Lili (3di?)

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commento


Non si rende conto che c’è sempre qualcosa che non va, in tutti. Spesso più di una sola cosa. Non sa che tutti vanno sempre in giro con qualcosa che non va e sono convinti di fare un grande sforzo di volontà e di controllo per impedire agli altri, che secondo loro non hanno mai niente che non va, di accorgersene.

David Foster Wallace, Il re pallido
    
La sedia sulla quale Liliana sedeva a suonare è ancora lì, sotto il fascio di luce che in tarda mattinata scende obliquo dal sopraluce sopra la vecchia porta d’ingresso dalla vernice scrostata, scaglie verdi che si sfogliano sulla superfice nervata e ingrigita di un legno ancora robusto. Impossibile non ricordare come la postura involontariamente sensuale, con lo strumento in mezzo alle gambe aperte, la mano sull’archetto che scivolava avanti e indietro e il fervore con cui la musica si impossessava di lei, lo eccitassero oltre misura, tanto da portarla ogni volta sul piano rialzato dell’ala ristrutturata, nel futon. Un paio di volte l’aveva spogliata su quella stessa sedia, prendendo il suo posto e tirandosela addosso. 
Il profumo di donna è ancora lì, ma non è quello della pelle, o del sesso, è il profumo del ricordo, di come all’inizio ogni cosa che facevano insieme, anche la più insignificante, fosse più divertente. Questo prima che Lili cominciasse a pretendere da lui una manifestazione di felicità che non era in grado di esibire, a reclamare una dimostrazione verbale e convincente non tanto di quanto la vita fosse più facile e piacevole insieme a lei, che questo glielo aveva riconosciuto in più di un’occasione, ma piuttosto meravigliosa e degna ora che si erano incontrati. La reticenza di Graziano al riguardo, il modo in cui aveva sempre eluso le provocazioni, il suo riserbo, l’avevano resa via via sempre più diffidente e recriminatoria, fino ad accusarlo di essere invecchiato prima del tempo e nel modo peggiore, come quei vecchi musoni perennemente infelici (8).
Affermazioni del genere, un tempo, gli avrebbero fatto molto male, ma ora non più. Graziano si guarda intorno, al centro dell’ala vecchia della casa, e realizza perlomeno due cose: la prima è il fatto di non sentirsi tutto sommato così infelice, e la seconda è che forse non dovrebbe trascurare in questo modo la sua fortuna, lasciando che la natura guadagni terreno.

(continua)
 



