Buon compleanno Pt.8

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[CC23] Lòm a Mêrz - Strega - Costruttori di Mondi



Buon compleanno Pt.8




Fanculo a lei e a 'sto ascensore delle palle!
Perché 'sta puttana di luce non tornava ancora?
Si fece più vicina, potevo sentire l'aura calda del suo corpo, ci stavamo sfiorando.
- Cosa c'è che non le piace in me Martini?…Me lo dica? La sento freddo nei miei confronti. E il mio viso che non le garba? Oppure è il mio corpo? Non sono il suo tipo?
La sua voce era un sussurro caldo e accattivante.
Una tensione elettrica correva lungo la mia schiena, dovetti rabbrividire per fermarla.
- Ma no, cosa dice, si figuri, lei è molto bella, glielo ripeto.
- E com'è il suo tipo Martini, mi dica? Una donna come sua moglie? O ha in mente un genere diverso? Chessò, qualcuna del suo passato, magari ora più lontano? -
Cosa stava insinuando? Non capivo dove volesse arrivare, o meglio credevo di capirlo benissimo, e questo non mi piaceva affatto.
- Non parla Martini? Non mi dice nulla? Cosa non le piace di me, forse il mio profumo?
Tacevo, continuavo a sudare, maledivo quella sauna, e accidenti al suo profumo.
- Ma no Signetti, cosa dice? Il suo profumo è…è…-
- Su, lo dica, non sia timido. Come è il mio profumo?…Me lo descriva. -
Si era avvicinata al mio orecchio, nel buio era un bisbiglio lascivo.

- Lo sa che ha un buon odore Martini? Sono pochi gli uomini che sudando così mantengono un odore gradevole. Lei sa di maschio, ma buono...
Queste parole erano quasi in un soffio, mi parve di avvertire le sue labbra sfiorarmi il lobo.
Era il diavolo fatto femmina questa donna. Cristo, se lo era.
- Mi ascolti, la prego: lei è una donna molto attraente, il suo profumo mi dà una vertigine. Se dovessi immaginare un tipo di donna desiderabile, mi creda, il suo sarebbe il primo che mi verrebbe in mente…Ma veda…-
- Cosa dovrei vedere Martini? Lo dica.
Le sue dita percorrevano lente la base del mio collo, poi scesero delicate, sfiorarono la peluria sul petto, mi graffiò piano un capezzolo, ci giocò con la punta delle unghie.
Il mio sesso se ne fotteva delle mie esitazioni, ormai tendeva il cotone dei pantaloni, una reazione pulsante, quasi dolorosa.
- Signetti, la prego, io non sono per queste cose, non sono libero. Mi comprenda: amo mia moglie, sono un uomo sposato.
Era quasi una invocazione, mendicavo la sua comprensione.
Ma non mi ascoltava, la sua mano si perdeva più in giù, sulla zip dei miei pantaloni.
- Anche io sono sposata Martini. Non è una scusa. Ne cerchi un'altra. 


La sua bocca sigillò la mia: il tempo delle parole era finito.
Alla fine otteneva quello che voleva, prendendoselo con imperio.
Non era abituata a rinunciare: se l'avessi respinta, posto che ne fossi capace, non me l'avrebbe perdonata.
Ormai era andata oltre, aveva varcato un limite dal quale non poteva tornare indietro.
La sua lingua morbida mi cercava, le risposi: baciava da sturbo.
Possedeva labbra soavemente carnose e bollenti, gliele morsi piano, tenendole la testa tra le mani.
Mi tirò a sé, sentivo i capezzoli eretti contro il mio petto.
Gli presi i seni tra le mani, a stento ne contenevo il volume, carezzai con veemenza,
leccai il loro turgore acceso, il sapido della sua pelle risvegliava pulsioni ferine.
Baciavo quei seni con voracità, passando da uno all'altro, li risucchiavo, li mordevo con foga, mescolando saliva e sudore.
Non era un sesso ardente e tenero, ma uno scontro di carne e corpi, una lotta di belve.
Sentì le sue unghie rigarmi la schiena, scese per cercarmi con la bocca.
Coprì quel percorso con lentezza, esplorando il mio sapore, mi accolse ingorda, fino a soffocare.


