino al momento in cui avrei trovato una sistemazione alternativa per mandare a stendere la Signetti e tutta l’azienda.
Del resto, non esistevano lavori da dipendente che non fossero soggetti a un vertice gerarchico.
L’autonomia e la mano libera nel proprio operato erano riservate al solo lavoro indipendente, come avveniva per artigiani o liberi professionisti.
In effetti, l’idea di munirmi di partita IVA e intraprendere un’attività di consulente, offrendomi alle aziende nella materia di mia competenza, mi stava diventando allettante.
La Signetti, dopo quell’energico colpo basso, pareva essersi, in apparenza, appagata.
Ma, conoscendola, non dubitavo che avesse in serbo nuove iniziative per nuocermi.
Era noto che rettili e aracnidi possono attendere, nell’immobilità assoluta, il momento più propizio per aggredire la propria preda.
Dalla scrivania, ogni tanto alzavo lo sguardo dal lavoro e puntualmente trovavo, di là dal vetro, i suoi occhi a osservarmi, torvi e affilati come lame.


(Continua)