8) Il fatto è che c’è sempre stato qualcosa di indicibile. Qualcosa che non si poteva e non si può dire perché, nel momento in cui lo si fa – sia pure senza risentimento o vittimismo alcuno, sia pure con tutta la determinazione di questo mondo ad andare avanti - subito ci viene appiccicata addosso un qualche tipo di insufficienza psicologica.
In fondo non è difficile. Bastano due parole, corredate di articolo e predicato: la-vita-fa-schifo.
Questa è la realtà di cui non si può parlare, pena il venir tacciati di negatività dagli insicuri equilibristi del karma o dagli irritabili poeti dell’ottimismo. E tuttavia, malgrado il nostro punto di vista sia in effetti suscettibile di cambiamento in relazione alla buona o cattiva sorte (8a), ciò non toglie che la vita nel suo complesso, nel complesso delle quantità astronomiche di sofferenza che genera ogni giorno, faccia schifo. Se va di lusso per noi, possiamo esser certi del fatto che per altri, per molti altri, sia un incubo. Le ragioni di chi non è disposto ad ammetterlo, sono perfettamente comprensibili. La paura è comprensibile. Prendiamo il suicidio, ad esempio (8b). È una scelta che a tutti gli effetti dovrebbe essere considerata legittima, laddove non sussista una fede religiosa che assegni al Dio di turno un qualche tipo di prelazione sulla nostra vita, eppure viene interpretata da chi vive come una malattia, un disturbo, un’anomalia, insomma qualsiasi cosa possa allontanare il più in fretta possibile il concetto da sé. Perché? Perché, credo, le ragioni che ci tengono in vita fanno capo da una parte all’istinto di sopravvivenza e dall’altra alla forza di volontà che sappiamo essere più forte dell’istinto, quando vuole. Comprensibile dunque aver paura di un’eventuale deriva dei propri pensieri. Comprensibile temere, nel momento in cui si prendono le distanze dall’irreparabile gesto altrui, che il morbo ci contagi dall’interno cogliendoci privi delle più elementari difese.
E tuttavia, la nostra legittima determinazione a viverla non toglie che la vita faccia schifo. Fa schifo perché è un eterno conflitto senza soluzione. Conflitti tra popoli, tra etnie diverse, tra religioni diverse, tra genitori e figli, tra amanti, conflitti in cui se io vinco l’altro perde e se l’altro vince allora perdo io, conflitti nei quali spesso, troppo spesso, il pensiero dell’uno costituisce la nemesi dell’altro e dove quindi non esistono punti di incontro, soltanto vincitori che propugnano la vittoria come verità universale – e non per quello che è, cioè il punto di vista del più forte - e vinti che camuffano la sconfitta dietro la maschera dei buoni sentimenti (8c). La vita fa schifo perché il benessere individuale a cui siamo abituati, lo stesso che ci qualifica nella società in cui viviamo, sottrae sempre e comunque qualcosa non solo alla felicità collettiva, ma persino alla mera sopravvivenza della parte più cospicua del genere umano, quella delle persone per le quali l’insignificanza sociale non ha mai costituito un problema, perché il problema principale per loro è sempre stato ed è ancora la pura e semplice sopravvivenza, propria e dei propri figli.
Lo so, è un approccio filosofico cinico quanto basta per essere considerato conservatore, eppure da qui partono le mie considerazioni al riguardo, cioè dalla consapevolezza che la vita è sofferenza per la gran parte degli esseri umani e che nessuna religione possa assolverci dalle nostre responsabilità, perlomeno intellettuali. Dunque la domanda è: possiamo ammettere che la vita fa schifo e ciò nonostante continuare a vivere e godere nel farlo? Intendo nel moderato consumo dei piccoli piaceri quotidiani - del cibo, del bere, dei buoni libri, dei contatti umani, del sesso, del riposo dopo la fatica, del silenzio dopo la confusione, del sogno dopo la realtà, nella consapevolezza di avere intorno un mondo di gente che soffre, ma anche crea, immagina, si proietta verso il prossimo e vola, vola con la fantasia. E infine, possiamo convivere con i sensi di colpa, pensando a tutte quelle persone che non hanno nulla o quasi di tutto ciò di cui noi disponiamo, sentendoci spesso e comunque infelici?

(8a) Quanto è legittimo esprimere un giudizio positivo sulla vita se è chiaramente subordinato a qualcosa di tanto effimero quanto può esserlo ciò che in Romagna viene metaforicamente e volgarmente definito bus de cul? Con quale presunzione ci si arroga la facoltà di definire bella la vita se si ha la fortuna di disporre di tutto ciò di cui necessita la propria sopravvivenza (e anche di più), nello stesso momento in cui qualcun altro chiaramente no? Se si hanno buone ragioni di ritenersi fortunati e tutte le intenzioni di godersela, la propria fortuna, non si dovrebbe avere anche e perlomeno il buon gusto di starsene zitti?

(8b) Molti personaggi noti hanno compiuto il gesto fatale e ciò nonostante sono riusciti ad essere, per ciò che hanno detto o fatto o per l’immagine con cui si sono posti nel mondo, un punto di riferimento per altri. Ne cito alcuni che ho molto amato e stimato, per essermi in parte riconosciuto in loro, o nella loro opera: David Foster Wallace sopra tutti, ma anche Anthony Bourdain, Robin Williams, John Belushi, Tony Scott. Ci tengo a dire che la mia stima nei loro confronti, in qualità di artisti e di uomini, dopo non è venuta meno e nemmeno più. Semmai è cresciuto l’affetto virtuale che provo per loro in virtù del ruolo, da me auto-ufficializzato, di spiriti guida.

