[LAB 4] Iron Man cap 1
Posted: Wed Aug 17, 2022 4:50 pm
Iron Man
Si chiamava Silvano, per tutti era Sino, io lo avevo soprannominato “Iron Man” (l’uomo d’acciaio).
Come uno dei personaggi dei fumetti Marvel ideati da Stan Lee negli anni ‘60, per le sue peculiarità fisiche.
Ma di quel nomignolo non avevo mai detto a lui né a nessun altro, per timore che glielo riferissero e la cosa non era consigliabile: poiché non non aveva un gran senso dell’humor e difficilmente l’avrebbe gradita.
Sino non leggeva fumetti, dubitavo che ne avesse mai aperto uno in vita sua, non aveva tempo da perdere e cose più serie di cui occuparsi.
Era d’animo buono e generoso, di quel senso della lealtà e dell’onore che una volta albergava negli uomini giusti.
Ma di carattere era assai suscettibile: se lo irritavi era meglio che ti eclissassi dal quartiere o ancor meglio dalla città.
Perché farlo arrabbiare era la cosa più sbagliata che potevi compiere nella tua giovane vita.
In quel tempo avevo quattordici anni ed ero poco più che un bambino, lui ne aveva diciassette e bambino, forse, non lo era mai stato.
Non era molto alto, sul metro e cinquantacinque: come me proveniva dalla Sardegna, entrambi avevamo alle spalle una famiglia che aveva abbandonato la terra d’origine per trovare lavoro nel ricco nord del paese.
Silvano riassumeva su di sé le note morfologiche dello stereotipo corrente più diffuso sul maschio sardo: basso di statura, nero di capelli, scuro di carnagione, asciutto e tonico nel corpo, di carattere ombroso e stringato di parole, testa dura come bronzo, ma non solo in senso lato.
Bisognava stargli lontani quando imbestialito decideva, nella più classica tradizione isolana, d’impiegare come arma impropria quella testa, piccola ma tosta come granito: dei nasi sanguinanti e i denti rotti, lasciati sulla sua strada si perdeva il conto.
Sino lavorava dall’età di quattordici anni, contribuiva in modo sostanziale al mantenimento della sua famiglia, composta dai genitori e quattro fratelli più piccoli, inclusa una nonna ottantenne a carico.
Possedeva un livello d’istruzione assai basico, fermo alla seconda media, che aveva abbandonato per cercarsi un lavoro.
Da subito lo aveva trovato, in nero, come manovale nell’edilizia o a scaricare cassette d’ortaggi e frutta ai mercati generali.
Mestieri che richiedevano grande energia e forza fisica, cosa di cui era straordinariamente dotato.
Dopo diversi impieghi precari, aveva trovato lavoro fisso, come posatore delle linee tranviarie, presso la società di trasporti torinesi.
Viveva in una delle fatiscenti palazzine popolari, con lunghe balconate a ringhiera della via San Secondo, nel tratto prossimo alla piazzetta di mercato del quartiere.
Ci fu un periodo di quasi un mese nel quale, come manovale del cantiere di rifacimento della linea tranviaria della via, lo si poteva vedere alacremente all’opera.
Con un paio di jeans lisi e stinti, a torso nudo, nella calura di quella stagione estiva, si prodigava in maniera instancabile per tutte le otto ore del lavoro.
Aveva qualcosa di epico col corpo brunito dal sole, le fasce muscolari guizzati e in grande evidenza sotto la pelle lucida di sudore; pareva uno di quegli attori dei film storici su Maciste in voga negli anni sessanta.
Avanzava portando su ogni spalla una traversina in massello di rovere del peso complessivo di novanta chili: quelle che si posano regolarmente distanziate e su cui vengono imbullonate le rotaie, con una facilità di due fuscelli.
La sera dopo cena lo si vedeva sempre al baruccio sull’angolo tra la via San Secondo e la via Legnano: il cosi detto “bar di Anna”, per via del nome della bella e giovane figlia del proprietario dell’esercizio.
Quella ragazza allora diciottenne era una piccola stella luminosa in quell’angolo di via di un quartiere operaio, fatto di vecchi palazzi ingrigiti dal tempo con angusti cortili ombrosi che sapevano di orina di gatto, nei quali i bambini giocavano a “campana” o ai “Quattro cantoni”.
