La tomba dei lottatori cap1 di 3
Posted: Fri Jan 08, 2021 5:42 pm
Vista dalla brughiera, la villa così buia e diroccata, faceva pensare a un rudere abbandonato.
Aveva visto tempi migliori, con i suoi tre piani adorni di statue e vetrate, ma adesso giaceva sbilenca, tra rovi e calcinacci, con porte e finestre sbarrate da tavole di legno fradicio.
Diroccata sì, ma tutt'altro che abbandonata.
Un lampo squarciò il cielo.
Luce livida, fragore. La stanza di nuovo immersa nel buio, interrotto solo dal chiarore tremulo delle candele. Che erano sparse qua e là, a gruppi di cinque, dentro bacinelle di smalto scrostato e legate insieme con uno spago, che a gocciolare e piegarsi non dessero fuoco al resto. Armadi con sportelli divelti, tendaggi di velluto sdrucito, divani e poltrone consunti, tavoli e sedie sciancate. Ma soprattutto carte. Libri per lo più, ma anche documenti e riviste, che erano ovunque: fuori e dentro casse e scatoloni, accatastati lungo i muri e sulla scala fino al piano di sopra, lasciando appena lo spazio per un piede.
Luce, fragore. Buio.
Miss Connor ebbe un sobbalzo. Si guardò intorno e riprese a sfogliare il suo libro, che aveva perso quasi tutta la rilegatura e metà delle pagine, così che a girarle restavano in mano ed era impossibile tenerle insieme e dunque, tanto valeva lasciarle andare, ad ammucchiarsi per terra, come foglie d'autunno.
«Piove» fece Miss Preston sporgendosi dalla balaustra.
L'altra annuì senza nemmeno alzare la testa «Certo che piove. Lo fa da mesi.»
«È un bene per le piante, non crede?»
«E allora perché le annaffia?»
«Perché sono di plastica. E a loro se piove o c'è il sole non interessa affatto.»
«Ah, ecco.»
Miss Preston scese canticchiando. Ogni vasetto la sua spruzzatina. Fine della scala, fine dei vasetti, fine dell'acqua. Dosaggio perfetto.
Accarezzò i petali e sorrise «Belle le mie roselline.»
«Margherite, miss Preston. Quelle sono marghertite.»
Le gettò un'acchiataccia «Sono...»
«Di plastica, certo. E a loro...»
L'altra sbattè l'inaffiatoio sul tavolo «Senta!» fece minacciosa.
«Senta lei, invece: sono quasi le cinque.»
«Come lo sa?»
«Lo so e basta. Oggi tocca a lei. Si dia una mossa.»
Un tramestio. Un colpo. La botola al centro della stanza si sollevò e la testa del dottor Russel emerse con i baffi impolverati e gli occhiali a sghimbescio.
«Niente, l'impianto elettrico è andato.»
«Che notizia!» fece miss Connor.
«C'è un falso contatto. Colpa degli asparagi, di sicuro.»
«E allora li elimini.»
«Impossibile. Ormai sono radicati alle fondamenta.»
Buttò sul pavimento la cassetta degli attrezzi e, con un certo sforzo, tirò fuori i suoi cento chili.
«Il tè?» fece fregandosi le mani.
«Il fango.» disse Miss Connor squadrando le galosce incrostate «Dovrebbe lasciarle di sotto.»
Dall'altro lato della stanza la porta si spalancò e Miss Gaynor apparve.
Per un momento restò sulla soglia, così che si potesse ammirare la figura slanciata, il portamento aristocratico e l'abito di raso e strass, con guanti abbinati.
Poi si precipitò furente «Immonde creature, feccia rivoltante! Di tutte le...»
«Cos'ha perso stavolta?»
«Non l'ho persa! Me l'hanno rubata!»
Russell le corse incontro e la spinse delicatamente verso la poltrona «Qualunque cosa sia, la ritroveremo, si calmi.»
Miss Gaynor aprì la poscette, prese a frugare finché tirò fuori portacipria e rossetto.
«Rosso fiamma. Le sta bene» disse Russell.
«Certo che mi sta bene.» lo passò tre volte, sopra e sotto. Strinse le labbra, le aprì, si guardò girando la testa e allungando il collo «Tutto mi sta bene» e chiuse il portacipria con uno scatto secco.
Un lampo. Un boato. Da chissà dove, una corrente d'aria gelida spense le candele sulla scala.
Dal buio emerse Evelyn Parker. Pallida, lo sguardo assente, il volto incorniciato da una coroncina di gigli, il corpo sottile avvolto nel tulle dell'abito da sposa, scendeva lentamente, tenendo in una mano una candela e nell'altra un macete.
Accese con la sua le candele che si erano spente, si guardò intorno, scelse una poltrona e vi si accomodò.
