Bambolina pt.9

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Bambolina pt.9



Il ritorno da Firenze fu la celebrazione della mestizia: qualcosa che ricordava l'umore di chi torna da un funerale.
Di tutto il fervore che aveva accompagnato il viaggio d'andata erano rimaste le ceneri bagnata di un incendio spento con gli idranti, da un battaglione di vigili del fuoco.
Si sentiva depresso, svuotato, come dopo una febbre virulenta.
Nulla era andato come aveva sperato, ma la cosa che più lo aveva sconfortato e reso cupo, era stata la freddezza e il distacco di lei, in quel breve incontro.
Si sentiva un idiota, era furente con sé stesso per il trasporto velleitario e ingenuo che aveva speso nel desiderio di rivederla.
Si era lasciato coinvolgere da una sorta di sogno adolescenziale, come un sedicenne alla prima cotta.
Che cazzo aveva per la testa? Possibile che alla sua età potesse credere di stare su una nuvola dorata, senza rischiare di ritrovarsi con le chiappe sul selciato?
La vita era questa: fatta di sogni che sbattevano la faccia contro la banale caducità del reale
Avrebbe dovuto abituarsi a quelle docce fredde: chissà quante ne avrebbe subite nel corso di quella loro relazione.
L'atteggiamento di lei, trovato scostante e deludente, era il normale disagio di un lavoro nuovo: le responsabilità, le complessità e la pressione che si trovava ad affrontare.
Lei con i suoi vent'anni era pienamente calata nel reale: negli impegni, nella fatica di una nuova sfida professionale, capitale per il suo futuro.
Lui invece non vedeva tutto questo, perché aveva lo sguardo drogato dal suo bisogno infantile di attenzioni amorose.
Sognava unicamente di trovarsi con lei in una dimensione virtuale, uno spazio sospeso, accogliente come un ventre materno, lontano dai rumori e le cose del mondo: insomma una cazzata, irreale, di pura fantasia.
Era incredibile cosa riuscisse a desiderare in quella sua testa bacata.
Nei pochi lampi lucidità concluse che, anche se lo deludevano, non poteva ignorare le difficoltà di lei, e ammettere che si stava comportando come un bambino viziato, a cui hanno dato la fetta di torta più piccola.

Tornare al lavoro richiese uno sforzo di volontà pesante come un macigno.
La routine ordinaria era snervante: per la prima volta, da che stava in azienda, tutto gli risultava estraneo, i suoi compiti professionali vuoti, privi di finalità e significato. Qualcosa in lui si era rotto.
Forse doveva iniziare a cercare supporto psicologico, un bravo analista
che lo aiutasse a rimettere un po' d'ordine e senno in quel casino che aveva nel cervello.
Solo l'abitudine e la competenza acquisita negli anni gli consentivano di portare avanti il lavoro, in uno stato di automatismo senza volontà.


Pensava con rimpianto a quando soffriva per amore nelle sua adolescenza: come gli sembravano, allora, facili quei sentimenti, e quanta libertà c'era nel viverli.
Erano qualcosa di assoluto, in cui giocare tutto te stesso, perché importava solo quello, e non avevi altro da perdere che quella ricchezza di cuore ed emozioni.
L'amore quando si è giovani era un privilegio gratuito che la vita ti offriva
Ora non era più così: essere adulti e innamorati, soprattutto se non eri libero, significava pagare un prezzo, rinunciare a qualcosa d'importante per ottenerne un'altra.
Non era semplice come nei film, in cui due si incontrano: si amano e con cinica facilità, abbandonano moglie e figli per seguire il nuovo amore.
Forse gli americani ci riuscivano, collezionando matrimoni e divorzi come se cambiassero scarpe, ma lui non era americano, e gli americani gli stavano sul culo anche solo nei film.
Una cosa gli era chiara: quel suo stato non poteva essere normale, quella passione lo stava cambiando dentro.
Era un innamoramento che mutava in una crisi esistenziale: qualcosa come uno sfogo cutaneo, un'allergia verso ciò che era il suo lavoro, la sua sfera del privato, la sua vita.
Il pensiero di lei era un'ossessione: non vi era un momento delle giornate o prima del sonno notturno, che lei non fosse presente, come un fantasma desiderato in maniera struggente.
Stava ricalcando il cliché dell'uomo maturo che prende una sbandata per una ragazza con quasi la metà dei suoi anni: una sorta di “professor Humbert” nella “Lolita” di Nabokov?
Avrebbe dovuto sorridere di quell'accostamento, ma non ci riusciva, aveva perso il senso dell'ironia, oltre a quello del ridicolo.