Il fascino di quella incantevole brunetta era un richiamo irresistibile per tutti i maschi del quartiere in età post-puberale, che con la loro presenza colmavano le due salette del locale, consumando smisurate quantità di bevande, panini e quant’altro.
L’unico che non fosse lì per il fascino della giovane barista era Sino, il quale aveva occhi solo per tale Ornella Tenerelli, al quale era legato sentimentalmente da diverso tempo.
Questa Ornella era una biondina mia coetanea d’età, un corpicino esile e ben fatto, una grazia del portamento e dei modi che la elevavano sopra la mediocrità delle ragazzine che popolavano il rione.
Dal visino triangolare, valorizzato da un corto caschetto alla “Caterina Caselli”, si espandeva la luce di due occhi azzurro cielo, tanto luminosi da ricordare lo scintillio del diamante: uno sguardo che, nell’incrociarlo, ti abbagliava, scalzando ogni ombra dal più profondo recesso della tua anima.
La bella Ornella era figlia di una coppia che possedeva un banco di calzature al mercato che ogni giorno si teneva tra la via Legnano, nella quale abitavo con i miei e l’adiacente piazzetta San Secondo.
Anche a me Ornella piaceva una cifra: la vedevo presente al banco dei genitori ad assecondarli nella vendita durante le vacanze scolastiche o nelle giornate di sabato, in cui il mercato era attivo fino a tardo pomeriggio.
Ci conoscevamo in maniera epidermica, come si conoscevano più o meno di vista tutti i giovani del quartiere, ma non perdevo occasione di visitare il suo banco pur di poterla avvicinare.
Oltre alle calzature il banco offriva anche qualche articolo accessorio inerente al prodotto principale, ovvero: lacci per scarpa, calzascarpe, lucidi da scarpa, solette plantari anti odore e spazzole in crine.
Spendevo ormai quasi l’intera esigua paghetta settimanale per acquistare qualcosa al suo banco.
Al punto che mia madre iniziava a preoccuparsi che non avessi sviluppato una qualche parafilia riguardante il feticismo del piede.
Data quell’assiduità in veste di cliente, il nostro rapporto divenne più confidenziale.
Ma con mio grande sconforto, nelle nostre saltuarie chiacchierate, risultava chiaramente che l’unico ragazzo che le interessasse fosse l’energico e "roccino" ragazzo sardo.
Lui era divenuto una specie di eroe per i ragazzini più giovani, che ogni tanto facevano capannello intorno a lui e gli chiedevano di mostrargli la sua forza proverbiale.
Lui si conceda divertito e li dilettava con cose tipo piegare a “U”, con le mani, un tondino di ferro del diametro di quasi due centimetri, quelli usati per armare il cemento; oppure faceva la “bandiera umana”, reggendosi con le braccia stese a un palo segnaletico sull’angolo della via e portando il corpo a squadra con l’asta del palo stesso.
Aveva mani grosse e callose come pale di un Caterpillar e braccia scolpite di nervature, con bicipiti da gorilla.
Quelli meno informati e più ardimentosi del bar osavano misurarsi con lui a “braccio di ferro”, in quelle occasioni rischiavano di farsi spezzare l’arto, mentre lui, distrattamente, con la mano libera sorseggiava una tazzina di caffè.
Ma l’apice della sua fama lo raggiunse una sera proprio al bar di Anna.
Il bar, essendo l’unico luogo un po’ vitale del rione dopo le otto di sera, oltre che da giovani era frequentato anche da adulti d’ogni età: operai e pensionati che trascorrevano la serata con un bicchiere di vino o birra, calandosi in lunghe partite a briscola o scopone.
Fra i clienti, non di rado, comparivano anche piccoli esponenti della malavita del quartiere: i quali benché noti per le loro illecite attività, facendosi i fatti propri e senza dare fastidio alcuno, si mescolavano agli altri avventori.
Ma vi era tra loro un soggetto particolarmente losco e malvisto da tutti per via del mestiere che praticava: era protettore di prostitute.
Nel gergo sabaudo era chiamato “garga”: diminutivo del termine “gargagnano” che indicava appunto l’attività di pappone.