«Mi si sono rotte le acque.» annunciò con voce incolore.
«Ancora!» fece miss Connor «Quante volte devo dirglielo? Lei non è incinta.»
L'altra scattò in piedi «Lo sono, eccome!» inveì.
«Da tre anni?»
«E allora questo cos'è?» disse sporgendo il ventre gonfio.
«Un pallone o magari un cuscino...»
«La mia stola di volpe! Allora sei stata tu, brutta troia!» urlò Miss Gaynor avventandosi con le dita adunche.
«Bada.» disse l'altra allungando il macete.
In quel momento la porta della cucina si aprì e miss Preston entrò con un vassoio carico di tazze e piattini.
«Il tè!» disse festosa «Qualcuno mi faccia spazio sul tavolino.»
«Non vedo Collins.» disse Russell accatastando le carte in un angolo.
«Se è per questo non vedo nemmeno biscotti né torta» fece Miss Gaynor stizzita « È forse questo un té? No, ditemelo. »
Da un armadio in fondo alla stanza, un ronzio, poi rumore di ingranaggi. Lo sportello si aprì e una grossa pendola cominciò a inclinarsi mentre batteva cinque rintocchi.
«Mioddio, le sette, è tardissimo!» fece Miss Preston correndo a raddrizzarla.
«Le quattro, invece. Abbiamo tutto il tempo» fece secca miss Connor.
In quel momento due colpi, la porta d'ingresso ebbe un tremito. Ancora due colpi.
Russell l'aprì e Collins entrò barcollando. Portava in braccio un giovane svenuto, con indosso una camiciola che gli copriva a malapena le gambe.
«Liberate il divano, presto!»
Lo adagiò, si slacciò il cinturone con le pistole e lo posò sul tavolo.
«Collins, che significa questo?» disse miss Connor.
Miss Preston si avvicinò, poggiò le mani sulla spalliera, allungò il collo e si sporse. Piano, come ci fosse una belva invece che un ragazzo biondo, atletico, labbra carnose, naso dritto, delicato e virile allo stesso tempo e momentaneamente privo di sensi.
«Chissà di che colore avrà gli occhi» disse sottovoce.
«Azzurri» fece miss Gaynor, affacciata accanto a lei «O magari verdi.»
«Io li preferirei azzurri. Come certi laghi che riflettono il cielo» disse l'altra, col mento poggiato su una mano «Se lo ricorda il cielo, miss Gaynor?»
Quella si strinse nelle spalle.
«Però... è ben messo, non trova?»
«Sì. Molto, molto ben messo.» disse Miss Gaynor e dette un'altra passata di rossetto.
In quel momento anche Evelyn Parker si affacciò alla spalliera «Michael!» urlò con occhi spiritati e si avventò col macete alzato «Infame maledetto!»
Miss Connor le fu addosso «Non è Michael» le afferrò il braccio «Michael era nero.»
«Meticcio. Lui era meticcio.» disse l'altra abbassando il macete «Brutta parola. Meticci sono i cani.» si girò e tornò a sedere «Del resto, lui, bastardo lo era. Di padre tedesco e madre ungherese. Zingara per la precisione. In queste condizioni non c'è da stupirsi se poi uno va in giro a ingravidare ragazze oneste.»
Il giovane emise un gemito. Aprì gli occhi e tentò di tirarsi su «Dove...?»
Collins gli mise una mano sulla spalla «Tranquillo, ragazzo. Va tutto bene.»
«Tutto bene?» fece stizzita Miss Gaynor «Fa preso lei a dire tutto bene. Qui si son fatte le sette e del mio tè nessuno se ne interessa!»
Il ragazzo si mise a sedere «Chi siete? Dove mi trovo?»
«Questa è la dimora degli Abbot» disse miss Preston aggiustandogli un cuscino dietro la testa «Piuttosto lei, come si chiama, caro?»
Quello aggrottò la fronte, esitò «Michael. Sì, il mio nome è Michael.»
«Michael! Lo dicevo io!» gridò Evelyn Parker, di nuovo in piedi col macete inastato.
«Coincidenza» disse miss Connor «Una pura coincidenza.»
«Oh sì, cara!» fece Miss Preston «Ne ho conosciuti a bizzeffe di Michael. C'è stato un periodo che i figli maschi li chiamavano tutti così. Anche mio padre si chiamava Michael... più o meno...»
Il ragazzo si guardava intorno spaesato «Voi siete gli Abbot?»
«Ma neanche per sogno! Abbot, figuriamoci!» fece miss Gaynor.
«Non ci sono» disse miss Preston.
«E dove...?»
«Via. Affari, vacanze o qualcosa del genere. Vuole una tazza di tè?»