Il fatto di non poterla sentire almeno al telefono lo faceva imbestialire: “Cristo!”, possibile che in quell'azienda fossero così rompicoglioni da fare storie per un telefonata privata di pochi minuti?
“Ma che cazzo di azienda era? Un posto di lavoro o un lager?”,
Questi pensieri gli ruotavano, ciclici, in mente almeno due volte ogni ora.
La tentazione di alzare il telefono e chiamare il suo numero era forte quanto la necessità di un tossico in carenza di farsi una dose.
Qualche volta, con astio, si era anche chiesto perché, lei, con un po' di buona volontà, non lo chiamasse da un telefono pubblico?
Ma dopo ci aveva ragionato: lavorando fino a tardi, se l'avesse chiamato in ufficio da una cabina, non l'avrebbe trovato, perché lui era già uscito.
“Fanculo, a quella sua azienda di merda che non la lasciava chiamare!”
Quanto controllo doveva usare, in quella pazzia che lo divorava, per non saltare in auto e farsi duecento chilometri per raggiungerla.
Aspettarla all'uscita dal lavoro: “Eccomi! Sono qui! Sali in macchina amore: cerchiamo il primo albergo e facciamo l'amore tutta la notte. Stretti come se l'universo stesse finendo, e noi evaporassimo con lui, nella fiammata d'una supernova.”

A parte il fatto di dover montare una giostra di menzogne, in casa e in ufficio, per giustificare un'assenza di almeno due giorni, questi erano sogni puerili e velleitari,
Lo avesse fatto, il risultato sarebbe stato, forse, più deprimente del mancato incontro di Firenze: magari sarebbe stata una giornata in cui era fuori ufficio, per un viaggio di lavoro; o si era beccata un brutto raffreddore con febbre ed era rimasta a letto; o più semplicemente, che avesse le sue cose mensili, e sarebbe stata poco disponibile a fughe romantiche.
Con la fortuna che aveva in quel periodo, nulla di più facile.
Meglio tenere i piedi per terra: lasciare che le cose seguissero il sentiero tracciato dal fato, poteva solo aspettare.
Erano trascorse tre settimane, di lei non c'era notizia, il telefono squillava per mille rotture di palle al giorno, ma restava muto per l'unica voce che lui volesse udire nella cornetta.
A casa doveva mostrare la più normale indifferenza, controllare i piani delle espressioni facciali, perché mostrassero la consueta serenità, talvolta un'allegria che era assai lontano dal provare.
Aveva ripreso a far l'amore con sua moglie, anni di affiatamento lo aiutavano a non tradire altri pensieri e desideri di un corpo diverso.
Si sentiva una merda, su questo non ci pioveva, ma non sapeva che farci.

Era passato un mese da quel mattino a Fortezza da Basso, era un lunedì e di Bambolina non giungeva eco.
Si trovò, dopo pranzo, al consueto distributore automatico sul corridoio aziendale, per prendersi un caffè.
Davanti al distributore intente a fare la stessa cosa trovò Angelica Ricciardi, l'amica intima di Bambolina, candidata a rilevarne la posizione aziendale, era insieme a Clara, una ragazza dello staff, con la quale chiacchierava amabilmente.
Le salutò con cordialità: - Salve ragazze, vi vedo allegre. Tutto bene?
- Sì bene, grazie. - rispose, per entrambe, Angelica – Stavo giusto raccontando a Clara che nel weekend ho visto Patrizia: che è venuta su a Torino col suo ragazzo e sabato siamo stati a cena insieme da “Giudice”, in collina.
Gli ci volle qualche secondo per elaborare il pieno significato la notizia, poiché non gli pareva di aver compreso bene.
- Scusa. Hai proprio detto di aver visto Bambolina?
- Esatto! Abbiamo passato la serata insieme, è stato fighissimo.

Con noncuranza si appoggiò col fianco al distributore perché d'improvviso aveva sentito le gambe molli.


(Continua)


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