Si chiamava Silvano, per tutti era Sino, io lo avevo soprannominato “Iron Man” (l’uomo d’acciaio).
Come uno dei personaggi dei fumetti Marvel ideati da Stan Lee negli anni ‘60, per le sue peculiarità fisiche.
Ma di quel nomignolo non avevo mai detto a lui né a nessun altro, per timore che glielo riferissero e la cosa non era consigliabile: poiché non non aveva un gran senso dell’humor e difficilmente l’avrebbe gradita.
Sino non leggeva fumetti, dubitavo che ne avesse mai aperto uno in vita sua, non aveva tempo da perdere e cose più serie di cui occuparsi.
Era d’animo buono e generoso, di quel senso della lealtà e dell’onore che una volta albergava negli uomini giusti.
Ma di carattere era assai suscettibile: se lo irritavi era meglio che ti eclissassi dal quartiere o ancor meglio dalla città.
Perché farlo arrabbiare era la cosa più sbagliata che potevi compiere nella tua giovane vita.
In quel tempo avevo quattordici anni ed ero poco più che un bambino, lui ne aveva diciassette e bambino, forse, non lo era mai stato.
Non era molto alto, sul metro e cinquantacinque: come me proveniva dalla Sardegna, entrambi avevamo alle spalle una famiglia che aveva abbandonato la terra d’origine per trovare lavoro nel ricco nord del paese.
Silvano riassumeva su di sé le note morfologiche dello stereotipo corrente più diffuso sul maschio sardo: basso di statura, nero di capelli, scuro di carnagione, asciutto e tonico nel corpo, di carattere ombroso e stringato di parole, testa dura come bronzo, ma non solo in senso lato.
Bisognava stargli lontani quando imbestialito decideva, nella più classica tradizione isolana, d’impiegare come arma impropria quella testa, piccola ma tosta come granito: dei nasi sanguinanti e i denti rotti, lasciati sulla sua strada si perdeva il conto.
Sino lavorava dall’età di quattordici anni, contribuiva in modo sostanziale al mantenimento della sua famiglia, composta dai genitori e quattro fratelli più piccoli, inclusa una nonna ottantenne a carico.
Possedeva un livello d’istruzione assai basico, fermo alla seconda media, che aveva abbandonato per cercarsi un lavoro.
Da subito lo aveva trovato, in nero, come manovale nell’edilizia o a scaricare cassette d’ortaggi e frutta ai mercati generali.
Mestieri che richiedevano grande energia e forza fisica, cosa di cui era straordinariamente dotato.
Dopo diversi impieghi precari, aveva trovato lavoro fisso, come posatore delle linee tranviarie, presso la società di trasporti torinesi.
Viveva in una delle fatiscenti palazzine popolari, con lunghe balconate a ringhiera della via San Secondo, nel tratto prossimo alla piazzetta di mercato del quartiere.
Ci fu un periodo di quasi un mese nel quale, come manovale del cantiere di rifacimento della linea tranviaria della via, lo si poteva vedere alacremente all’opera.
Con un paio di jeans lisi e stinti, a torso nudo, nella calura di quella stagione estiva, si prodigava in maniera instancabile per tutte le otto ore del lavoro.
Aveva qualcosa di epico col corpo brunito dal sole, le fasce muscolari guizzati e in grande evidenza sotto la pelle lucida di sudore; pareva uno di quegli attori dei film storici su Maciste in voga negli anni sessanta.
Avanzava portando su ogni spalla una traversina in massello di rovere del peso complessivo di novanta chili: quelle che si posano regolarmente distanziate e su cui vengono imbullonate le rotaie, con una facilità di due fuscelli.
La sera dopo cena lo si vedeva sempre al baruccio sull’angolo tra la via San Secondo e la via Legnano: il cosi detto “bar di Anna”, per via del nome della bella e giovane figlia del proprietario dell’esercizio.
Quella ragazza allora diciottenne era una piccola stella luminosa in quell’angolo di via di un quartiere operaio, fatto di vecchi palazzi ingrigiti dal tempo con angusti cortili ombrosi che sapevano di orina di gatto, nei quali i bambini giocavano a “campana” o ai “Quattro cantoni”.