(8c) Questo per dire come, rapportata alla capillare complessità degli eventi – complessità determinata dal fatto che anche il più piccolo e insignificante accadimento si relaziona in qualche modo a un evento o a una serie di eventi precedente/successiva – qualsiasi verità vada intesa in primo luogo come un’interpretazione e in secondo come una semplificazione. Ne consegue che, a prescindere da quanto eloquente ci appaia il relatore che la pone alla nostra attenzione, nell’uno e nell’altro caso non potrà essere che una verità di comodo.
  

Re: Lili (3di?)

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Bob66 ha scritto:sotto il fascio di luce che in tarda mattinata scende obliquo dal sopraluce sopra la vecchia porta d’ingresso dalla vernice scrostata (...)
Ecco una frase che mi mette in crisi (come lettore che talvolta tenta anche di scrivere e che, quindi, non riesce a fare a meno di pensare - molto presuntuosamente - come avrebbe scritto quella frase).
Mi s'è inceppata la lettura in quel "sotto - che scende - dal sopraluce - sopra la porta".
Però, talvolta, proprio perché non mi piace, e per un istante mi stacco dal flusso della narrazione, mi capita di notarne in modo particolare l'efficacia. Qui, mentre m'inceppavo (e vagamente iniziavo a pensare che non lo avrei scritto così nemmeno...), mi si formava davanti agli occhi l'immagine dell'ambiente. E... che devo dire? Forse anziché pensare a come scriverei io una frase, a come descriverei io un'ambientazione, a come (eccetera...) farei meglio a lasciarmi trasportare dalla lettura.

Molto efficace anche il seguente scatenarsi del ricordo sensuale totalmente (o... apparentemente...?) fuori tema.

Capitolo breve: aprendo lo spoiler mi aspettavo già un approfondimento-digressione particolarmente... "invasivo".
E, in effetti, basta un piccolo pretesto: un'accusa di quelle che per lo più non hanno peso e possono essere formulate quasi senza impegno, senza l'intento di ferire (né di scatenare chissà quali riflessioni); che chi riceve può tranquillamente trascurare.

E invece no: in Graziano (volutamente adesso confondo voce narrante e protagonista) il magma ha raggiunto pressioni elevatissime - penso, forse drammatizzando un poco - subito all'inizio della nota (e intanto noto in visione periferica che arrivano anche le note alle note :asd:  ). Ma non ho esagerato, perché il proseguimento è altamente drammatico. Non perché torni il lamentoso (pur se detto in modo ostentatamente asciutto) "la vita fa schifo", ma perché la deriva del pensiero porta al suicidio. Che, sì, può essere un interrogativo incomprensibile, ma nel momento in cui ci si ragiona può diventare un'eventualità che si contempla.
Eh.
Per il momento seguo le tue riflessioni e mi tengo le mie. Principalmente perché non ho un'idea del suicidio, che è uno degli argomenti dei quali posso dire di aver riflettuto di più (in risposta al favoloso elenco dei tuoi spiriti-guida, io calo il carico del mio: Primo Levi, la cui fine è solo superficialmente attribuibile ad una possibile malattia incurabile o al peso insostenibile del passato). Uno degli argomenti dei quali ho riflettuto di più, dicevo, con l'eccezione, rispetto ad altri temi, di non essere proprio riuscito a farmi un'idea.

Re: Lili (3di?)