Mi traeva a sé con rabbia, quasi temesse di perdermi: un animale ansioso di cibo.
Respiravamo con sibilo di mantici, le narici dilatate per assorbire l'ossigeno rarefatto dell'esiguo spazio che ci conteneva.
Sentivo martellare le tempie, gli occhi nel buio catturavano scintille luminose, bagliori rossi che esplodevano nel campo visivo.
Ci appellavamo con epiteti turpi: lasciando libere le parole del sesso.
Le dicevo cose di una volgarità oscena, che non credevo di poter dire a una donna, lei le replicava, senza ritegno e pudore, cercandone di più indicibili e sconce.
Riempivamo lo spazio di rantoli, sussurri, sospiri e invocazioni improvvise.
Privi di freno, perché nessuno poteva sentirci, e il buio, amniotico, favoriva quell'abbandono dissoluto.
Non c'era tregua: non potevamo concedercela: rotolavamo inseguendoci, avvinghiandoci, scivolando nelle nostre umidità impudiche, urticando la pelle sulla moquette ispida e abrasiva.
Cercavamo il gusto dei nostri fluidi, inseguivamo le scie dei nostri odori segreti in ogni piega della carne.
- Sei un porco Martini! Lo sapevo che eri così. Scopami! Fammi sentire che mi vuoi.


La presi, da dietro, con un gesto rabbioso, le imposi un amplesso violento, brutale.
La schiacciai sotto colpi brutali: immaginavo, nel buio, il suo viso deformarsi in una tensione di piacere, dolorosa e scomposta.
A ogni mio affondo la sua fronte urtava, con un suono sordo, la superficie dello specchio che avevamo davanti, lei ci appoggiava le mani, cercava febbrile un appiglio per sorreggersi: i palmi umidi scivolavano inutili sul vetro, in quello sforzo vano.
Piegata sulle ginocchia spingeva il bacino all'infuori per resistermi, per attutire la forza del mio assalto, pareva un uccello ferito che si dibatteva per sfuggire alla trappola.
Irrompevo in lei con una foga rabbiosa che sapeva di vendetta, di volontà di piegare e punire.
Ma non poteva nulla, la tenevo: inutili le sue implorazioni mentre l'orgasmo veniva a scuoterla come un fuscello travolto dell'uragano.
Alla fine si arrese, si accasciò con un gemito di fiera abbattuta, che sente la vita sfuggire.
Solo allora mi lasciai sciogliere nel suo calore, come una falena che arde alla luce incandescente di una lampadina: esplosi col ruggito cupo.

Avevamo combattuto, ora la lotta era terminata.
Il mio sesso disciolto si ritirava da lei, finalmente sconfitta nella sua natura più fragile e umana, restavamo in quel teatro di guerra madidi, abbandonati ai nostri respiri ansanti come galata morenti.
Ora non parlava, non rideva più, persa nel suo silenzio con la mente lontana da lì.
Era vinta. Ma ero io, a sentire d'aver perso.
Uscimmo da quell'ascensore alle otto della sera, quando quelli delle pulizie si accorsero che eravamo rimasti lì.
La prima cosa che facemmo fu di lanciarci verso i bagni del piano, credo di non essere mai stato prossimo a un'esplosione della vescica come in quel fine giornata.
Non ci salutammo neppure, ognuno andò via col suo carico di pensieri, col peso del rimorso per quanto era accaduto, senza guardarci negli occhi, per non leggerci la colpa della follia  consumata.

Il ritorno in ufficio fu per entrambi segnato dalla difficoltà di rientrare nella routine quotidiana dei nostri ruoli e del lavoro.
Si era sparsa la voce del nostro incidente, tutti ci osservavano con la curiosità e la compassione che si ha per qualcuno scampato a un naufragio, o reduci da un malaugurato incidente.
Noi mascheravamo il disagio, sottraendoci ai commenti, quasi timorosi che dalle nostre facce, dalle parole si potesse intuire quel segreto vergognoso che ci univa.
Lei prese a ignorarmi, evitò di incontrarmi, di rivolgermi la parola, io feci altrettanto, eravamo divenuti fantasmi l'uno per l'altra, ci sfuggivamo, sfuggendo da quello che eravamo, da ciò che avevamo fatto, da noi stessi.
Quel nostro silenzio per me fu benvenuto: evitarci rendeva le cose più facili, ci risparmiava il supplizio di rammentare, di farci domande, di chiarire e definire quali sarebbero stati i nostri futuri rapporti personali e di lavoro.
Il tempo avrebbe lavorato, come il vento su un arenile, a sfumare e cancellare le impronte dei passi lasciati.

(Continua)
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