Il fascino di quella incantevole brunetta era un richiamo irresistibile per tutti i maschi del quartiere in età post-puberale, che con la loro presenza colmavano le due salette del locale, consumando smisurate quantità di bevande, panini e quant’altro.
L’unico che non fosse lì per il fascino della giovane barista era Sino, il quale aveva occhi solo per tale Ornella Tenerelli, al quale era legato sentimentalmente da diverso tempo.
Questa Ornella era una biondina mia coetanea d’età, un corpicino esile e ben fatto, una grazia del portamento e dei modi che la elevavano sopra la mediocrità delle ragazzine che popolavano il rione.
Dal visino triangolare, valorizzato da un corto caschetto alla “Caterina Caselli”, si espandeva la luce di due occhi azzurro cielo, tanto luminosi da ricordare lo scintillio del diamante: uno sguardo che, nell’incrociarlo, ti abbagliava, scalzando ogni ombra dal più profondo recesso della tua anima.
La bella Ornella era figlia di una coppia che possedeva un banco di calzature al mercato che ogni giorno si teneva tra la via Legnano, nella quale abitavo con i miei e l’adiacente piazzetta San Secondo.
Anche a me Ornella piaceva una cifra: la vedevo presente al banco dei genitori ad assecondarli nella vendita durante le vacanze scolastiche o nelle giornate di sabato, in cui il mercato era attivo fino a tardo pomeriggio.
Ci conoscevamo in maniera epidermica, come si conoscevano più o meno di vista tutti i giovani del quartiere, ma non perdevo occasione di visitare il suo banco pur di poterla avvicinare.
Oltre alle calzature il banco offriva anche qualche articolo accessorio inerente al prodotto principale, ovvero: lacci per scarpa, calzascarpe, lucidi da scarpa, solette plantari anti odore e spazzole in crine.
Spendevo ormai quasi l’intera esigua paghetta settimanale per acquistare qualcosa al suo banco.
Al punto che mia madre iniziava a preoccuparsi che non avessi sviluppato una qualche parafilia riguardante il feticismo del piede.
Data quell’assiduità in veste di cliente, il nostro rapporto divenne più confidenziale.
Ma con mio grande sconforto, nelle nostre saltuarie chiacchierate, risultava chiaramente che l’unico ragazzo che le interessasse fosse l’energico e "roccino" ragazzo sardo.
Lui era divenuto una specie di eroe per i ragazzini più giovani, che ogni tanto facevano capannello intorno a lui e gli chiedevano di mostrargli la sua forza proverbiale.
Lui si conceda divertito e li dilettava con cose tipo piegare a “U”, con le mani, un tondino di ferro del diametro di quasi due centimetri, quelli usati per armare il cemento; oppure faceva la “bandiera umana”, reggendosi con le braccia stese a un palo segnaletico sull’angolo della via e portando il corpo a squadra con l’asta del palo stesso.
Aveva mani grosse e callose come pale di un Caterpillar e braccia scolpite di nervature, con bicipiti da gorilla.
Quelli meno informati e più ardimentosi del bar osavano misurarsi con lui a “braccio di ferro”, in quelle occasioni rischiavano di farsi spezzare l’arto, mentre lui, distrattamente, con la mano libera sorseggiava una tazzina di caffè.
Ma l’apice della sua fama lo raggiunse una sera proprio al bar di Anna.
Il bar, essendo l’unico luogo un po’ vitale del rione dopo le otto di sera, oltre che da giovani era frequentato anche da adulti d’ogni età: operai e pensionati che trascorrevano la serata con un bicchiere di vino o birra, calandosi in lunghe partite a briscola o scopone.
Fra i clienti, non di rado, comparivano anche piccoli esponenti della malavita del quartiere: i quali benché noti per le loro illecite attività, facendosi i fatti propri e senza dare fastidio alcuno, si mescolavano agli altri avventori.
Ma vi era tra loro un soggetto particolarmente losco e malvisto da tutti per via del mestiere che praticava: era protettore di prostitute.
Nel gergo sabaudo era chiamato “garga”: diminutivo del termine “gargagnano” che indicava appunto l’attività di pappone.