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queffe ha scritto: Eh.
Credo che queste due semplici lettere arrivino al punto più di quanto mille altre parole potrebbero mai fare. Con tutto ciò che le precede (e premetto che la prima cosa che mi è venuta in mente leggendo il commento è stata "wow, qui facciamo sul serio.") non mi trovo sempre d'accordo, anche se capisco le ragioni che stanno alla base di ciò che non condivido. In primo luogo voglio dire che ho fatto di tutto, nel senso che ci ho proprio pensato molto, per far sì che il pezzo non assumesse un tono lagnoso o lamentoso che dir si voglia, però leggendo il tuo commento e proprio perché lo ritengo molto acuto e intelligente, mi viene da dire che è una battaglia persa. C'è un elemento di cui la filosofia che conosco non tiene conto in quanto tende a trascurare gli aspetti congiunturali (per me fondamentali) per concentrarsi a elaborare gli aspetti oggettivi del vivere, spesso incartandosi su sé stessa (che è quanto di più congiunturale si possa concepire). Sto parlando delle associazioni di pensiero. E' innegabile che a certe questioni il pensiero comune (si fa per dire, diciamo quello che va per la maggiore) abbia appioppato particolari connotazioni che sono difficilissime, se non impossibili, da superare. Non posso ricordare, ovviamente, ma è possibilissimo che il giorno stesso in cui ho scritto questo pezzo io mi sia fatto due uova di tagliatelle (intendo fatte da me, ho la macchina per tirare la pasta fissa al tavolo di cucina) o magari una pizza, e se l'ho fatto di sicuro c'è andato dietro un quartino di sangiovese (nel primo caso) o magari una birra (nel secondo). Lo dico perché l'idea del suicidio è quanto di più lontano io possa immaginare dal mio approccio esistenziale (in risposta al prevedibile sarcasmo di eventuali salutisti, posso dire che mi alimento in regime di eccesso controllato che è un'alternativa tutta da valutare), e non perché non l'abbia presa in considerazione. Avere un consolidato equilibrio psichico dovrebbe impedirmi di scrivere dell'eventualità di togliersi la vita? Non credo. Credo piuttosto che persone come Wallace abbiano toccato picchi altissimi della potenzialità intellettuale umana, più di quanto potranno mai fare i prevedibili positivisti che in fondo ripetono sempre quei tre o quattro concetti e sono fisiologicamente incapaci di empatizzare con chi per un motivo o per l'altro vive in sofferenza.
queffe ha scritto: Uno degli argomenti dei quali ho riflettuto di più, dicevo, con l'eccezione, rispetto ad altri temi, di non essere proprio riuscito a farmi un'idea.
  Capisco benissimo. Di quello altrui ritengo decoroso non farsela, credo. Del proprio, nel caso, mi piace immaginarlo come l'opportunità di farsi quattro risate post-mortem (se e quando) delle cazzate che qualcuno senz'altro si sentirà in dovere (più probabilmente in piacere) di dire. Io che ritengo la mia volontà una diretta conseguenza degli eventi che caratterizzano la mia vita, mi astengo dall'esprimere previsioni.
queffe ha scritto: in Graziano (volutamente adesso confondo voce narrante e protagonista)
Succede anche a me  :asd: .
Grazie del bel commento @queffe . Alla prossima.  :super:

Re: Lili (3di?)

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Bob66 ha scritto:Avere un consolidato equilibrio psichico dovrebbe impedirmi di scrivere dell'eventualità di togliersi la vita? Non credo.
Perfettamente d'accordo. Non volevo dire questo.
E, però, quando si sceglie di farlo (intendo: scriverne), si deve mettere in conto che si vanno a toccare corde che certe associazioni di pensiero le possono far risuonare davvero forte. Il testo, mai come in questo caso, smette totalmente di essere dell'autore, di seguirne gli intenti. E diventa del lettore.
 
Bob66 ha scritto:Ah, e se comunque un giorno dovessi decidere di togliermi la vita, sarà con una quantità spropositata di cappelletti.  :P
Oh, sì: anch'io sceglierei senz'altro di finire così goduriosamente. E penso che sarebbe il maiale (in tutte le sue parti commestibili, che, notoriamente, sono tutte le sue parti :asd: ) lo strumento che userei.
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