«Sì, accidenti!» fece Miss Gaynor «Tutti vorremmo questa dannata tazza di tè!»
Aveva visto tempi migliori, con i suoi tre piani adorni di statue e vetrate, ma adesso giaceva sbilenca, tra rovi e calcinacci, con porte e finestre sbarrate da tavole di legno fradicio.
Diroccata sì, ma tutt'altro che abbandonata.
Un lampo squarciò il cielo.
Luce livida, fragore. La stanza di nuovo immersa nel buio, interrotto solo dal chiarore tremulo delle candele. Che erano sparse qua e là, a gruppi di cinque, dentro bacinelle di smalto scrostato e legate insieme con uno spago, che a gocciolare e piegarsi non dessero fuoco al resto. Armadi con sportelli divelti, tendaggi di velluto sdrucito, divani e poltrone consunti, tavoli e sedie sciancate. Ma soprattutto carte. Libri per lo più, ma anche documenti e riviste, che erano ovunque: fuori e dentro casse e scatoloni, accatastati lungo i muri e sulla scala fino al piano di sopra, lasciando appena lo spazio per un piede.
Luce, fragore. Buio.
Miss Connor ebbe un sobbalzo. Si guardò intorno e riprese a sfogliare il suo libro, che aveva perso quasi tutta la rilegatura e metà delle pagine, così che a girarle restavano in mano ed era impossibile tenerle insieme e dunque, tanto valeva lasciarle andare, ad ammucchiarsi per terra, come foglie d'autunno.
«Piove» fece Miss Preston sporgendosi dalla balaustra.
L'altra annuì senza nemmeno alzare la testa «Certo che piove. Lo fa da mesi.»
«È un bene per le piante, non crede?»
«E allora perché le annaffia?»
«Perché sono di plastica. E a loro se piove o c'è il sole non interessa affatto.»
«Ah, ecco.»
Miss Preston scese canticchiando. Ogni vasetto la sua spruzzatina. Fine della scala, fine dei vasetti, fine dell'acqua. Dosaggio perfetto.
Accarezzò i petali e sorrise «Belle le mie roselline.»
«Margherite, miss Preston. Quelle sono marghertite.»
Le gettò un'acchiataccia «Sono...»
«Di plastica, certo. E a loro...»
L'altra sbattè l'inaffiatoio sul tavolo «Senta!» fece minacciosa.
«Senta lei, invece: sono quasi le cinque.»
«Come lo sa?»
«Lo so e basta. Oggi tocca a lei. Si dia una mossa.»
Un tramestio. Un colpo. La botola al centro della stanza si sollevò e la testa del dottor Russel emerse con i baffi impolverati e gli occhiali a sghimbescio.
«Niente, l'impianto elettrico è andato.»
«Che notizia!» fece miss Connor.
«C'è un falso contatto. Colpa degli asparagi, di sicuro.»
«E allora li elimini.»
«Impossibile. Ormai sono radicati alle fondamenta.»
Buttò sul pavimento la cassetta degli attrezzi e, con un certo sforzo, tirò fuori i suoi cento chili.
«Il tè?» fece fregandosi le mani.
«Il fango.» disse Miss Connor squadrando le galosce incrostate «Dovrebbe lasciarle di sotto.»
Dall'altro lato della stanza la porta si spalancò e Miss Gaynor apparve.
Per un momento restò sulla soglia, così che si potesse ammirare la figura slanciata, il portamento aristocratico e l'abito di raso e strass, con guanti abbinati.
Poi si precipitò furente «Immonde creature, feccia rivoltante! Di tutte le...»
«Cos'ha perso stavolta?»
«Non l'ho persa! Me l'hanno rubata!»
Russell le corse incontro e la spinse delicatamente verso la poltrona «Qualunque cosa sia, la ritroveremo, si calmi.»
Miss Gaynor aprì la poscette, prese a frugare finché tirò fuori portacipria e rossetto.
«Rosso fiamma. Le sta bene» disse Russell.
«Certo che mi sta bene.» lo passò tre volte, sopra e sotto. Strinse le labbra, le aprì, si guardò girando la testa e allungando il collo «Tutto mi sta bene» e chiuse il portacipria con uno scatto secco.
Un lampo. Un boato. Da chissà dove, una corrente d'aria gelida spense le candele sulla scala.
Dal buio emerse Evelyn Parker. Pallida, lo sguardo assente, il volto incorniciato da una coroncina di gigli, il corpo sottile avvolto nel tulle dell'abito da sposa, scendeva lentamente, tenendo in una mano una candela e nell'altra un macete.
Accese con la sua le candele che si erano spente, si guardò intorno, scelse una poltrona e vi si accomodò.
«Mi si sono rotte le acque.» annunciò con voce incolore.
«Ancora!» fece miss Connor «Quante volte devo dirglielo? Lei non è incinta.»
L'altra scattò in piedi «Lo sono, eccome!» inveì.
«Da tre anni?»
«E allora questo cos'è?» disse sporgendo il ventre gonfio.
«Un pallone o magari un cuscino...»
«La mia stola di volpe! Allora sei stata tu, brutta troia!» urlò Miss Gaynor avventandosi con le dita adunche.
«Bada.» disse l'altra allungando il macete.
In quel momento la porta della cucina si aprì e miss Preston entrò con un vassoio carico di tazze e piattini.
«Il tè!» disse festosa «Qualcuno mi faccia spazio sul tavolino.»
«Non vedo Collins.» disse Russell accatastando le carte in un angolo.
«Se è per questo non vedo nemmeno biscotti né torta» fece Miss Gaynor stizzita « È forse questo un té? No, ditemelo. »
Da un armadio in fondo alla stanza, un ronzio, poi rumore di ingranaggi. Lo sportello si aprì e una grossa pendola cominciò a inclinarsi mentre batteva cinque rintocchi.
«Mioddio, le sette, è tardissimo!» fece Miss Preston correndo a raddrizzarla.
«Le quattro, invece. Abbiamo tutto il tempo» fece secca miss Connor.
In quel momento due colpi, la porta d'ingresso ebbe un tremito. Ancora due colpi.
Russell l'aprì e Collins entrò barcollando. Portava in braccio un giovane svenuto, con indosso una camiciola che gli copriva a malapena le gambe.
«Liberate il divano, presto!»
Lo adagiò, si slacciò il cinturone con le pistole e lo posò sul tavolo.
«Collins, che significa questo?» disse miss Connor.
Miss Preston si avvicinò, poggiò le mani sulla spalliera, allungò il collo e si sporse. Piano, come ci fosse una belva invece che un ragazzo biondo, atletico, labbra carnose, naso dritto, delicato e virile allo stesso tempo e momentaneamente privo di sensi.
«Chissà di che colore avrà gli occhi» disse sottovoce.
«Azzurri» fece miss Gaynor, affacciata accanto a lei «O magari verdi.»
«Io li preferirei azzurri. Come certi laghi che riflettono il cielo» disse l'altra, col mento poggiato su una mano «Se lo ricorda il cielo, miss Gaynor?»
Quella si strinse nelle spalle.
«Però... è ben messo, non trova?»
«Sì. Molto, molto ben messo.» disse Miss Gaynor e dette un'altra passata di rossetto.
In quel momento anche Evelyn Parker si affacciò alla spalliera «Michael!» urlò con occhi spiritati e si avventò col macete alzato «Infame maledetto!»
Miss Connor le fu addosso «Non è Michael» le afferrò il braccio «Michael era nero.»
«Meticcio. Lui era meticcio.» disse l'altra abbassando il macete «Brutta parola. Meticci sono i cani.» si girò e tornò a sedere «Del resto, lui, bastardo lo era. Di padre tedesco e madre ungherese. Zingara per la precisione. In queste condizioni non c'è da stupirsi se poi uno va in giro a ingravidare ragazze oneste.»
Il giovane emise un gemito. Aprì gli occhi e tentò di tirarsi su «Dove...?»
Collins gli mise una mano sulla spalla «Tranquillo, ragazzo. Va tutto bene.»
«Tutto bene?» fece stizzita Miss Gaynor «Fa preso lei a dire tutto bene. Qui si son fatte le sette e del mio tè nessuno se ne interessa!»
Il ragazzo si mise a sedere «Chi siete? Dove mi trovo?»
«Questa è la dimora degli Abbot» disse miss Preston aggiustandogli un cuscino dietro la testa «Piuttosto lei, come si chiama, caro?»
Quello aggrottò la fronte, esitò «Michael. Sì, il mio nome è Michael.»
«Michael! Lo dicevo io!» gridò Evelyn Parker, di nuovo in piedi col macete inastato.
«Coincidenza» disse miss Connor «Una pura coincidenza.»
«Oh sì, cara!» fece Miss Preston «Ne ho conosciuti a bizzeffe di Michael. C'è stato un periodo che i figli maschi li chiamavano tutti così. Anche mio padre si chiamava Michael... più o meno...»
Il ragazzo si guardava intorno spaesato «Voi siete gli Abbot?»
«Ma neanche per sogno! Abbot, figuriamoci!» fece miss Gaynor.
«Non ci sono» disse miss Preston.
«E dove...?»
«Via. Affari, vacanze o qualcosa del genere. Vuole una tazza di tè?»
«Sì, accidenti!» fece Miss Gaynor «Tutti vorremmo questa dannata tazza di tè!»